Ricordare le vittime svizzere dei nazi

Non se ne sente parlare molto, ma anche la Svizzera conta delle vittime del nazionalsocialismo. Ora anche la Confederazione potrebbe avere un memoriale per ricordare l’orrore subito da chi è stato perseguitato durante la Seconda guerra mondiale. Il Consiglio degli Stati si è infatti espresso a favore di una mozione in tal senso. Un atto analogo, non ancora discusso nel plenum, è stato inoltrato al Nazionale da Alfred Heer (UDC/ZH).
«Tra il 1933 e il 1945 sono finite in un campo di concentramento almeno 409 persone che, al momento del loro arresto o prima di esso, avevano la cittadinanza svizzera. A queste persone se ne aggiungono almeno altre 340 nate e cresciute in Svizzera, ma senza passaporto rossocrociato. Di queste 749 persone totali, 473 non sono sopravvissute», spiega Balz Spörri, coautore assieme A René Staubli e Benno Tuchschmiddi un volume edito da NZZ Libro sul tema: «Die Schweizer KZ-Häftlinge, Vergessene Opfer des Dritten Reichs» («I prigionieri svizzeri dei campi di concentramento, vittime dimenticate del Terzo Reich»).

Fra gli svizzeri finiti in un campo di concentramento figurano anche dei ticinesi. Come Gino Pezzani ( Biogno 1911 - Zurigo 2006), che fu arrestato in Francia. La sua storia, ripresa nel libro, è narrata in primo luogo nella sua autobiografia, del 1949:«Notte e nebbia, odissea nei campi di concentramento della Germania» (poi ristampato nel 1996 col titolo «Come il sole nel suo giro»). Dopo viaggi fra la Francia, la Spagna e la Svizzera, Pezzani entrò nella resistenza francese con lo pseudonimo di Petit Louis. Nel 1943 fu arrestato dalla Gestapo con l’accusa di spionaggio. Venne rinchiuso nella prigione di Frèsnes, vicino a Parigi. Nel 1944 arrivò al campo di concentramento di Sachsenhausen. Qui la sua identità venne sostituita dal numero 77192, dal triangolo rosso dei deportati politici e dalla sigla «Sch» («Schweiz»). Fu durante la lunga marcia con la quale i tedeschi, quasi sconfitti, tentarono di sfuggire ai russi, che Pezzani riuscì a scappare.
Pezzani è una delle varie vittime con legami con il Ticino degli orrori della Seconda guerra mondiale. Altre sono state per esempio Attilio Pozzi, italiano nato nel 1924 a Lugano e finito nel campo di concentramento di Mauthausen, o Marcelle Giudici, appartenente a una famiglia francese di religione ebraica e moglie di Jean Giudici, originario di Malvaglia. Arrestata nel 1944, morì ad Auschwitz.
L’atto si somma a una petizione
Agli Stati Daniel Jositsch (PS/ZH), autore della mozione, ha ricordato come un memoriale sia importante soprattutto per i giovani, che vengono a contatto con questi fatti solo attraverso i libri storia.
Il Governo appoggia il progetto, che prevede un luogo della memoria nello spazio pubblico che includa anche un’offerta educativa e informativa. Il Dipartimento federale degli affari esteri presenterà al Consiglio federale alcune opzioni per la realizzazione di un simile memoriale.
La mozione si somma a una petizione per l’erezione di un memoriale inoltrata il 25 maggio all’Esecutivo da circa 150 personalità, tra cui l’ex consigliera federale socialista Ruth Dreifuss (prima persona di religione ebraica eletta in Governo) e 30 organizzazioni. Sostenuto fra gli altri enti, anche dall’Amitié judéo-chrétienne en Suisse, dall’Organizzazione degli Svizzeri all’estero e dalla Federazione svizzera delle comunità israelite, il progetto vuole onorare le vittime del nazismo, ma anche coloro che si adoperarono per aiutare i perseguitati e che per questo ebbero problemi con la giustizia.
«Buona parte era affiliata a movimenti di resistenza»
L’Intervista a Balz Spörri, coautore di «Die Schweizer KZ-Häftlinge» («I prigionieri svizzeri dei campi di concentramento, vittime dimenticate del Terzo Reich»), volume sui carcerati svizzeri nei campi di concentramento edito da NZZ Libro (2019)
Chi erano gli svizzeri che finirono in campi di concentramento nazisti?
«Facciamo una premessa: nessuno venne arrestato e deportato dalla Svizzera. La maggior parte erano svizzeri che abitavano all’estero, soprattutto in Francia, ma anche nei Paesi del Benelux, in Grecia, Germania, Austria e Italia. Molti fra quelli che furono arrestati in Francia erano ebrei. In generale, buona parte era affiliata alla resistenza anti-nazista. Alcuni erano omosessuali. Poi ci sono stati anche casi di Sinti e Rom. Su di loro non si trovano praticamente fonti».
Non era possibile per la Confederazione aiutare questi svizzeri?
«Quando la Gestapo o la Polizia arrestava qualcuno, i familiari solitamente si riferivano al consolato più vicino. Se, quando questo si metteva all’opera, il prigioniero si trovava ancora nella nazione della cattura, c’era una chance di salvarlo. Le possibilità svanivano una volta deportato. Quello che emerge dalle ricerche è che i consolati non agivano tutti allo stesso modo. Alcuni facevano molto per tutelare i cittadini elvetici. Come il consolato a Trieste. Altri non sembravano essere così interessati a farlo. Un ruolo importante lo ha coperto anche l’ambasciatore a Berlino Hans Frölicher, diplomatico parecchio controverso. Secondo noi (Spörri e gli altri coautori del libro descritto sopra, ndr) la Svizzera avrebbe potuto fare di più. Il Dipartimento federale degli affari esteri si è dimostrato a lungo disinteressato. L’argomento principale di Frölicher era che la Svizzera avrebbe potuto sopravvivere al conflitto se non avesse calpestato troppo i piedi a Hitler. Un argomento che all’epoca aveva influenzato il Consiglio federale».
Cosa ha portato lei e gli altri autori del suo libro a fare ricerca su questo tema?
«Nel 2014 ho visitato il campo di concentramento di Buchenwald. Quasi per caso vidi una targa commemorativa che riportava le nazionalità di tutti gli imprigionati. Arrivato alla lettera “S” rimasi stupito: anche la Svizzera era citata. Ho studiato storia. Eppure di vittime svizzere del nazismo non ne avevo mai sentito parlare. Così mi misi ad indagare. Scoprii presto che di letteratura ce n’era poca. All’inizio non avevo nessuna idea di quanti sarebbero potuti essere stati i casi svizzeri. Alla fine rimasi esterrefatto dalla quantità».
Come mai è stato un tema così poco affrontato dagli studiosi?
«Subito dopo la guerra, fra il 1945 e il 1946, c’era interesse sul tema. Le testimonianze dei sopravvissuti erano molto richieste. I superstiti tenevano conferenze. I media ne riferivano. Ma poco dopo, nel 1947, iniziò la guerra fredda, e il passato iniziò a interessare di meno. Negli anni ’90 ci fu di nuovo attenzione verso il ruolo della Svizzera, il comportamento delle autorità e della piazza finanziaria nei confronti del regime nazista e delle sue vittime. Dopo il cosiddetto rapporto Bergier, pubblicato a inizio anni 2000, in cui si faceva luce sulle responsabilità della Confederazione (il trattamento che la Svizzera riservò ai rifugiati, la sua collaborazione con il regime nazista e la mancata diligenza nella restituzione degli averi depositati dalle vittime del nazismo, ndr), in Svizzera si è percepita una certa stanchezza rispetto al tema, che non si è più affrontato. Bisogna anche dire che i sopravvissuti svizzeri tornarono per lo più nei loro Paesi d’origine dopo la guerra, cioè principalmente in Francia. Lì si sono uniti in cosiddetti amicales. Questo non è stato il caso della Svizzera stessa. Spesso le vittime del nazismo non hanno nemmeno ricevuto il sostegno che avrebbero dovuto ricevere. Penso alla storia di Albert Mülli, uno dei più conosciuti sopravvissuti svizzeri all’Olocausto, che aveva difficoltà a trovare un lavoro. Era in qualche modo discriminato, guardato con sospetto perché era stato in un campo di concentramento. “Auschwitz non è in Svizzera“, cita una famosa frase di Delamuraz. L’Olocausto viene spesso ancora percepito come qualcosa che ha coinvolto solo gli altri Paesi».