L'intervista

Perché Republik non ha ancora cambiato il mondo?

A tu per tu con Katharina Hemmer e Constantin Seibt, condirettrice operativa e cofondatore della cosiddetta testata ribelle, nata per dimostrare che il giornalismo non ha bisogno di pubblicità
Katharina Hemmer & Constantin Seibt 18.01.2023 Nick Lobeck für Republik Magazin www.republik.ch

La testata ribelle, nata per dimostrare che il giornalismo non ha bisogno di pubblicità per poter vivere, ha appena compiuto 5 anni. Il magazine online dice di non avere bisogno di sussidi, «ma il sistema sì». Colloquio a 360 gradi con i vertici del magazine, alle prese con il fisco.

Come avanza la ricerca della nuova direzione responsabile?
Hemmer: «Prende il tempo che ci vuole. Ciò che conta è il risultato».
Seibt: «È un po’ come chiedere come avanza la ricerca del proprio futuro coniuge. L’importante è trovare la persona giusta».

Quali caratteristiche deve avere il futuro timoniere di Republik?
Seibt: «Talento per l’attualità latente. Missione difficile. Bisogna avere sottocchio la stretta attualità e al contempo esserne distanziati, per poter porre le grandi domande del momento. La nostra missione è sempre stata non quella di scrivere “un articolo”, ma “l’articolo” definitivo. È il compito principale che anche la direzione deve porsi. Un altro compito è gestire una banda di creativi molto diversi fra loro: i giornalisti. Infine, c’è il marketing. Perché il nostro prodotto non è fatto solo di articoli. Republik è anche un progetto, è anche un club».

Il 14 gennaio avete festeggiato cinque anni di vita. Siete nati annunciando la missione di offrire un’alternativa a un modello - quello dei media tradizionali - ritenuto fallito. Ce l’avete fatta?
Seibt: «Sì e no. Abbiamo raggiunto obiettivi più ambiziosi di quelli che ci eravamo posti. Il primo modello di business si estendeva a sette anni perché non pensavamo sarebbe stato possibile arrivare prima al punto di pareggio. Che però abbiamo raggiunto dopo tre anni. Il crowdfunding iniziale è stato da record mondiale. In seguito, abbiamo vissuto folli alti e bassi. Originalmente, volevamo dimostrare che gli editori sbagliano a pensare che tutto debba diventare più breve e veloce per essere apprezzato. Nel distretto delle sweatshop del giornalismo, noi però siamo la boutique di lusso. Funzioniamo, ma non abbiamo ribaltato il sistema mediatico come invece volevamo fare. Siamo come i bambini che prima vogliono cambiare il mondo e a quarant’anni si accorgono che non ce l’anno fatta».
Hemmer: «Abbiamo dimostrato che questo modello senza pubblicità può funzionare. Il prossimo passo è dimostrare di poter mantenere la nostra rilevanza in modo sostenibile. Non essere più solo boutique, ma raggiungere più pubblico».

State infatti sperimentando nuovi formati. Uno è il «Journal», con cui pubblicate più volte al giorno brevi servizi. Gli infinti testi di Republik sono troppo lunghi quindi?
Seibt: «In realtà, i leggendari, temuti e discussi lunghi testi di Republik sono nati per un incidente sul lavoro. Poco prima del nostro lancio ce la facevamo sotto. Due giorni prima della partenza, di pronto c’era poco. Di positivo c’era solo il test di gravidanza della mia compagna. E per rendere giustizia all’importanza dell’impresa, tutti abbiamo iniziato a scrivere troppo. Poi è diventato il nostro marchio di fabbrica. Ma la verità si può descrivere anche in testi brevi».

In gennaio, molti dei vostri lettori devono scegliere se rinnovare l’abbonamento. A dicembre eravate a 28.000 abbonati. Vorreste arrivare a 33.000. Come sta andando?
Hemmer: «Oggi - 25 gennaio - siamo a quota 27.323. Quest’anno investiamo per capire, anche assieme ai lettori, come possiamo crescere. Li abbiamo, ad esempio, interrogati sul modo in cui occuparci al meglio della questione climatica, con “Klimalabor” (“Laboratorio climatico”, n.d.r.). Abbiamo messo in piedi un formato audio. A febbraio inizierà una grande campagna. Dall’estate scorsa, ovvero da quando abbiamo deciso di investire, non c’è stata crescita. Ciò ci preoccupa. Ma non è irrealistico pensare di poter conquistare alcune migliaia di abbonati nei prossimi mesi. Se non dovesse succedere, sapremmo accettarlo e dovremmo cambiare strategia».
Seibt: «Con i lettori devi costruire un legame. Devi guadagnarti la loro fiducia. Noi vogliamo ascoltarli, essere trasparenti e, quando necessario, parlare dei nostri errori».

Il problema principale è la fornitura di base delle informazioni che servono al cittadino per fare buone scelte. Fare buona informazione costa caro

A causa di quello che avete descritto come un errore formale, avete mancato di pagare fino a 930.000 franchi di tasse. Qual è la situazione oggi?
Hemmer: «Le autorità stanno ancora lavorando. Sono diversi i Cantoni coinvolti. Non sappiamo ancora quando ci saranno novità».

Come sarà il futuro del giornalismo? La parola chiave sarà «aiuto ai media»?
Seibt: «Il problema principale è la fornitura di base delle informazioni che servono al cittadino per fare buone scelte. Fare buona informazione costa caro. C’è bisogno di professionisti competenti e di tempo da dedicare alla ricerca. Elementi sui quali puoi risparmiare solo fino a un certo punto; poi il prodotto non tiene più. Ho paura che prima o poi il giornalismo farà la fine del teatro e della letteratura, dove oggi si possono permettere di lavorare solo persone ben agiate. L’editoria non si è dimostrata sempre intelligente. Probabilmente perché per oltre cent’anni è stata a capo di un monopolio. Non ha quindi avuto bisogno dei più brillanti vertici per restare a galla. Purtroppo, non siamo l’industria più sveglia, ma abbiamo bisogno comunque di sostegno. Republik non ha mai ottenuto sovvenzioni, non calcola di riceverne e non ne ha davvero bisogno. Ma il sistema sì».
Hemmer: «Republik è nata per rispondere alla domanda: “È possibile stabilire un modello che funzioni sul mercato?”. Quindi non speriamo di ricevere aiuti statali».

Le grandi aziende del Web dovrebbero essere chiamate alla cassa come già si fa in altre parti del mondo per risarcire i media per l’uso dei loro contenuti?
Seibt: «Google e le altre grandi aziende si prendono il pane e danno indietro briciole. I media rischiano di fare la stessa fine della gallina che seguiva Stalin, nonostante l’avesse maltrattata e spennata, perché era quello con il grano: perdere l’indipendenza per pochi spiccioli».
Hemmer: «Bisogna tenere le Bigh Tech sottocchio e capire come affrontarle e come posizionarsi nei loro confronti. Inserisci pubblicità su Meta? Come gestisci il tracciamento degli utenti? Dato che esistiamo senza pubblicità siamo molto più liberi. Siamo sui social, ma non dipendiamo da questi. La piattaforma sulla quale è attiva la nostra community è nostra. Non abbiamo bisogno delle reti sociali per raggiungere la gente».
Seibt: «Noi abbiamo un paywall, ma i nostri articoli sono condivisibili all’infinito. Il miglior modo per farci pubblicità».

La questione dei “Corona Leaks” sta facendo perdere credibilità al giornalismo?
Seibt: «Non è una storia gloriosa. Ma non è nemmeno uno scandalo pazzesco. Il giornalismo ha sempre lavorato in una zona grigia: tra politica e intrattenimento, tra pregiudizio e curiosità, tra vicinanza al potere e critica allo stesso. Ciò rende questa professione difficile, ma anche interessante. Vedo il problema principale piuttosto nell’americanizzazione della Svizzera: una parte della popolazione non crede più a una parola delle autorità, dei media, della scienza, ma a tutto ciò che viene detto da coloro che chiamano tutti gli altri “i cattivi”».

Qual è il vostro approccio alla politica e ai politici?
«Republik è incorruttibile. Non perché siamo persone più nobili. Ma a causa della nostra struttura. Non abbiamo pubblicità, quindi nemmeno inserzionisti arrabbiati. E forniamo un contesto, non una notizia, il che significa che non dobbiamo fare affidamento su un buon rapporto con i politici che ci nascondono segreti. Il che significa: se scriviamo cose stupide, sono nostre».

Di recente ho parlato con alcune donne che hanno abbandonato il mestiere per abbracciarne altri molto più noiosi, ma in cui sono trattate meglio, pagate meglio e hanno più tempo per la famiglia

«Ogni settimana una giornalista in meno» era il titolo di un vostro articolo uscito nel 2021. Come percepite la situazione delle donne nei media oggi?
Seibt: «Di recente ho parlato con alcune donne che hanno abbandonato il mestiere per abbracciarne altri molto più noiosi, ma in cui sono trattate meglio, pagate meglio e hanno più tempo per la famiglia. È un problema, che ai piani alti delle aziende mediatiche ci siano quasi solo uomini. Perché le donne possono portare soluzioni, ma solo se sono ai vertici. Noi abbiamo fatto attenzione, fin dalla nostra fondazione, ad avere una squadra che rappresenti equamente entrambi i sessi. Se io e Christof Moser, l’altro primo direttore editoriale, fossimo stati da soli a creare Republik, non avremmo avuto chance. Troppo testosterone. Il prodotto, se creato da entrambi i sessi, diventa diverso e migliore».
Hemmer: «Oggi la direzione operativa è costituita da due donne. L’obiettivo è trovare, anche qui, nuovi modi per far sì che le donne possano rimanere nel giornalismo o occupare posti alti nella gerarchia aziendale. Perché, nella struttura maschile della vita fatta di solo lavoro, le donne, che si occupano sempre ancora maggiormente del cosiddetto care work, non hanno chance di partecipare».

Tutto ciò detto da una mamma che lavora, proprio come la sua condirettrice, a tempo pieno.
Hemmer: «Dobbiamo muoverci in una realtà imperfetta, ma cercando nuovi modelli. Siamo in un periodo di transizione. Sia io sia Amanda Strub siamo diventate direttrici senza aver abbandonato i settori di cui ci occupavamo. Si fa quello che bisogna fare. Ma l’idea è di farlo in due, con comprensione per il ruolo di madre che copriamo entrambe. E un giorno di poter diminuire la percentuale lavorativa. Anche se, quando c’è flessibilità, questo non è il fattore principale. Se e come ce la faremo, lo dobbiamo ancora scoprire».