‘ndrangheta

Le «mangiate» e il figlio del «mammasantissima»: la ramificazione in Svizzera

La cosca era da tempo attiva in Svizzera e voleva espandersi vendendo armi e droga - I suoi membri si sentivano al sicuro: «Non c’è il 416 bis» – E con le attività lecite nascondevano i traffici

Potrebbe avere radici profonde l’inchiesta antimafia che ha portato ieri all’arresto in Svizzera di sei persone - due in Ticino - vicine alla ‘ndrina Molè. Radici che riportano almeno al 2016, quando il Ministero pubblico della Confederazione abbandonò l’indagine aperta nei confronti di «Peppe La mucca», sospettato di essere uno dei massimi esponenti della ‘ndrangheta in Svizzera. Ora - lo apprendiamo da documenti d’inchiesta italiani - tra le persone indagate c’è suo figlio, additato dalla Direzione distrettuale antimafia di essere il «capo dell’articolazione svizzera». Ma andiamo con ordine. Sei arresti in Svizzera e un centinaio nella vicina Penisola (a Reggio Calabria, Como, Milano e Firenze) frutto della collaborazione tra la Direzione antimafia italiana, la Procura sangallese, la FedPol e il Ministero pubblico della Confederazione. Inchiesta in cui, e lo scrive nero su bianco la Guardia di Finanza di Milano «appare l’interesse per il traffico di stupefacenti, nell’ambito del quale sono chiaramente emerse le mire espansionistiche verso la Svizzera e, in particolare, verso San Gallo, divenuto una vera e propria base logistica per alcuni dei soggetti indagati che vi si sono stabilmente insediati».

Il Selvaggio e il figlio del boss

Ma non c’è solo San Gallo. Due persone sono come detto state arrestate anche in Ticino (nel Luganese). Una di loro, come ci ha confermato l’Ufficio federale di giustizia, ha già accettato di venir estradata in Italia. La ‘ndrangheta, si evince, è sempre più radicata nel territorio elvetico. Lo ha ravvisato il Ministero pubblico della Confederazione – «la fattispecie svizzera presentava evidenti elementi di collegamento con i procedimenti penali» italiani, si legge nella nota stampa diramata ieri – così come la Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica la quale, nelle 1.418 pagine del «Fermo di indiziato di delitto», ricostruisce tutte le ramificazioni che coinvolgono soprattutto gli indiziati basati sul territorio elvetico e nel Nord Italia. Per quel che concerne la Svizzera e in particolar modo la gestione del traffico di stupefacenti, sono soprattutto due i nomi che emergono dal faldone e sono quelli di un 33.enne – detto «Il selvaggio» – di fatto domiciliato a Winterthur e di un 28.enne basato a Zurigo (figlio come detto di «Peppe La mucca» arrestato nel giugno del 2020 e fino a ieri agli arresti domiciliari in Italia). Quest’ultimo, insieme al fratello, è considerato dall’Antimafia «capo e promotore per gli scopi dell’associazione» in Svizzera, «con capacità di prendere in autonomia decisioni operative e di dare ai consociati ordini e disposizioni». Attivo in prima linea nel traffico di stupefacenti, il «boss» manteneva contatti con gli associati attivi in Lombardia. Lo attestano le numerose intercettazioni telefoniche e ambientali effettuate dalle forze dell’ordine.

Il summit a Zurigo

Tra queste emergono anche le «mangiate», ovvero gli incontri organizzati per la gestione di tutti gli affari e delle affiliazioni. Spiccano, per quel che riguarda le attività mafiose vicine al Ticino, quelle effettuate a Zurigo e ad Appiano Gentile, in provincia di Como. Sulle rive della Limmat gli inquirenti ne citano in particolare una avvenuta nel maggio del 2020: un summit nel corso del quale si è avuta «un’ulteriore conferma della ormai stabile radicamento trasnazionale della ‘ndrangheta, in quanto i presenti hanno discusso degli appartenenti ai locali stanziati in Germania e Svizzera». Il figlio del «mammasantissima» è altresì «titolare di attività commerciali in Svizzera utilizzate per coprire i traffici di droga». Le «mangiate», come detto, avvenivano anche ad Appiano Gentile dentro un box, un garage, tenuto sotto osservazione. In realtà, l’indagine ha permesso di appurare che lo spazio era ben più di una rimessa per automobili: la prima parte, quella a vista, aveva – si legge – «fattezze di un deposito (con scaffalature ed attrezzatura varia)». Ce n’era però un’altra «occultata da una piccola porta, costituita da un mini appartamento, con sala da pranzo, zona letto ed un bagno».

La nave bloccata a La Spezia

Collegamenti svizzeri ci sono anche con la nave approdata nel gennaio del 2020 nel porto di La Spezia con a bordo oltre 300 chilogrammi di cocaina. Droga che era in un container, nascosta tra le lastre di granito. Il carico proveniva dal Brasile. E qui entra in gioco «Il Selvaggio», il 33.enne residente a Winterthur. L’uomo si era recato di persona nel paese sudamericano per controllare che il carico fosse stato ben organizzato. Sempre lui, una volta che il container era arrivato nella Penisola, aveva fatto da corriere per il trasporto dello stupefacente. Senza però fare i conti con la Guardia di finanza che, intercettato il carico, aveva deciso di effettuare una «consegna controllata» cogliendo così sul fatto l’uomo. «Il selvaggio», capita la mal parata, si era dato alla fuga abbandonando sul posto la propria auto (targata Zurigo) e con all’interno i suoi documenti.

La Stilo con i ricettacoli

In provincia di Lecco, a qualche decina di chilometri dal confine, c’era anche il «carrozziere di fiducia». Luogo dove il 28.enne predisponeva le auto per effettuare i viaggi con la partita di droga. Anche qui, le «cimici» e gli appostamenti degli inquirenti hanno captato elementi molto utili per ricostruire la vasta organizzazione criminale. Ne è un esempio, la preparazione della Fiat Stilo con targhe lucernesi, portata appositamente denn’autorimessa per creare un ricettacolo ad hoc per il trasporto di stupefacenti. E poi c’è anche il corriere a bordo della Mini Cooper targata Grigioni, anch’essa con un nascondiglio, pizzicato il 16 settembre 2020 alla Dogana di Kriessern con 11 chilogrammi di polvere bianca.

L’AK-47, esplosivi e pistole

Ma non è tutto. A cavallo tra Svizzera e Italia, il figlio di «Peppe La mucca», insieme ad altri tre personaggi, aveva messo in piedi un vero e proprio traffico di armi. Nei rapporti viene ad esempio riportata una conversazione durante la quale il 28.enne dice: «Mi interessano armi... Se c’è prezzo lo compro io sto AK-47 (un fucile d’assalto, ndr)...1.500 e lo mando a prendere fino a là». In altre conversazioni dice «di avere la disponibilità di una pistola calibro 45 da vendere» siccome nel frattempo ne aveva già rilevate altre due. L’uomo era pronto ad offrire anche esplosivo al plastico.

La frontiera quale protezione

I componenti del clan sono stati intercettati anche mentre parlavano della Svizzera, e di come si sentissero al sicuro. «Non c’è 416 bis (l’articolo che in Italia condanna l’associazione di tipo mafioso, ndr)».

La società di Regensdorf

Dalla documentazione italiana emerge anche la presenza in Svizzera di persone già residenti nel nostro Paese e incaricate di assumere fittiziamente, tramite una società di loro proprietà di Regensdorf (canton Zurigo), altre persone vicino al clan. «È palese - si legge - che tale strategia fosse attuata al fine di evitare eventuali espulsioni o controlli della Polizia dal territorio svizzero, luogo nel quale era attiva una fiorente attività di spaccio».