Tariffe

«Non vogliamo un accordo a qualunque costo»

Il Consiglio federale continua a negoziare, ma tende una mano alle aziende colpite – Parmelin contrario a ritorsioni: «Una escalation commerciale non è nell'interesse del Paese» – Confermato l'acquisto dei jet F-35: promessi a Washington anche altri acquisti di armamenti
©PETER SCHNEIDER
Luca Faranda
Paolo Galli
07.08.2025 22:15

L’aereo del Consiglio federale atterra alle 7.22 del mattino all’aeroporto di Berna-Belp. A bordo ci sono la presidente della Confederazione Karin Keller-Sutter e il «ministro» dell’Economia Guy Parmelin. Al loro arrivo, i dazi statunitensi al 39% sono realtà già da poco più di un’ora. Sull’aereo non c’è invece la Segretaria di Stato all’Economia, Helene Budliger Artieda. È rimasta negli Stati Uniti per continuare a negoziare un accordo migliore. Keller-Sutter e Parmelin, nonostante il viaggio lampo oltreoceano, non sono riusciti a trovare un accordo dell’ultima ora con l’amministrazione statunitense.

L’incontro con Rubio

A Washington, la presidente e il vicepresidente della Confederazione sono riusciti a incontrare solo un esponente dell’amministrazione Trump: il segretario di Stato Marco Rubio, responsabile della politica estera, che non è tuttavia direttamente coinvolto nella controversia sui dazi. «Il Consiglio federale si è recato a Washington per mantenere aperti i canali e allargare la questione ad altri esponenti dell’entourage di Trump», ha spiegato ieri Guy Parmelin in conferenza stampa, difendendo la strategia del Governo. L’obiettivo del viaggio, gli ha fatto eco Karin Keller-Sutter, era di presentare all’amministrazione USA (e soprattutto a chi è più vicino al tycoon, come Rubio) la nuova offerta.

«Nelle mani di Trump»

Al ritorno dagli Stati Uniti dei due «ministri», ieri il Consiglio federale si è riunito nuovamente ieri in una seduta straordinaria per fare il punto. Il Governo, però, è giunto alle stesse conclusioni di lunedì. «Si continua a negoziare per ottenere il prima possibile una riduzione dei dazi», ha sottolineato Karin Keller-Sutter, aggiungendo che l’offerta della Svizzera a Trump è stata «ottimizzata». E ora? «La decisione finale è nelle mani di Trump», ha ricordato la «ministra» delle Finanze, mettendo tuttavia in chiaro che «non vogliamo un accordo a qualunque prezzo». Oltre a ciò, anche per una questione di valori, «non possiamo fare promesse che non potremmo mantenere». La Svizzera, pertanto, non prometterà investimenti (nell’ordine di miliardi) che non è in grado di mantenere.

Investimenti militari

Sui contenuti della nuova proposta che Berna ha elaborato per Washington le bocche sono (quasi) cucite, ma Keller-Sutter e Guy Parmelin si sono tuttavia lasciati sfuggire qualche dettaglio davanti ai media: sono infatti stati promessi investimenti e la creazione di posti di lavoro su suolo americano da parte dell’economia privata elvetica. Ma non solo: sul piatto, Berna ha anche messo delle spese per gli armamenti. Chi auspicava uno stop all’acquisto degli F-35 (sulla quale c’è una controversia sul «costo fisso»: da 6 miliardi si potrebbe arrivare a circa 7,3), è probabilmente rimasto deluso. Il Consiglio federale, ha ricordato Keller-Sutter, non ha messo in discussione l’acquisto. Anche perché la Svizzera si troverebbe presto senza un’adeguata difesa aerea, ha aggiunto la «ministra» delle Finanze, citando però anche possibili ulteriori investimenti legati al progetto «Patriot». Il sistema di difesa terra-aria statunitense «necessiterà di ulteriori munizioni in futuro», si è lasciata scappare la presidente della Confederazione, confermando così che nell’offerta presentata agli Stati Uniti ci sono anche investimenti nel materiale bellico statunitense. È anche per questo motivo che il capo dell’armamento, Urs Loher, si è recato in visita ufficiale in Texas (dal 5 al 7 agosto) per incontrare alcuni rappresentanti di Lockheed Martin (il produttore degli F-35) «per un confronto specialistico».

Non ci saranno controdazi

Il Governo, dal canto suo, ha anche ribadito che «per il momento non sono previste contromisure doganali in risposta all’aumento dei dazi statunitensi». Per Guy Parmelin, «Una escalation commerciale non è nell’interesse del Paese». Il Consiglio federale vuole proseguire sulla via del dialogo, anche perché non sono da escludere altre sorprese. Alcuni Stati si sono infatti visti infliggere pesanti dazi, pur avendo già trovato un’intesa con Washington, ha sottolineato il «ministro» dell’Economia, ricordando al contempo che le tariffe doganali al 39% rappresentano un duro colpo per l’economia elvetica. In particolare a causa della differenza con altri concorrenti come UE e Giappone (con dazi al 15%) o Regno Unito (10%, come la quota proposta - e mai resa ufficialmente nota - nel primo accordo presentato da Berna).

«Prepararsi sul piano interno»

«Dazi così elevati, che colpiscono il nostro Paese, ci mettono in difficoltà nei confronti dei nostri concorrenti», spiega Parmelin, che ha presentato delle misure per «prepararsi sul piano interno». A suo avviso, le aziende elvetiche toccate (direttamente o indirettamente) dai dazi «devono potersi adattare alla crisi». Per questo motivo, il Consiglio federale vuole concentrarsi su un aiuto in particolare: le indennità per lavoro ridotto (ILR), che rappresentano «un ammortizzatore del mercato del lavoro». Questo «strumento collaudato» serve per preservare gli impieghi in caso di perdite di lavoro temporanee e inevitabili. In primavera il Consiglio federale ha esteso la durata massima delle indennità di lavoro ridotto da 12 a 18 mesi. Oltre a un accesso facilitato, la politica vuole anche estendere questo sostegno: le Commissioni competenti delle due Camere hanno approvato un’iniziativa parlamentare che propone di prolungare la durata massima dell’ILR entro un termine quadro dagli attuali 18 a 24 mesi, ricorda il Consiglio federale, aggiungendo che in questo modo le aziende avrebbero più tempo per adeguarsi alle nuove circostanze. Per aumentare questo periodo (da 18 a 24 mesi), il Parlamento potrebbe scegliere la via della legge federale urgente da poter approvare già durante la sessione autunnale in programma nel mese di settembre.

Non è la crisi pandemica

Parmelin ha tuttavia reso noto che il ricorso al lavoro ridotto non sarà come avvenuto durante gli anni della pandemia di coronavirus: «Potrebbero esserci ripercussioni congiunturali significative, ma non si prevede una vera e propria crisi macroeconomica comparabile alla pandemia». La stessa Segreteria di Stato dell’economia (SECO), dal canto suo, non prevede a breve termine un aumento massiccio delle richieste di lavoro ridotto, ha detto il responsabile della Direzione del lavoro Jérôme Cosandey, indicano che circa una richiesta su dieci attualmente è legata ai dazi statunitensi. Tuttavia, l’incertezza legata alle barriere doganali porterà comunque sicuramente le aziende a rinviare le decisioni di investimento e a limitare le assunzioni di personale. Parmelin non vuole tuttavia minimizzare le difficoltà, in particolare per le aziende particolarmente esposte sul piano delle esportazioni verso gli Stati Uniti (in particolare nella Svizzera occidentale e nelle aziende attive nell’arco giurassiano). A essere colpite dai dazi sarà infatti circa il 60 % delle esportazioni di beni svizzeri negli USA. Particolarmente toccate dalle tariffe, ha ricordato il «ministro» dell’Economia, sarebbe l’industria delle macchine, dei dispositivi medici, ma anche quella orologiera e alimentare con cioccolato, caffè e formaggio.

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