Lo scenario

L’ultimo turista sugli sci? «Arriverà nell’inverno 2040»

L’accelerazione degli effetti del cambiamento climatico mette in discussione storiche e consolidate abitudini – Claudio Visentin (USI): «La stagione degli sport invernali non ha futuro»
© CdT/Gabriele Putzu
Dario Campione
12.02.2024 06:00

«La stagione degli sport invernali, così come la conosciamo e continuiamo a immaginarla, non ha futuro. Bisogna prenderne atto. E agire di conseguenza». Claudio Visentin, storico del turismo, insegna da anni al Master in International Tourism dell’Università della Svizzera Italiana (USI) di Lugano. Le notizie sulle temperature “primaverili” registrate pochi giorni fa a St. Moritz e in Engadina, o sulle chiusure di decine di impianti sciistici sull’arco alpino non lo colgono di sorpresa. Semmai, al contrario, confermano quanto, a suo dire, gli esperti del settore - non soltanto i climatologi, ma anche appunto chi si occupa di turismo a livello scientifico - sostengono, spesso inascoltati, da tempo: nel giro di pochi anni, forse una ventina, sui pendii alpini non sarà più possibile sciare.

Funivie, seggiovie, rifugi, alberghi: il mondo che oggi è legato a una pratica sportiva capace di muovere ogni anno fino a 150 milioni di appassionati in tutto l’arco montano, dalla Francia all’Ungheria e alla Croazia, dovrà giocoforza ripensarsi. Non necessariamente ridimensionarsi. Di sicuro, trovare opportunità nuove.

Illusioni pericolose

«Nessuno si illuda di fronte a una nevicata più intensa di altre: da un punto di vista turistico, la stagione degli sport invernali non ha futuro - ripete Visentin al Corriere del Ticino - già adesso, il periodo per sciare si è ridotto di un mese rispetto al recente passato; i costi per le imprese sono uguali se non maggiori, ma i profitti si sono inevitabilmente ridotti. Inoltre, domina l’imprevedibilità: una volta si programmava la settimana bianca con mesi di anticipo, oggi è impossibile farlo». E non inganni nemmeno il risveglio di interesse che pare esserci per il turismo invernale. È il colpo di coda di un animale ferito a morte.

«La stagione sempre più corta, le temperature sempre più alte e l’impossibilità di una programmazione di lungo periodo fanno sì che il turismo sciistico sia sostanzialmente al capolinea - dice ancora Visentin - si chiude una storia secolare e si torna, paradossalmente, a un passato anche importante. In Svizzera, la scommessa degli sport invernali cominciò a St. Moritz 150 anni fa, ma si affermò seriamente soltanto nel periodo tra le due guerre mondiali. Prima di allora, la Confederazione era meta estiva: si andava sulle Alpi ad agosto, e al mare - a Nizza, ad esempio - d’inverno. Non dimentichiamo che prima degli impianti di risalita, sulle nostre montagne furono realizzate le ferrovie a cremagliera, sulle quali i turisti salivano non per andare a sciare ma per scoprire incantevoli paesaggi o sentieri sui quali camminare».

Anche senza gli sci ai piedi, quindi, esisteva una Svizzera turistica che adesso, causa forza maggiore, potrebbe tornare. «Per chi studia le dinamiche del turismo, il quadro è molto chiaro - insiste il docente dell’USI - qualcuno non sarà d’accordo, lo capisco, ma i numeri attuali non torneranno più. Serve una ritirata ordinata, sapendo, senza farsi soverchie illusioni, che si possono salvare in parte presenze e occupazione solo diversificando l’offerta e orientandosi sulle attività apprezzate dalle giovani e giovanissime generazioni: trekking, mountain bike, parapendio, zipline e così via».

Il tempo del turismo si allunga. E con un’estate che comincia a marzo e finisce a novembre è forse possibile una «strategia che non sia soltanto difensiva».

Sicuramente nasceranno stazioni molto esclusive e molto costose perché non è semplice portare la gente in alta quota
Claudio Visentin, storico del turismo, insegna da anni al Master in International Tourism dell’Università della Svizzera Italiana (USI) di Lugano

La chiave d’uscita

Non manca chi sta esplorando la possibilità di sciare nel cuore dei ghiacciai. «Sicuramente nasceranno stazioni molto esclusive e molto costose - dice Visentin - perché non è semplice portare la gente in alta quota». Ma questo non cambia, ovviamente, il quadro d’insieme. Che resta critico.

Il punto, allora, è: che fare? Quale strategia adottare? «Inevitabilmente, bisogna ragionare in una chiave d’uscita, di sganciamento dall’attuale - insiste lo storico dell’ateneo luganese - quindi evitare in primo luogo i grandi progetti: tanto per essere chiari, e senza voler essere profeti di sventura, Cortina 2026 è una pazzia, e presto lo capiranno tutti. Non servono, e sono da evitare, anche gli investimenti a sostegno dello statu quo. È sbagliato, ad esempio, insistere con gli impianti di innevamento artificiale. Non c’è l’acqua sufficiente per azionali né ci sono più le temperature adeguate affinché il manto nevoso attecchisca e resista».

Nessun nuovo impianto, allora. Né alcun potenziamento degli esistenti. Ma trasformazioni. Cambiamenti. Pure radicali, se necessario.

Un suggerimento che Visentin rivolge anche alla politica, tuttora incerta sul da farsi. «Ho tentato, forse in modo brutale, di essere estremamente chiaro - aggiunge - Se dovessi suggerire alla politica come comportarsi, direi innanzitutto di decidere se riconoscersi o meno in questa lettura della realtà. Poi, di agire strategicamente in maniera coerente: quello che rientra nello schema condiviso viene sostenuto e aiutato, il resto no. Appoggiare, insomma, soltanto le azioni che vanno in una direzione e disincentivare le altre».

L’accelerazione del cambiamento climatico e il moltiplicarsi degli effetti del surriscaldamento del pianeta sembrano essere molto più rapidi di quanto previsto. «Qualcuno aveva profetizzato la morte dello sci di massa nel 2050 ricorda Visentin - oggi si pensa al 2040 come ultimo anno in cui i turisti potranno mettere gli scarponi ai piedi». Uno scenario da brivido, ma non troppo irrealistico. Se si pensa che, nella scorsa stagione agonistica, in Coppa del mondo sono state cancellate per scarso innevamento o temperature elevate 8 gare su 43 tra gli uomini (il 18,6% del totale) e 5 su 42 tra le donne (11,9%).

«Le nostre montagne stanno cambiando: nevica più tardi, la neve è pochissima, più bagnata e più pesante - ha detto di recente Vanda Bonardo, responsabile nazionale Alpi di Legambiente, presentando alla stampa i contenuti del dossier Nevediversa 2023 - È la fine di un’epoca, che però va accompagnata da un nuovo modo ecosostenibile di ripensare il turismo assieme a un nuovo approccio culturale».

© CdT/Gabriele Putzu
© CdT/Gabriele Putzu

Perché presto il Ticino sarà senza neve

Di fronte ai numeri, ai dati, alle evidenze empiriche, ogni scetticismo e ogni titubanza dovrebbero scomparire, o quantomeno attenuarsi. Non è sempre così. Gli increduli e i negazionisti, in tema di cambiamenti climatici, purtroppo, sono sempre molto numerosi. Pure di fronte a cifre che indicano, in modo inequivocabile, la direzione verso cui si procede. «L’ultimo inverno con un innevamento nelle medie pluriennali sulle Alpi ticinesi è stato quello del 2020-2021 - dice al CdT Marco Gaia, responsabile previsioni e consulenze di MeteoSvizzera - Su scala decennale, la diminuzione sia dei quantitativi di neve a bassa-media quota, sia del numero di giorni con neve al suolo, è generalizzata. Con ovvie, ma piccole, differenze da località a località. Rispetto agli anni ’60 del secolo scorso, il periodo con neve al suolo nel semestre invernale si è accorciato ovunque di 20-30 giorni». Se volessimo individuare i quadranti alpini svizzeri più colpiti dal fenomeno ci accorgeremmo che «tutte le regioni sono più o meno nella medesima situazione. Una differenza - dice Gaia - si nota quando si sale ad alta quota, indicativamente sopra i 2.500 metri, e quindi di fatto fuori dal Ticino. A queste quote, la diminuzione dei quantitativi di neve e della durata dell’innevamento al suolo è meno marcata». Lo scenario futuro possibile, dice senza esitazione il meteorologo ticinese, «dipende da come la nostra società deciderà di affrontare la sfida dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale innescato dalle emissioni umane di gas a effetto serra. Gli scenari climatici CH2018 prevedono che, in assenza di provvedimenti a protezione del clima, l’isoterma di zero gradi d’inverno salirà di altri 400 - 650 metri entro il 2060. Si troverà quindi a una quota compresa tra i 1.300 e i 1.500 metri circa. Alla quota di Arosa, si prevede una riduzione della quantità totale di neve di circa il 40-50% rispetto ai valori odierni. A un’altitudine di 2.500 m sul livello del mare, si calcola una riduzione della quantità totale di neve di circa il 30% rispetto ad oggi. Con provvedimenti efficaci di protezione del clima, la riduzione sarebbe comunque presente, ma in modo decisamente minore». Espedienti tampone come l’innevamento artificiale non potranno compensare la mancanza di neve naturale. «Non è una soluzione duratura - spiega infatti Marco Gaia - la mancanza di neve naturale è dovuta al riscaldamento globale. Già oggi numerose stazioni sciistiche si ritrovano con costosi impianti di innevamento talvolta inutilizzabili, a causa appunto delle temperature troppo elevate. Poiché in futuro le temperature andranno ad aumentare ulteriormente, la soluzione non è la neve sparata dai cannoni». Peraltro, non sono pochi gli ambientalisti che criticano l’innevamento artificiale, accusato di creare ancora più problemi all’ambiente per le sue emissioni di CO₂ e per l’utilizzo eccessivo di acqua, bene sempre più prezioso e sempre più scarso. Un tema, questo, sul quale Gaia non vuole però intervenire: «L’impatto dell’innevamento artificiale sugli ecosistemi - dice - esula dal mio campo di competenze».
In questo articolo: