Crisi in ucraina

La neutralità non è cambiata all’improvviso: ecco quel che scriveva il Governo nel ‘93

All’inizio degli anni Novanta il Governo trasmise al Parlamento un rapporto in cui si indicavano le nuove linee guida della politica estera - E già dopo la guerra in Jugoslavia ci si accorse che una parte considerevole dell’opinione pubblica si riferiva ancora a una nozione restrittiva di neutralità risalente all’epoca della guerra fredda
John Robbiani
01.03.2022 13:20

L’allineamento della Svizzera alle sanzioni imposte dall’Unione europea e dagli Stati Uniti sta dividendo la politica elvetica e l’opinione pubblica e anche molti media esteri hanno descritto come storica la decisione della Confederazione. Ma per capire le motivazioni del Consiglio federale occorre fare un passo indietro di 29 anni, quando il Governo trasmise al Parlamento – che lo accolse quasi senza far domande – il «Rapporto 93», in cui veniva illustrato il nuovo concetto di neutralità elvetica. Un nuovo approccio alla politica estera dettato dalla fine della guerra fredda.

L’esempio del Kosovo
Nel 2000 – pochi mesi dopo gli attacchi NATO alla Jugoslavia – il gruppo di lavoro interdipartimentale elaborò un documento intitolato «Neutralità della Svizzera – aspetti attuali» in cui, appunto, si analizzava la politica svizzera in materia di sanzioni durante la crisi del Kosovo. Un documento importante, anche perché dimostra come l’atteggiamento assunto oggi dal nostro Paese nei confronti dell’invasione russa dell’Ucraina non può essere considerato una svolta storica ma, semmai, la continuazione di una politica trentennale. Basti pensare che già nel 1990 la Svizzera – pur non facendo parte dell’ONU – aveva partecipato appieno alle sanzioni della Nazioni Unite contro l’Iraq, Ma torniamo al Rapporto 93. Il Consiglio federale annunciava la disponibilità di massima della Svizzera a partecipare in futuro a misure coercitive multilaterali nei confronti di Stati colpevoli di trasgressioni del diritto o della perturbazione della pace. Nel documento il Governo indica e distingue tre tipologie di intervento: sanzioni non militari decise dall’ONU, sanzioni militari avallate dalla Nazioni unite e – e questo è importante per analizzare la situazione odierna – sanzioni economiche al di fuori dell’ONU. Per quanto riguarda questo tipo di sanzioni il Consiglio federale afferma: «Anche lo Stato neutrale dev’essere fondamentalmente pronto a condividere misure assunte contro un trasgressore del diritto o un perturbatore della pace da un gruppo di Stati rilevante dal profilo regionale».

Diceva il Consiglio federale nel 1993: «Anche lo Stato neutrale dev’essere fondamentalmente pronto a condividere misure assunte contro un trasgressore del diritto o un perturbatore della pace»

La Svizzera dunque già all’inizio degli anni Novanta aveva affermato di ritenere compatibile con la sua neutralità la possibilità di partecipare a sanzioni economiche non necessariamente decise dalla Comunità internazionale. Per quanto riguarda invece le sanzioni non militari dell’ONU “la partecipazione svizzera è possibile nella misura in cui esse siano state decise dal Consiglio di sicurezza (...) e raccolgano il consenso compatto della comunità internazionale». Nel caso di sanzioni militari decise dalle Nazioni Unite invece «il sostegno svizzero è possibile in un modo o nell'altro e, di regola, la Svizzera non impedirà le azioni militari». È su questa base che, a partire dal 1998, la Svizzera applicò nei confronti della Jugoslavia sia l’embargo sulle armi decretato dall’ONU che le più incisive sanzioni decise dall’Unione europea. Svizzera e Austria ribadirono però la loro neutralità dal punto di vista militare, non permettendo alla NATO l’utilizzo del rispettivo spazio aereo.

Già all’epoca – sottolinea il rapporto – vista dall’esterno la pratica del Consiglio federale in materia di sanzioni era apparsa in parte incoerente e difficilmente comprensibile. «Ma ciò era dovuto non a una prassi oscillante in materia di politica della neutralità da parte del Consiglio federale, bensì dal fatto che l’ONU era riuscita a ottenere l’unanimità solo riguardo all’embargo sulle armi e che per quel che riguardava le altre sanzioni la Svizzera di conseguenza doveva attenersi al diritto della neutralità». «La Svizzera – sottolinea il rapporto - ha continuato a sostenere le sanzioni adottate dalla comunità degli Stati occidentali nella misura in cui erano compatibili con gli obblighi giuridici internazionali di uno Stato neutrale. Ciò ha permesso alla Svizzera, pur preservando il suo status neutrale, di partecipare alla maggior parte delle sanzioni adottate dagli Stati occidentali, ma non a tutte».

Il diritto internazionale
Ma cosa dice invece il diritto internazionale quando si parla di neutralità? «Gli obblighi degli Stati neutrali – spiega il rapporto – stabiliti nel diritto internazionale pubblico attuale si limitano essenzialmente alla non partecipazione militare. Nell’ambito economico gli Stati neutrali sono tenuti a rispettare il principio della parità di trattamento conformemente al diritto della neutralità. Tale obbligo tuttavia è limitato in primo luogo alla fornitura di beni che dal punto di vista militare favoriscono direttamente e in modo significativo la capacità di combattimento degli eserciti».

La neutralità in ambito economico
La Svizzera deve dunque astenersi dal sostenere militarmente una delle parti in conflitto. Ma ai giorni nostri sanzionare economicamente uno Stato (e non l’altro) non equivale automaticamente a favorire anche militarmente una delle parti? Non dovrebbe valere anche in questo caso il principio della parità di trattamento? «Il diritto della neutralità – risponde l’analisi interdipartimentale – permette in linea di massima la partecipazione a sanzioni di tipo economico. L’unica limitazione concerne il rispetto del principio della parità di trattamento, la cui portata non è tuttavia precisata in modo univoco dalla neutralità. Si può ritenere che esso si applichi unicamente a beni e servizi che contribuiscono alla capacità di combattimento degli eserciti».

Due approcci diversi e la mediazione
Esisterebbero cioè due approcci. Uno è chiamato «restrittivo» e permette alla Svizzera di applicare sanzioni ad ampio raggio garantendo unicamente il principio di parità di trattamento per quanto riguarda beni e servizi puramente militari . «Un approccio che presenta il vantaggio di concedere un maggiore margine d’azione agli Stati neutrali ma che rischia tuttavia di compromettere la credibilità della neutralità sia nell’ottica dello Stato colpito dalle misure, sia secondo l’opinione pubblica dello Stato neutrale stesso». Poi c’è l’approccio «estensivo», secondo cui lo Stato neutrale è tenuto ad astenersi da qualsiasi azione che potrebbe apportare ad una delle parti un vantaggio in vista dell’esito delle ostilità. Approccio, quest’ultimo, «che aumenta la credibilità della neutralità di uno Stato neutrale ma ne limita il margine d’azione». Un approccio «restrittivo» può inoltre indebolire il ruolo della Svizzera quale potenziale mediatore durante un conflitto. «Ma il conflitto nel Kosovo – sottolineano gli esperti – ha confermato che l’offerta di buoni uffici classici non è più prerogativa degli Stati neutrali. Oggigiorno gli sforzi di conciliazione sono in primo luogo opera di organizzazioni internazionali o di gruppi di Stati. Oltre a ciò le attività intraprese dalla Svizzera durante la crisi nel Kosovo hanno mostrato che nella gestione odierna dei conflitti l’offerta di buoni uffici classici rappresenta solamente una parte molto ridotta delle attività di politica estera e di sicurezza di uno Stato».

Già negli anni Novanta una parte considerevole dell’opinione pubblica si riferiva ad una nozione restrittiva di neutralità risalente all’epoca della guerra fredda

Se ne parlò (troppo?) poco
Già nel 2000, ma probabilmente questo vale ancora oggi, il gruppo di lavoro interdipartimentale aveva fatto notare come le discussioni emerse durante il conflitto in Kosovo avevano mostrato che il riorientamento della prassi svizzera in materia di neutralità, e soprattutto il «Rapporto 93», non erano stati sufficientemente recepiti e compresi. «Mentre il Consiglio federale ha mantenuto durante il conflitto la sua prassi avviata già all’inizio degli anni Novanta e presentata dettagliatamente nel 1993, una parte considerevole dell’opinione pubblica si riferiva invece ad una nozione restrittiva di neutralità risalente all’epoca della guerra fredda. Evidentemente, la portata del mutamento avvenuto nella politica di neutralità del Consiglio federale non era stata percepita da queste cerchie». L’analisi interdipartimentale su questo aspetto offre un altro spunto interessante. «Il Rapporto 93 è stato trasmesso al Parlamento per informazione ed è stato pubblicato. Con l’eccezione di membri del parlamento interessati, il rapporto è stato analizzato e commentato quasi esclusivamente a livello accademico. In particolare non è stato oggetto di una vasta discussione pubblica. Bisogna assumere che a tutt’oggi la modifica di concetto introdotta non è nota, o lo è solo parzialmente, a vaste cerchie dell’opinione pubblica».

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