Accordo con l’indonesia

Patto col diavolo o intesa green?

Il nocciolo della questione nel dossier sul quale votiamo è l’olio di palma, usatissimo a livello industriale, ma spesso ottenuto con pratiche dannose per l’ambiente — Il fronte del sì mette l’accento sui nuovi standard imposti — Per i contrari si tratta di mero ecologismo di facciata
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Contraria, Greta Gysin: «Si incoraggia ancora un’economia che non è sostenibile»

Greta Gysin. © Keystone/Peter Klaunzer
Greta Gysin. © Keystone/Peter Klaunzer

Diversi ecologisti affermano che l’accordo sia un traguardo: si inizia a fare la cosa giusta in un mondo globalizzato, dicono. E di questo mondo fa parte anche la Svizzera. Nel nostro Paese si guadagna infatti ogni secondo franco con esportazioni. L’accordo non ci dà la possibilità di iniziare a co-creare una globalizzazione più ecologica?

«Nell’accordo si fa un tentativo interessante: legare il commercio di una materia prima – l’olio di palma – a criteri ambientali e sociali. Il problema è che lo si fa male, basandosi su un marchio, l’RSPO, che da anni è al centro delle critiche proprio perché non dà garanzie sufficienti riguardo alla protezione dell’ambiente e il rispetto dei diritti umani. Inoltre il capitolo sulla sostenibilità e i diritti umani non sottostà al tribunale arbitrale e non è quindi vincolante. Di fatto il miglioramento è solo teorico e sulla carta, ma non nella realtà delle cose. A maggior ragione se si considera il fatto che già oggi la quasi totalità dell’olio di palma che consumiamo in Svizzera è certificato RSPO: nei due grandi distributori elvetici si parla del 98%. Insomma: ci si vende per miglioramento uno standard che il mercato ha già da tempo fatto suo».

Anche il WWF afferma si tratti di un primo, benché timido, esempio di imposizione di criteri ecologici e sociali a condizioni commerciali. Perché un’organizzazione simile dovrebbe essere favorevole a un’intesa che danneggia l’ambiente?

«È la differenza tra chi studia l’accordo sulla carta, e chi ne vede gli effetti problematici nella realtà. L’associazione svizzera PanEco, che opera in Indonesia in progetti per la sostenibilità e la biodiversità, si oppone all’accordo perché conosce la realtà indonesiana, vede gli effetti nefasti di un certo tipo di economia e sa della mancanza di controlli e sanzioni. Tre quarti delle piantagioni indonesiane di palma da olio certificate RSPO sorgono su terreni su cui ancora trent’anni fa c’era foresta pluviale, torbiere o habitat naturali vergini. Ed è già stato riscontrato lavoro forzato e lavoro minorile. Che razza di sostenibilità è mai questa?».

Un sì a questo accordo non può dare una spinta positiva ad accordi futuri?

«Potrebbe essere così se si andasse oltre le mere promesse e si ci fosse un miglioramento concreto. Se le intenzioni fossero serie, le clausole sugli standard ambientali e sociali dovrebbero essere efficaci per davvero, con meccanismi di controllo e di sanzione che non siano solo pro forma. Così come sono formulati e concepiti in questo accordo, i miglioramenti sono solo una foglia di fico per metterci a posto la coscienza. L’etichetta su cui si fa affidamento per la garanzia degli standard è un caso eclatante di “greenwashing” (o ambientalismo di facciata, ndr), in cui produttori di olio di palma autocertificano la loro sostenibilità. Nella realtà non cambierà nulla: si continua ad incoraggiare un’economia che non è sostenibile, è dannosa per il clima e non rispetta i diritti umani».

Un no all’accordo non cambierà le cose in Indonesia. L’olio di palma e il suo commercio sono una realtà che non verrà fermata senza questo accordo. Quella fatta dal fronte del no non rischia di essere una politica fatta solo sul piano simbolico, ma poco pragmatica?

«Con un sì all’accordo l’importazione di olio di palma diventerà ancora più vantaggiosa, perché si tagliano fino al 40% dei dazi doganali. Questo è il contrario di quello che bisognerebbe fare, ovvero disincentivarne il consumo e optare per altri tipi di olio più pregiato, come la colza e il girasole svizzeri. E anche se si parla molto di olio di palma, ci sono altri aspetti ancora più problematici, ad esempio la protezione più rigorosa dei brevetti. Questo avrà gravi conseguenze per la popolazione indonesiana, perché porterà ad un aumento dei costi dei medicinali e per i piccoli contadini un accesso più difficile alle sementi. Non sono conseguenze simboliche, ma reali e gravi. Accordi di libero scambio come questi vanno a favore delle multinazionali, dell’industria farmaceutica, delle élite economiche, non sicuramente della popolazione locale e dell’ambiente».

Con o senza Svizzera questo accordo esiste in ogni caso. Gli altri Stati EFTA (ovvero Liechtenstein, Norvegia e Islanda) hanno firmato l’intesa. La vostra non rischia di essere una lotta fine a se stessa?

«Se altri sbagliano, noi non dobbiamo fare altrettanto. Con la nostra democrazia diretta abbiamo la fortuna di poter correggere decisioni sbagliate del Governo e del Parlamento. Non possiamo continuamente guardare dall’altra parte, dobbiamo assumerci le nostre responsabilità e fare quanto è nelle nostre mani per un’economia sostenibile, che non calpesta i diritti umani ed è consapevole della crisi climatica e ambientale. Lo dobbiamo ai nostri figli e alle future generazioni».

Favorevole, Piero Marchesi: «Così si apre un mercato alle nostre aziende e siamo meno legati all’UE»

Piero Marchesi. © Keystone/Peter Klaunzer
Piero Marchesi. © Keystone/Peter Klaunzer

Per i contrari all’accordo i suoi criteri di sostenibilità non hanno alcun effetto. Non esistono meccanismi di controllo efficaci e praticamente nessuna sanzione in caso di violazioni. È davvero un accordo a tutela dell’ambiente e della popolazione indigena quello su cui andiamo a votare?

«Il pomo della discordia, cioè il motivo che ha portato gli oppositori a lanciare un referendum, è la riduzione dei dazi sull’olio di palma. Sostengono che approvando l’accordo si incentiverebbe la deforestazione e l’importazione di un prodotto che non rispetta gli standard ambientali svizzeri. Credo sia la prima volta che in un accordo internazionale viene inserito il concetto di sostenibilità. Questo dovrebbe essere apprezzato da chi si oppone, invece si preferisce fare il processo alle intenzioni. Seguendo le motivazioni dei contrari dovrebbero essere per primi i contadini svizzeri ad opporsi a questo accordo, invece lo sostengono. Va comunque ricordato che la Svizzera potrà e dovrà controllare il rispetto del concetto di sostenibilità e qualora non venisse rispettato dai produttori di olio di palma indonesiani la Svizzera potrebbe emettere un’ordinanza per penalizzare questa importazione, ma tutti gli altri scambi commerciali sarebbero invece garantiti. Non c’è dunque un problema di elusione dei criteri a tutela dell’ambiente, sostenere il contrario è falso».

Il controverso marchio RSPO sarà ora usata come base per le importazioni di olio di palma dall’Indonesia. Già oggi buona parte dell’olio di palma che giunge in Svizzera ha il label RSPO. L’accordo, viene da dire, non cambia poi molto sul piano della sostenibilità...

«In verità questo elemento non fa altro che confermare l’attenzione della Svizzera nei confronti del tema della sostenibilità. Con l’accordo le cose cambieranno comunque in maniera significativa: oggi parte dell’olio importato è certificato, ma non tutto. Inoltre, e qui sta la differenza maggiore, gli importatori dovranno provare di poter disporre dei certificati necessari, cosa che oggi non avviene. Bisogna anche ricordare che il certificato RSPO, malgrado sia il più diffuso, non è l’unico disponibile. È quindi ipotizzabile che si possa ricorrere anche ad altre certificazioni. Infine, legando per la prima volta accordi economici a disposizioni in materia di sostenibilità creiamo un importante precedente. In questo modo, si mette pressione politica sull’UE e tutti i partner che andranno a trattare con l’Indonesia affinché seguano anch’essi la strada indicata da questo accordo. Proprio per questi motivi, diverse organizzazioni non governative sostengono l’accordo».

Solo una minima parte di tutte le esportazioni elvetiche (meno dell’1%) vanno in Indonesia. Questo accordo è davvero così importante per l’economia svizzera?

«Nell’ambito della campagna di voto sull’Iniziativa per la limitazione si è spesso discusso dell’importante, ma eccessiva, relazione commerciale tra la Svizzera e L’UE e di quanto sia allo stesso tempo pericolosa per quanto riguarda la nostra forte dipendenza da questa. Negli ultimi anni è finalmente scesa sotto il 50% del totale delle esportazioni. Questo grazie ai numerosi accordi di libero scambio che la Svizzera ha stipulato con vari Paesi. Questo ulteriore accordo permetterà di diversificare maggiormente le nostre esportazioni e di creare opportunità per le nostre aziende in un Paese che ha 271 milioni di abitanti (32 volte la Svizzera) così da renderci anche meno ricattabili dall’UE. L’accordo ha una doppia valenza: aprire il mercato alle nostre aziende d’esportazione, a beneficio di posti di lavoro che si creeranno in patria, e renderci sempre meno legati all’UE».

Sulla lista dell’Indice di percezione della corruzione di Transparency International l’Indonesia è al 102. posto (la Svizzera al 3.). Possiamo fidarci di questo partner commerciale?

«Possiamo fidarci della Cina? Della Serbia, della Turchia, del Marocco o dell’Egitto? Eppure con questi e con un’altra trentina di Paesi abbiamo sottoscritto accordi di libero scambio, anche con quelli dove ci si potrebbe interrogare se tutte le leggi internazionali, il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente siano davvero rispettati. L’accordo con l’Indonesia è certamente migliore di quelli siglati in precedenza e garantirà alle aziende svizzere la possibilità di esportare merci in un mercato in piena espansione e ai cittadini di questo Paese di vedere le loro opportunità di vita migliorate. Il miglior aiuto allo sviluppo che un Paese ricco come il nostro possa dare a Paesi poveri è certamente l’abbattimento delle barriere commerciali, così da creare opportunità reciproche. Un accordo di questo tipo è sicuramente più efficace dei vari miliardi che il nostro Paese spende nell’aiuto allo sviluppo in mezzo mondo, i quali nella maggior parte dei casi servono solo ad arricchire chi li gestisce e non chi dovrebbe invece percepirli».

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