Summit

«Le due superpotenze e l’elefante nella stanza»

L’intervista a Davide Rodogno, professore di storia internazionale al Graduate Institute di Ginevra
©AP Photo/Markus Schreiber
Paolo Gianinazzi
16.06.2021 06:00

Durante i quattro anni di presidenza Trump, il multilateralismo è stato messo in discussione per lasciar spazio all’America First. Con questo viaggio Biden sembra voler segnare un vero e proprio cambio di passo. Ma può bastare per ridare credibilità al multilateralismo?

«Del ritorno al multilateralismo, della sua crisi o della sua rinascita, se ne parla da molto tempo. Ma riguardo all’incontro tra Biden e Putin, occorre fare una distinzione: il summit è proprio l’opposto del multilateralismo, la cui “immagine” perfetta rimanda invece a un tavolo circolare attorno al quale diversi attori discutono. Quello di oggi sarà invece un incontro bilaterale che ci farà tornare a un’epoca diversa, quella della guerra fredda e del summit tra Reagan e Gorbaciov. Ovviamente in un contesto completamente cambiato: la Russia non è più quella degli anni Novanta. Si tratta in ogni caso di un evento di rilievo. Anche se, da ciò che sappiamo, sarà un incontro nel quale ognuno dei due resterà sulle proprie posizioni, non certo un vertice risolutore. Come una partita di scacchi nella quale, invece che attaccare, ognuno cercherà di dimostrare all’altro che è in grado di difendere la sua posizione. Va poi detto che Biden è in Europa anche per affermare che l’America è tornata. Ma non per forza l’America del multilateralismo, bensì quella che si erge a superpotenza mondiale».

Ironicamente verrebbe da dire che lo slogan del viaggio in Europa di Biden potrebbe essere «make America great again».

«È vero. Con una differenza importante: il significato che Biden dà all’aggettivo “great” è profondamente diverso da quello del suo predecessore, che includeva in sé anche il concetto di “America first”. Per Biden far tornare gli Stati Uniti “grandi” significa cooperare con gli alleati europei. Ma non solo, significa pure proteggere il clima e difendere i diritti umani. Lo slogan potrebbe essere lo stesso, ma il suo significato viene stravolto. E poi, non bisogna dimenticare l’elefante nella stanza: la Cina».

A questo proposito, da anni si parla del passaggio dal «secolo americano» a quello cinese. Da una prospettiva storica quanto il sorpasso della Cina preoccupa l’amministrazione Biden?

«La questione cinese è sicuramente una priorità per gli USA e genera apprensione. Tuttavia il sorpasso in sé, da un punto di vista storico non penso sia un problema esistenziale. In passato tante super potenze hanno convissuto in situazioni di multipolarismo. Nell’era contemporanea è accaduto poche volte e per un tempo limitato che ci fosse un’unica super potenza. Nel 19. secolo tutta una serie di potenze si dividevano il mondo e la questione del soprasso tra una e l’altra era quotidiana. Su alcuni fronti la competizione era feroce, su altri invece si cooperava. Per questo non lo ritengo un problema esistenziale. Credo, però, che la penetrazione economica della Cina in tutto il mondo sia diventata un problema per gli investitori americani. E quindi gli USA ora vogliono “rimboccarsi le maniche” per stare al passo. Ma resto molto cauto sulle semplicistiche narrative dell’inevitabile declino degli USA».

Dopo la pandemia, il viaggio di Biden rappresenta anche il ritorno alla «politica che si guarda in faccia». Quanto ha inciso il virus sulla cooperazione internazionale?

«La pandemia ha messo a nudo il discorso di facciata della globalizzazione, mostrando che invece il paradigma resta quello degli Stati nazione: ogni Paese ha voluto reagire al virus a suo modo. Detto ciò, questo ritorno all’incontro “fisico” rappresenta un buon segnale per la Ginevra internazionale ed è importante anche per la Svizzera che, all’uscita della pandemia, si riafferma come il luogo che garantisce le migliori condizioni per questi incontri».

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