L’intervista

«L’iniziativa anti-burqa non rende la Svizzera più sicura»

La consigliera Karin Keller-Sutter, capo del Dipartimento federale di giustizia e polizia, è in prima linea per contrastare l’iniziativa federale in votazione il 7 marzo
Karin Keller-Sutter in missione diplomatica in Arabia Saudita nel 2016, quando era ancora consigliera agli Stati.
Moreno Bernasconi
27.02.2021 06:00

Governo e Parlamento si oppongono al divieto di dissimulare il viso in pubblico, in votazione il 7 marzo. La consigliera federale Karin Keller-Sutter, capo del Dipartimento federale di giustizia e polizia, è in prima linea per contrastare l’iniziativa popolare «anti-burqa». L’abbiamo intervistata.

Signora consigliera federale, il suo Cantone, San Gallo, ha proibito il burqa. Perché lei è contraria all’iniziativa federale in votazione il 7 marzo?

«Perché il problema non è di competenza federale ma cantonale. Il Consiglio federale e il Parlamento svizzero si attengono alla Costituzione federale e la Costituzione sancisce che la vigilanza del rispetto delle norme comportamentali nello spazio pubblico è una competenza della polizia e quindi eminentemente cantonale. Gli esempi del Canton San Gallo e del Ticino mostrano che i Cantoni possono già decretare un divieto qualora lo ritengano necessario. Mi preme segnalare ai cittadini del Canton Ticino che se l’iniziativa dovesse venir accettata non ci sarà comunque una competenza federale. In Ticino non cambierebbe assolutamente nulla. Semplicemente, tutti i Cantoni svizzeri che non lo prevedono già sarebbero obbligati ad adattare le loro leggi cantonali al divieto della dissimulazione del volto. Precisando che non sono possibili eccezioni per il turismo».

Gli iniziativisti affermano che burqa e niqab non hanno nulla a che vedere con il Credo islamico: si tratterebbe solo di un simbolo dell’oppressione delle donne. Togliere questo simbolo non favorirebbe l’emancipazione femminile? Come donna non è sensibile a questo argomento?

«Certo che sono molto sensibile su questo punto! Ma non stiamo discutendo di cambiare la Costituzione afghana o iraniana. Stiamo parlando del contesto socio-culturale svizzero e di un fenomeno che - come dimostra uno studio dell’Università di Lucerna - in Svizzera riguarda non più di venti o trenta donne in maggioranza svizzere convertite all’Islam che portano il niqab spontaneamente per convinzioni religiose e probabilmente, come capita spesso per i convertiti, lo fanno per eccesso di zelo. A parte questa nicchia di persone, il fenomeno concerne un numero ridotto di turiste. Lei accenna però alla questione della costrizione. È opportuno chiarire subito che la coazione è punita dal diritto svizzero. Chi costringe una donna a portare il niqab contro la sua volontà è già sanzionabile penalmente. Insomma: davvero cambiare la Costituzione federale per impedire un fenomeno che riguarda un infimo numero di donne, sapendo che per combattere un’eventuale costrizione esistono già adeguati strumenti giuridici e che per di più i Cantoni sono liberi di legiferare sul piano cantonale se lo ritengono opportuno? Penso proprio che non sia opportuno».

Diversi musulmani ben integrati nel nostro contesto socio-culturale vedono di buon occhio l’iniziativa. Bocciando l’iniziativa non portiamo soprattutto acqua al mulino dei fondamentalisti islamici che operano in Svizzera?

«Non abbiamo informazioni che attestano dei contatti fra le cerchie di persone che portano il niqab e gruppi salafiti in Svizzera. Il Servizio delle attività informative ha identificato in Svizzera 60 terroristi o islamisti potenzialmente pericolosi. E in nessun caso - anche in quello di persone coinvolte in procedimenti penali per attività islamiste - vi è un indizio che le loro donne portino il niqab. Come detto, si tratta piuttosto o di turiste oppure di una nicchia molto esigua di donne che lo portano volontariamente, per eccesso di zelo fideistico. L’accettazione dell’iniziativa non risolve quindi nessun problema. Non rende la Svizzera più sicura, poiché per combattere il terrorismo abbiamo bisogno di ben altri strumenti, e le donne non diventano neppure più libere».

Non possiamo proibire nella Costituzione semplicemente ciò che non ci piace

Ma nelle nostre cerchie socio-culturali è normale che le persone mostrino il proprio volto. Dobbiamo accettare nei nostri spazi pubblici tutte le usanze delle altre culture, anche se rimettono in discussione le nostre stesse usanze?

«La domanda è pertinente e la mia risposta è sì ma a una condizione: che quelle usanze non provochino dei danni e non rappresentino un pericolo per la sicurezza collettiva e personale. Se non sono inoltre urtanti, la tradizione liberale svizzera ci chiede di essere tolleranti. Non possiamo proibire nella Costituzione semplicemente ciò che non ci piace; non sarebbe in linea con il nostro spirito di apertura nei confronti del diverso. Ma ribadisco che laddove sorgessero problemi i Cantoni sono in grado, come dicevo, di prendere i provvedimenti più opportuni e adottare leggi restrittive in questo campo».

Ma perché si è giudicato inaccettabile che un allievo si rifiuti di stringere la mano ad una maestra e nel caso del niqab ci si mostri invece tolleranti? Non c’è una contraddizione?

«Bisogna saper distinguere. Una scuola ha delle regole di funzionamento istituzionali alle quali tutti i membri di un istituto scolastico, in particolare gli alunni, sono tenuti ad attenersi, sennò il lavoro educativo non può essere svolto in modo ordinato. E un alunno non può certo mancare di rispetto ad una maestra, oltretutto perché è donna. Ma non siamo chiamati a votare sulla stretta di mano a scuola, bensì su un piccolissimo numero di persone adulte, la maggioranza delle quali svizzere, che hanno fatto una scelta per motivi religiosi. Se questo fenomeno dovesse tuttavia diventare rilevante e magari provocare problemi in una data regione, i Cantoni hanno la facoltà di agire per risolverli, come lo ha fatto ad esempio il Canton Ticino».

L’iniziativa si applica non solo al porto del niqab ma anche al mascheramento, ad esempio nel caso di manifestazioni violente. Questo divieto non ci porterebbe di conseguenza più sicurezza?

«Guardi che il divieto di mascheramento esiste già in diciassette Cantoni. Quando ero direttrice del Dipartimento di giustizia a San Gallo ho fatto introdurre il divieto di mascheramento e l’ho anche fatto applicare. Ciò che disturba i promotori dell’iniziativa è il fatto che in alcuni Cantoni che hanno adottato il divieto esso non venga poi attuato nei fatti. Ma questo è un altro problema, che non si risolve con un articolo costituzionale federale come questo. Il divieto di mascheramento - e so di cosa parlo - è una questione di tattica da parte della polizia. In determinati casi si rinuncia ad attuare il divieto dopo aver soppesato la situazione durante una manifestazione particolarmente accesa oppure per non provocare reazioni che possono degenerare. Pensiamo ad esempio al Canton Grigioni durante il WEF, dove evitare che una manifestazione degeneri è fondamentale. Per questo motivo il Canton Grigioni ha consapevolmente rinunciato a un divieto di mascheramento. Uri o Appenzello non hanno grandi manifestazioni sportive o scontri di piazza come altri Cantoni svizzeri. Vogliamo obbligarli ad introdurre un divieto di mascheramento tramite un articolo della Costituzione federale? Ogni situazione è diversa».

Mi tolga una curiosità. Se lei incontrasse in veste di presidente della Confederazione il presidente iraniano Rohani si metterebbe il chador oppure no?

«Non so cosa prevede esattamente il protocollo diplomatico in questi casi. Ma le posso dire che come consigliera agli Stati sono stata invitata a partecipare ad una missione diplomatica ufficiale in Arabia Saudita. Ho accettato di partecipare ma ad una precisa condizione: di potermi presentare senza alcun tipo di velo. Ho fatto presente che ero una rappresentante della Svizzera, con i suoi usi e costumi, e come tale volevo essere accolta. Cosa che è stata approvata dai miei ospiti senza alcun problema».

Il Ticino ha introdotto il divieto del burqa e del niqab e ciò non ha posto problemi particolari, a quanto pare neanche per le non poche turiste dei Paesi arabi, che si sono mostrate anzi piuttosto comprensive. Perché no, quindi?

«Perché i Cantoni che lo vogliono possono già farlo. Senza tuttavia imporre il divieto a quelli che non lo vogliono perché magari non desiderano apparire inospitali agli occhi dei turisti in provenienza da Paesi di cultura e religione islamica».

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