La ’Ndrangheta è in Svizzera, ora lo dice anche una sentenza

Sei provvedimenti di fermo eseguiti in Svizzera e un centinaio in Italia. Era il 2021 e l’operazione contro la ’ndrangheta «Cavalli di razza», coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia (DDA) di Milano, «certificava» la strutturazione della criminalità organizzata nella Confederazione.
Lo scorso mese di aprile, nel processo seguito al blitz, la Corte d’Assise di Como, presieduta da Valeria Costi, ha pronunciato una sentenza con otto condanne e tre assoluzioni. Pene complessive per quasi un secolo, da un massimo di 16 anni e 10 mesi a un minimo di 5 anni. I magistrati dell’antimafia Pasquale Addesso e Sara Ombra avevano chiesto per gli undici imputati condanne complessive per 182 anni.
Le motivazioni della sentenza, depositate nei giorni scorsi, consentono ora di illuminare ulteriormente come la ’ndrangheta si sia infiltrata e strutturata in Svizzera.
Il documento, oltre 300 pagine, contiene in particolare due elementi che chiariscono come le cosche calabresi si siano radicate e operino dentro i nostri confini. L’analisi del Tribunale di Como si sofferma sulla presenza di esponenti residenti sul Lario e attivi nella locale di Fino Mornasco, «la cui esistenza è storicamente e giudiziariamente attestata dagli approdi delle celebri indagini denominate La Notte dei Fiori di San Vito e Insubria». Locale che, secondo gli inquirenti, «è ora composta da due distinte fazioni: una facente capo a Michelangelo Chindamo e dedita al traffico di stupefacenti; l’altra a Bartolomeo Iaconis». Ed è proprio nel percorso di sviluppo della locale di Fino Mornasco che entrano in gioco gli esponenti svizzeri.
«Un ruolo di primissimo piano nella locale è rivestito da Michelangelo e Pasquale Larosa - scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza - I due organizzano o presenziano a “mangiate” in Calabria e Lombardia e anche in Svizzera, dove sono attivi nel narcotraffico». Prima Pasquale (arrestato il 4 giugno 2020 mentre trasportava oltre un kg di cocacaina e condannato per questo a 4 anni e 9 mesi di carcere, ndr), e poi Michelangelo coordinano il traffico di droga sull’asse italo-svizzero, dirimendo i contrasti tra gli associati o con terzi, anche appartenenti a cosche differenti».
Le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia evidenziano altri elementi. «Larosa aveva affari in Svizzera perché lui lavorava in Svizzera», è una delle frasi riportate agli atti. E ancora: «Larosa aveva aperto un locale di ’ndrangheta in Svizzera ma non mi dica dove perché non lo so, a me interessava che mi pigliavano la cocaina e me la pagavano e basta». E alla precisa domanda: «La droga la vendevano in Svizzera?», la risposta è «Sì».
Rilevante anche la ricostruzione delle “mangiate”, che permettono di «documentare importanti momenti di crescita degli affiliati e di ricostruire gli equilibri interni». Affiliati di cui, in ogni caso, non si conoscono tutti i nomi: molti, infatti, «sono parenti di esponenti di altre famiglie».
Intercettazioni determinanti
Il traffico di sostanze stupefacenti, scrivono i giudici, è «la tradizionale attività attraverso la quale l’associazione alimenta i suoi introiti. La base logistica del commercio è ubicata in territorio comasco o nelle province limitrofe, ma conta di supporti di uomini e mezzi nel territorio svizzero».
E ancora: «Le indagini della squadra investigativa comune italo-svizzera hanno portato all’individuazione di soggetti impegnati nelle cessioni di sostanze stupefacenti, con autovetture predisposte creando un “imbosco” ove veniva occultata la sostanza stupefacente per il trasporto dall’Italia alla Svizzera».
Determinanti sono state le intercettazioni dei telefoni che i sodali della locale consideravano, sbagliando, criptati e inaccessibili alla polizia. «La decriptazione delle chat - si legge nella sentenza - è stata invece possibile grazie al supporto della polizia elvetica e di Europol, e ha permesso di acquisire prove inconfutabili del possesso di sostanze stupefacenti destinate al commercio».
Il tema del 416 bis
È interessante vedere come dopo l’arresto di Pasquale Larosa la Fedpol abbia trasmesso una serie di conversazioni che confermano «l’esistenza del vincolo associativo» di stampo mafioso degli indagati. Vincolo che il diritto penale italiano, con il famoso articolo 416 bis, riconosce e punisce. Al contrario di quanto accade in Svizzera, dove questo reato non esiste. In un passaggio della sentenza si parla, ad esempio degli accertamenti compiuti dalla polizia federale elvetica su «fittizie assunzioni lavorative in Svizzera» di alcuni imputati. L’obiettivo, spiegano gli inquirenti, era semplice: «commettere reati per i quali» eventualmente potesse procedere «l’autorità elvetica» ed evitare, soprattutto, «l’espulsione dal territorio svizzero, una delle aree di attività illecita del sodalizio». Gli ’ndranghetisti, come emerge dalle intercettazioni, erano convinti di potersi muovere molto più liberamente in territorio elvetico.
«Stanno bene in Svizzera - è una delle considerazioni più ricorrenti - in Italia ci hanno rovinati. Nella Svizzera non esiste il 416 bis». Un riferimento esplicito a quel reato che molti chiedono sia inserito anche nel Codice penale della Confederazione.
La lite e la sparatoria
Che la locale di Fino fosse operativa anche in Svizzera, si legge sempre nella sentenza, è provato pure dalla «raccolta di denaro» necessario a «provvedere ai fabbisogni economici dei detenuti» in Italia. Una raccolta che avveniva in modo sistematico pure tra gli affiliati residenti nella Confederazione. Infine, un riferimento all’utilizzo delle armi, documentato anche in territorio svizzero ma non in modo tale da certificare la natura «armata dell’associazione». Emblematico un episodio: una lite davanti a un bar durante la quale un affiliato, infastidito dal passaggio di auto con musica ad alto volume, esplose alcuni colpi di pistola. La polizia inviò una pattuglia ma non trovò traccia della sparatoria, «verosimilmente perché si trattava di un revolver».