Un bavaglio al giornalismo d’inchiesta o una maggiore tutela della privacy?

Ottenere lo stop alla pubblicazione di un articolo o alla messa in onda di un servizio deve essere più facile. Con 30 voti contro 12, dopo un lungo dibattito, il Consiglio degli Stati ha deciso che il ricorso a questi strumenti (i cosiddetti provvedimenti cautelari) debba essere possibile quando, attraverso una pubblicazione o la messa in onda di un servizio giornalistico, l’attuale o incombente lesione dei diritti di qualcuno è tale da causargli o da potergli causare «un pregiudizio grave». Una minoranza di sinistra avrebbe voluto mantenere questa eventualità solo per i pregiudizi «particolarmente gravi», come nel diritto attuale.
In linea di principio la censura in Svizzera è proibita. L’articolo 266 del Codice di procedura civile tuttavia permette a un pretore di far vietare la pubblicazione di un servizio giornalistico o di ordinarne la cancellazione come provvedimento cautelare se questo causa a qualcuno un «pregiudizio particolarmente grave», se «non vi è alcun motivo che giustifichi la lesione» di chi chiede lo stop alla pubblicazione e se tale provvedimento «non appare sproporzionato». In pratica, i media possono parlare di persone e fatti solo se vi è interesse pubblico. Ora è appunto la parola «particolarmente» che la Camera alta vuole cancellare dall’articolo 266. La sua applicazione sarebbe così estesa anche ai casi in cui il danno sarebbe «soltanto» grave.
Un polverone
Nelle ultime settimane la questione ha alzato un polverone. Una grande alleanza di enti rappresentanti i media - editori, emittenti, sindacati e giornalisti , ma anche organi di controllo dei media - avevano avvertito: «L’emendamento aprirebbe le porte all’arresto avventato di indagini critiche», con «conseguenze sulla libertà di opinione e di espressione». «Così si mette il bavaglio al giornalismo d’inchiesta», afferma Roberto Porta, presidente del Comitato dell’Associazione ticinese dei giornalisti (ATG). In Svizzera, aggiunge il giornalista, esistono già norme severe. La legge e la deontologia impongono ai media dei criteri precisi per definire quando fare nomi. Ora si aggiunge un paletto in più che «fa sentire il peso della legge, scoraggiando chi vuole avviare un lavoro d’inchiesta, perché occuparsene richiede tempo e risorse. E viste le difficoltà economiche degli editori, il rischio che si finisca per rinunciare a indagare è grande».
In aula il dibattito si è svolto attorno a due concetti: da una parte - dal punto di vista dei favorevoli all’emendamento - la possibilità di vietare eventuali danni d’immagine ingiustificati prima che questi siano fatti per mano dei media (tramite una modifica di legge tanto minima per cui parlare di censura è esagerato). Dall’altra parte - dal punto di vista dei contrari - c’era la volontà di mantenere dei paletti che garantiscano la tutela della privacy, senza però indebolire la libertà di stampa.
Si passa al Nazionale
Ora il dossier passa alla seconda Camera. Marco Romano, membro della Commissione competente al Nazionale, prevede un dibattito acceso anche alla Camera bassa. «Da un lato la questione della libertà di stampa è molto sentita, dall’altro alla politica si chiede sempre maggiore protezione della sfera privata, in ambiti anche meno sensibili». La discussione in questo contesto non può che farsi accesa. Il deputato ticinese (Centro) sostiene la modifica votata agli Stati. «È strano vedere come chi (la sinistra, ndr) normalmente si batte per la tutela della sfera privata ora si dimentichi di questo approccio. Stiamo parlando di “processi mediatici” che possono generare gravi danni alle persone coinvolte e ledere pesantemente la loro privacy».
La pensa diversamente il suo collega in commissione Jon Pult (PS/GR): «È legittimo chiedere che i media facciano il loro mestiere senza calpestare i diritti altrui quando non ve n’è ragione, ma se è questo il tema allora sarebbe giusto lavorare sull’etica dei media, senza però indebolirne la posizione».