Società

Riconoscimento facciale: distopia «cinese» o sicurezza necessaria?

Lanciata in Svizzera una petizione contro la videosorveglianza biometrica negli spazi pubblici: preoccupa la creazione di una legge ad hoc che autorizzi un ampio ricorso a questa tecnologia – Per alcuni «non è compatibile con la democrazia elvetica», mentre per altri aiuterebbe le autorità nella ricerca e nel monitoraggio dei criminali
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Valentina Coda
19.11.2021 06:00

Sempre più Stati si stanno affidando alle tecnologie di riconoscimento facciale per monitorare gli spazi pubblici 24 ore su 24 nel nome della sicurezza della collettività. Una prassi che si è viepiù consolidata negli anni e che potrebbe - a detta di Amnesty International, AlgorithmWatch CH e Digitale Gesellschaft - varcare anche i confini elvetici grazie a una legge ad hoc che autorizzi un ampio ricorso a queste tecnologie. Ed è proprio questa preoccupazione il motore che ha spinto le tre organizzazioni a lanciare una petizione chiedendo ai cittadini di rigettare con forza il riconoscimento facciale automatico e altri sistemi di sorveglianza biometrica negli spazi pubblici. Ora, la domanda da porsi non è tanto se la videosorveglianza fornisca un importante contributo nella lotta al crimine in Svizzera, bensì se ci sia proporzionalità tra una reale minaccia e la portata di tale tecnologia.

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Partecipazione a rischio
Le motivazioni che reggono la campagna di sensibilizzazione sono molteplici ma convergono tutte in un unico grande contenitore: la violazione dei diritti fondamentali di un’intera popolazione, non tanto del singolo individuo che le autorità vogliono tenere sotto sorveglianza e di conseguenza identificare con più rapidità. È bene precisare che oggi la Svizzera non dispone di una legislazione che limiti l’uso di questo strumento di sorveglianza e non vieta esplicitamente l’utilizzo di sistemi di riconoscimento facciale. Angela Müller, responsabile Policy&Advocacy di AlgorithmWatch CH sostiene in ogni caso che la sorveglianza di massa non è conciliabile con la democrazia svizzera perché «se i luoghi pubblici sono dotati di sistemi di riconoscimento facciale che ci identificano e ci tracciano in ogni momento, c’è una violazione della privacy e quindi il rischio che le persone non osino più partecipare a manifestazioni o esprimere apertamente le proprie opinioni».

Tralasciando il fatto che il riconoscimento facciale è da anni un’operazione consolidata nella vita quotidiana dato che ci consente di sbloccare praticamente tutte le funzioni dei nostri cellulari, è altrettanto noto, però, che recenti indagini giornalistiche hanno mostrato come le forze di polizia di alcuni cantoni, come Argovia e San Gallo, stiano già lavorando con alcuni software controversi di identificazione automatica del volto per acciuffare i criminali. «E ciò spesso accade - spiega al CdT Lukas Hafner, esperto di Amnesty - senza che i cittadini siano veramente a conoscenza dell’utilizzo di queste tecnologie e senza un vero dibattito pubblico in merito».

Il timore per le tre organizzazioni, che esprimono «dubbi sulla legalità di tali pratiche», è che questa tecnologia non venga circoscritta solo al contenitore della guerra al crimine, bensì estesa per monitorare gli spazi pubblici «giustificando la misura con l’argomento della sicurezza».

Non a caso, aggiunge Hafner, «queste tecnologie inizialmente vengono introdotte in forma limitata, come progetti pilota, prima che il loro uso venga esteso e normalizzato». E sul fronte della sicurezza? Secondo Hafner il loro utilizzo non è giustificabile, poiché «c’è una chiara sproporzione tra i potenziali benefici di una sorveglianza diffusa e la conseguente interferenza con i diritti fondamentali di tutti coloro che vengono scansionati». Insomma, il fine non giustifica i mezzi.

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Sistemi non neutrali
Fabrizio Gilardi, professore ordinario di Analisi delle Politiche all’Università di Zurigo ed esperto di democrazia digitale, ci spiega che il timore delle organizzazioni non è completamente infondato visto come stanno evolvendo le nuove tecnologie, ma nutre qualche perplessità circa l’utilizzo di questi strumenti: «È importante capire questo aspetto, perché detta in questo modo sembra che le telecamere posizionate nei luoghi pubblici scannerizzino automaticamente tutto quanto in tempo reale come se fosse un monitoraggio alla cinese. Non credo sia così, anzi. Penso invece che la polizia, in caso di sospetti concreti, utilizzi il riconoscimento facciale automatico per cercare di intercettare una persona già presente nella banca dati delle autorità che si trovava in quel luogo in quel preciso momento. Non si sta parlando di una sorveglianza a tappeto e neanche di una distopia cinese». Tuttavia, Gilardi ammette che questi strumenti non sono «neutrali», perché «sono metodi imperfetti che possono rafforzare delle disuguaglianze, come il fatto che sono meno capaci di riconoscere i volti che non sono né bianchi né maschi» e presentano «falle giuridiche e tecniche» vista la complessità della loro natura. In ogni caso, «non siamo sull’orlo di un sistema totalitario», sottolinea, anche se «in generale si sta andando in questa direzione vista la presenza di una domanda e un’offerta e la speranza che gli algoritmi possano in futuro migliorare la qualità e la velocità delle decisioni».