Sanità

Ospedali svizzeri sotto pressione: «Serve una trasformazione mirata»

L’associazione nazionale H+ ha presentato i risultati dello studio «Prospettive per il futuro del panorama ospedaliero» con vista sul 2045 – Emerge la necessità di puntare in tre direzioni: rafforzare il coordinamento, promuovere l’assistenza ambulatoriale, accelerare la transizione digitale
©Gabriele Putzu
Paolo Galli
28.11.2025 06:00

«Lo status quo non è un’opzione». Parte da questa considerazione il rapporto presentato ieri dall’associazione nazionale degli ospedali H+, in collaborazione con la società di consulenza PwC Svizzera. Lo studio sulle «Prospettive per il futuro del panorama ospedaliero svizzero» delinea quello che dovrebbe essere uno scenario ideale sul piano nazionale. Un obiettivo che imporrebbe addirittura una «trasformazione» - sostenibile, si sottolinea - del nostro sistema ospedaliero. Perché «senza una trasformazione sostanziale, non ci sarà personale qualificato a sufficienza per mantenere la stabilità del sistema. Si temono carenze, tempi di attesa più lunghi e un calo della qualità delle cure. Inoltre, le perdite finanziarie degli ospedali raggiungeranno circa 1,1 miliardi di franchi entro il 2045. La maggior parte degli ospedali dipenderà dal sostegno finanziario - aggiuntivo - dei propri proprietari e delle autorità pubbliche». Lo studio suggerisce anche tre linee guida, imprescindibili: rafforzare il coordinamento tra gli ospedali e migliorarne la profilazione; promuovere l’assistenza ambulatoriale; accelerare la trasformazione digitale. E questo vale anche per il Ticino e le sue strutture.

L’esempio del CCA a Ginevra

A Berna, per la presentazione del rapporto, era presente anche Alessandro Bressan, direttore dell’Ospedale Regionale di Bellinzona e Valli e membro del comitato di H+. «Lo studio propone tre direttrici fondamentali, che vanno nell’ottica di una rimodulazione degli ospedali, con ospedali di prossimità per le cure di base e una concentrazione delle casistiche complesse. E chiede di non fermarsi ai propri confini cantonali, ma di interpretare la risposta al fabbisogno crescente di cure attraverso un lavoro di carattere regionale, cercando collaborazioni anche tra pubblico e privato, con un coordinamento il più possibile armonioso». Lo studio evidenzia la necessità di una trasformazione, che non per forza però tocca tutti gli ospedali allo stesso modo. E la risposta non è la stessa per ogni situazione e ogni regione. «Certo, ogni regione deve sviluppare le proprie soluzioni come meglio crede e secondo le proprie necessità. Anche perché, come associazione, non siamo a favore di una pianificazione ospedaliera nazionale. Certo, crediamo nelle cooperazioni, e che siano possibilmente sempre di più. Ci sono d’altronde esempi (potenzialmente) virtuosi in questo senso. Basti pensare alla collaborazione tra Turgovia, San Gallo, Appenzello Interno ed Esterno, al loro tentativo di sviluppare una pianificazione comune, sovracantonale». In Ticino iniziano a vedersi le prime collaborazioni tra pubblico e privato. Lo stesso Bressan cita il progetto a Locarno tra l’ospedale La Carità dell’EOC e la clinica Santa Chiara del gruppo Moncucco, che tocca i reparti di maternità e ginecologia. «Si può fare, sì, anche in Ticino. E anzi dobbiamo cercare di sviluppare ulteriormente questo potenziale». A Ginevra, gli HUG e il gruppo di cliniche private Hirslanden sono andati oltre, progettando «il più grande centro di chirurgia ambulatoriale della Svizzera» - come viene annunciato nel sito internet dedicato -, il CCA, che dovrebbe aprire a metà 2026. «L’idea è proprio quella di separare i flussi dei pazienti ambulatoriali da quelli legati ai pazienti degenti in ospedale. E per trattamenti ambulatoriali, pensiamo sì alle operazioni chirurgiche ma anche a spostare determinate cure e terapie», spiega ancora il direttore dell’Ospedale Regionale di Bellinzona e Valli. Chiediamo al direttore Bressan: sono progetti replicabili anche in Ticino? «La volontà di andare in questa direzione c’è. Poi, inutile nasconderci, in Ticino abbiamo un’offerta capillare, ma nonostante questo credo si possa lavorare sempre di più a progetti comuni. Ciò che proprio non vediamo è la mano che ci imponga compiti dall’alto, a livello nazionale, ma piuttosto crediamo a partnership che nascano da singole iniziative, dal basso. Va ricordato che metà degli ospedali svizzeri è in cifra rossa». Insomma, presto o tardi saranno costretti a ragionare nella direzione suggerita dallo studio, già nota anche precedentemente.

La valenza politica dell’appello

Alessandro Bressan fa riferimento anche alle cifre emerse a inizio settimana. L’Ufficio di statistica ha infatti riassunto la situazione degli ospedali svizzeri in cifre, parlando di una perdita per l’esercizio 2024 di 347 milioni di franchi. E poi ancora: quasi due terzi (62%) degli ospedali pubblici hanno registrato un risultato negativo, mentre tra i privati la quota scende al 37%; due strutture su tre hanno visto peggiorare la propria situazione finanziaria rispetto all’anno precedente; e i costi salariali sono cresciuti del 3%. Insomma, sono cifre molto chiare, che lasciano poco spazio alle interpretazioni e alla possibilità di puntare sullo status quo. «Lo studio presentato dall’associazione nazionale degli ospedali guarda al 2045, quindi su un lasso di tempo di 20 anni, e le sue tre indicazioni non rappresentano, in realtà, qualcosa di davvero nuovo. Sono direzioni già prese, che vanno sostenute e che richiedono una serie di condizioni quadro per accompagnare questa trasformazione. Condizioni che coinvolgono tutti gli attori, dalla politica - federale e cantonale - agli assicuratori, dagli ospedali stessi alla popolazione. Tutti siamo coinvolti in questo processo di trasformazione, che è necessario proprio alla luce di una sostenibilità finanziaria sempre più precaria. E se non facciamo nulla, in base alla demografia e, quindi, al fabbisogno crescente di cure e di personale, non avremo modo di rispondere con la qualità richiesta e ovunque in Svizzera. Queste misure sono fondamentali proprio per mantenere anche in futuro un alto standard di qualità del nostro sistema ospedaliero e per rispondere alle esigenze della popolazione». Insomma, il richiamo è politico, la riflessione riportata da questo studio è politica, così come lo sono le conclusioni. Il documento evidenzia: «Gli ospedali possono sfruttare appieno il potenziale dei tre campi d’azione solo se sono soddisfatte le condizioni quadro, i prerequisiti e le possibilità di finanziamento iniziale. Pertanto, i responsabili politici devono innanzitutto garantire determinate condizioni quadro che consentano, o addirittura accelerino, il cambiamento». Alessandro Bressan ammette: «Certo, la valenza dello studio è soprattutto politica, anche se utile per tutti gli attori in gioco. Le richieste sono quelle di accompagnare e sostenere il cambiamento, eliminando tutto ciò che è di intralcio alla qualità delle cure, a cominciare quindi dalla burocrazia. Oltre a questo, un tema molto delicato è quello delle tariffe. Le tariffe in ambito ambulatoriale devono aiutare questa transizione, senza portare a perdite eccessive rispetto alle cure stazionarie, anzi riuscendo a coprire i costi». Insomma, si chiedono nuovi equilibri. «Si, vanno rimodellati. E la politica deve darci una mano. Poi noi stessi dovremo muoverci nella direzione di eliminare doppioni e burocrazia. Il sistema ha ancora un buon potenziale di miglioramento dal punto di vista dell’efficienza e di percorsi di cure più integrate».