«La sostenibilità non è una moda del momento»

Moda, ambiente e sostenibilità. Un triangolo importante. Vincente, anche. Come dimostra C&A attraverso il suo programma «We Take it Back». Della serie: riporta i vestiti che non usi più in negozio, ricevi uno sconto sul prossimo acquisto e, soprattutto, dai una mano al pianeta. Ne parliamo con Jean-Luc Battaglia, direttore per Svizzera e Italia del colosso fast-fashion.
Direttore, banalmente: com’è nata questa svolta sostenibile? E ancora: è un modo, se vogliamo, di chiedere scusa rispetto a politiche passate meno attente all’ambiente?
«Chiedere scusa, beh, credo proprio di no. Direi, piuttosto, che siamo tutti più coscienti e più consapevoli. Il nostro è un impegno. Legato non soltanto all’ambiente, ma anche alle condizioni di vita e di lavoro. Dei nostri dipendenti e dei nostri fornitori. È un progetto ampio. E attenzione: la sostenibilità non è una moda. Oggi la diamo quasi per scontata, ma quindici anni fa era una parola di cui molte aziende ignoravano l’esistenza. Di più, è un concetto di cui dobbiamo tenere conto per sviluppare delle strategie. Quindi, riassumendo, il nostro è un adattarsi al cambiamento e alla nuova normalità».
L’uomo, in fondo, si adatta di continuo.
«Se vogliamo fare un confronto, con la pandemia ci siamo tutti adattati. Se un anno fa ci avessero detto che avremmo lavorato quattro giorni su cinque in home office e che invece di viaggiare avremmo fatto riunioni solo online, beh, avremmo sorriso. E invece la capacità di adattarsi è un aspetto tipico delle aziende vincenti. Il nostro programma di riciclaggio dei vestiti parte da lontano. E risponde a una necessità precisa: fare business e vendere prodotti fashion in modo diverso».
Per riciclare vestiti e dare una circolarità alla moda l’aiuto dei consumatori è fondamentale. In questo senso, la popolazione svizzera non è affatto pigra in termini di sensibilità ambientale come potrebbe sembrare ad alcuni.
«No, assolutamente. Nel 2020 abbiamo raccolto 173 tonnellate di abbigliamento usato in Svizzera. È un numero impressionante, soprattutto pensando al preciso momento storico. I mesi di lockdown, i negozi chiusi e via discorrendo. Forse, proprio a causa della pandemia, la popolazione si è rivelata più sensibile a certi discorsi. In generale, però, penso che la Svizzera sia un paese attento all’ambiente. La gestione dei rifiuti, ad esempio, è avanzata. E la gente è sempre più consapevole delle problematiche ambientali. Secondo me, il programma ha avuto successo perché permette alle persone di ridare vita ai capi di abbigliamento che non indossano più. Capi che prima, magari, tenevano nell’armadio o buttavano o, ancora, portavano a enti come la Croce Rossa».


Poniamo di essere clienti di C&A: se consegniamo una borsa piena di abiti usati, in cambio riceviamo uno sconto del 15% sull’acquisto dell’articolo preferito. Quanto vi costa ragionare in questi termini?
«È, innanzitutto, un segno di quanto ci impegniamo. E della direzione che vogliamo prendere. Poi, va da sé, dietro c’è un costo, se vogliamo, di gestione logistica. I capi vanno raccolti e rispediti al nostro centro di distribuzione. In questo senso, l’impegno da parte nostra è forte».
Quanto è pesante questo impegno?
«Parlare di numeri è un po’ prematuro, in fondo siamo all’inizio del programma. Ma è chiaro che spostare 173 tonnellate di merce ha un costo. Per dire: dobbiamo riportare questi vestiti dal negozio al centro di distribuzione. Da lì, tocca al nostro partner. Viene, ritira gli abiti e dà loro nuova vita. O rivendendoli ai mercati dell’usato o avviando un riciclo vero e proprio che porterà ad altri prodotti. Penso in particolare alla produzione di stracci e strofinacci, ma anche alle imbottiture di certi prodotti di arredamento come i divani».
C&A è un’azienda dal respiro internazionale: l’aderenza al programma, nei vari Paesi coinvolti, è stata totale o avete notato sensibilità differenti?
«L’aderenza è stata totale, d’altronde un cambiamento di mentalità del genere non può essere fatto dall’oggi al domani. Bisognava programmare in maniera strutturata. Abbiamo testato l’iniziativa in Germania, quindi l’abbiamo allargata alla Francia e ora siamo in Svizzera. Oggi il programma è disponibile in 450 negozi in Europa. E il 20% di questi punti vendita è ubicato in Svizzera. È una cosa di cui andiamo molto fieri».
Posizionarsi come un’azienda sostenibile è anche una precisa scelta di marketing: dove finisce la sostenibilità e dove inizia il business?
«La nostra è dapprima una visione, poi semmai una strategia. Il nostro percorso nell’ambito della sostenibilità parte da molto lontano. Dieci, anche dodici anni fa. Quando era una parola che poche aziende conoscevano e utilizzavano. Poi, è vero, c’è sicuramente una correlazione fra i nostri sforzi e il business. Ma oggi non può esistere business senza sostenibilità».
In questo programma siete coadiuvati da Texaid. Come è nata la collaborazione?
«Un programma del genere richiede dei partner affidabili, capaci di garantire un certo controllo sulla filiera del riciclo. Texaid era una delle scelte più affidabili. Siamo partiti assieme e direi che la soddisfazione è reciproca. L’anno prossimo dovremmo essere affiancati da un secondo partner».
I colossi della moda hanno subito e sopportato varie critiche in passato, legate in particolare allo sfruttamento dei lavoratori in Paesi non esattamente democratici. C&A in questo senso quanti e quali passi in avanti ha compiuto?
«Questo è un aspetto fondamentale per un business sostenibile. Molti, erroneamente, pensano che sostenibilità significhi solo offrire un prodotto ecologico. Non è più così. Oggi, significa avere un impatto positivo a 360 gradi sulla filiera. Parlo di persone, prodotto, materiale, ambiente. La nostra catena di approvvigionamento include oltre un milione di persone, di regioni e culture diverse siccome produciamo nel Sudest asiatico, in Europa e nel Nord Africa. Migliorare le condizioni di lavoro è uno degli obiettivi principali del nostro codice etico e di qualsiasi business sostenibile. Un aspetto fondamentale per noi è la trasparenza. Non a caso, dichiariamo e pubblichiamo l’elenco aggiornato dei nostri fornitori. E non per niente nel 2019 siamo stati riconosciuti come il retailer fashion più trasparente».
Si riferisce al Fashion Transparency Index.
«Sì, è un’inchiesta mondiale. Le aziende vengono interrogate su vari aspetti. La sicurezza sul lavoro, il lavoro equo, il lavoro minorile. Problematiche spesso riscontrate in passato. Fatte cento le aziende cui è stata inviata la richiesta di informazioni, meno della metà ha risposto. Un fatto di per sé indicativo e sintomatico, ma intanto noi siamo risultati tra i migliori fra chi ha risposto. Ed è motivo di orgoglio. Questo, si badi, non significa aver risolto tutti i problemi. Ma, ribadisco, per noi è fondamentale che i fornitori rispettino il nostro codice etico. Che è molto rigoroso e segue direttamente i principi guida delle Nazioni Unite e dell’OCSE».
Spesso chiediamo alla politica di risolvere la questione climatica e altri temi chiave come il lavoro equo. Ma anche le aziende possono recitare una parte fondamentale, no? Vi sentite attori politici?
«Definirci attori politici forse è troppo, ma sicuramente siamo attori importanti. I politici devono definire gli obiettivi, ma lo sforzo per raggiungerli deve essere fatto da tutti. Dai cittadini come dalle aziende. Noi, nel nostro piccolo, possiamo impegnarci – e lo stiamo facendo – su vari fronti. Per esempio, nella riduzione delle emissioni di gas serra attraverso scelte precise: quando si può la rotaia al posto della gomma per i nostri trasporti. L’obiettivo, nel senso più nobile del termine, è lasciare ai nostri eredi un pianeta sano. In cui tutti possano vivere».


La sostenibilità, dicevamo, ha un costo. La politica fa abbastanza per incentivare scelte e strategie green?
«In questo momento, ci sobbarchiamo quasi tutti i costi. Da un lato è necessario rispettare le regole fissate dai governanti, dall’altro lavoriamo sulle tre P. Come azienda non puoi essere sostenibile se non curi il pianeta, le persone e il profitto. Perché, banalmente, senza profitto non puoi investire in maniera adeguata in programmi di sostenibilità. La sostenibilità è una variabile che entra nei costi dell’azienda. Poi sì, esistono agevolazioni (o bonus) ma sono poche e poco significative. Ma, ripeto, la sostenibilità ha un costo e bisogna tenerlo presente».
Riviste ed esperti del settore concordano: il futuro si chiama moda circolare.
«È lo step successivo della sostenibilità. Allargando il discorso, oggi c’è un interesse importante verso l’economia circolare. E ci sono varie ragioni sociali e ambientali per cui è importante arrivarci. Faccio qualche esempio: fino a cinque, sei anni fa tre quarti della plastica usata nella produzione di abiti finiva in discarica o nell’inceneritore».
Immaginiamo l’impatto ambientale...
«Un impatto di cui bisognava tenere conto. E ancora: meno dell’1% di materiale usato per la produzione di abiti veniva riciclato per tirar fuori nuovi abiti. Una perdita enorme. Un modello circolare, per contro, si propone di sviluppare prodotti pensando anche all’uso successivo. O pensando che, se caso, il prodotto può essere compostato senza creare un danno alla natura. È fondamentale, in questo senso, usare prodotti puri o, nel caso di quelli chimici, sicuri. Così le fibre possono essere recuperate per farne degli stracci o, appunto, buttate senza che abbiano un impatto ambientale. Non da ultimo, e qui torniamo alle tre P, c’è un discorso di equità sociale. Di salvaguardia della salute e sicurezza sul posto di lavoro. Per tacere della gestione dell’acqua e delle fonti di energia. Dobbiamo fare bene al pianeta, alle persone e creare profitto per poter investire in questo meccanismo. Noi in C&A siamo all’avanguardia: da anni abbiamo lanciato un programma cradle to cradle, che certifica il processo circolare. L’anno scorso abbiamo lanciato il primo denim al 100% circolare. Si tratta di prodotti dal costo più elevato, perché bisogna cercare fibre che rispondano a determinati criteri. Ma il cliente è disposto a pagare la differenza se percepisce l’importanza e cosa c’è dietro».
Per anni, l’Occidente ha sfruttato la pubblicità, la televisione e il cinema per promuovere un consumo quasi sfrenato a livello di vestiti. Ora, per contro, assistiamo ad acquisti più responsabili da parte dei consumatori. Non rischiate di tirarvi la zappa sui piedi?
«Non credo che un approccio sostenibile abbia un impatto negativo a livello di sviluppo del business. La nostra strategia non è mai cambiata: produrre vestiti pratici, senza tempo, facili da combinare e con un occhio rivolto alla qualità. Una qualità accessibile, perché vogliamo sfatare il mito secondo cui un prodotto accessibile non sia di qualità. Non è così. Crediamo che i nostri clienti siano felici perché acquistano qualcosa che fa bene al pianeta. Qualcosa di circolare, appunto, nella misura in cui può creare circoli virtuosi anche nei Paesi in cui produciamo».
