Un post negativo, oltre settecento denunce

Martigny, Vallese. È una serata ottobrina. Alcuni clienti entrano nel ristorante La vache qui vole. Chiedono dell’acqua del rubinetto. La figlia del padrone del locale spiega loro che la politica del ristorante è di fatturarla. Una scelta fatta per ragioni economiche ed ecologiche che non piace per nulla però ai clienti. Il giorno dopo uno di loro pubblica su Facebook un commento negativo sul ristorante, indicandone il nome. Una tempesta di «mi piace», condivisioni e commenti, anche pesanti, impazza sulla rete sociale. La doccia di insulti, durata più giorni, influisce sul benessere del personale. Un’impiegata del locale, afflitta dall’angoscia, deve restare a casa in malattia. Fred Faibella, titolare del ristorante, decide di sporgere denuncia. È stato dato così il via alla più grande denuncia di questo tipo in Svizzera, con oltre 700 persone querelate.
Il caso, ancora aperto, riportato recentemente dalla trasmissione «Mise au point», dell’emittente svizzero-francese RTS, rimanda a un altro caso, terminato con una sentenza del Tribunale federale che ha chiarito che anche solo un «like» sui social può portare il suo autore davanti alla giustizia, se vi sono propositi diffamatori. Nel febbraio 2020, la Corte federale ha infatti parzialmente confermato una sentenza in tal senso (descritta nel box).
«Galeotto fu quel like»
«Galeotto fu quel like». Così vien da dire all’avvocato Paolo Bernasconi, esperto di diritto penale, a cui chiediamo se le denunce a seguito di commenti offensivi o pollici all’insù piazzati sotto contenuti irrispettosi sui social siano in aumento in Svizzera e nel nostro cantone. «Ne vediamo tante, anche in Ticino, da tanti anni. Da quando tutti hanno iniziato a “smanettare”, come si suol dire. È il rovescio della medaglia dell’uso delle nuove tecnologie».
Una forma di complicità
«La sentenza del Tribunale federale parla chiaro», continua Bernasconi. «Il “like“ è punibile nella misura in cui il messaggio al quale è riferito è punibile. Per esempio, per reati contro l’onore come la diffamazione, l’ingiuria o la calunnia, per concorrenza sleale oppure razzismo, omofobia o negazionismo». Diffondere o propagare dichiarazioni diffamatorie è contro la legge. Premendo il pulsante «mi piace» o «condividi», un utente contribuisce ad aumentare la visibilità dei contenuti. «La si può vedere come una forma molto speciale di complicità», spiega ancora Bernasconi.
Multe salate
Il codice penale in questi casi prevede sanzioni fino a tre anni di carcere. «Nella pratica però vengono inflitte multe, talvolta anche di qualche migliaio di franchi. Oppure una pena pecuniaria, che può essere tramutata in arresto se non pagata. Ma che, soprattutto, viene iscritta nel casellario giudiziale. E questo spesso ha una ricaduta molto più pesante in caso di ricerca di un posto di lavoro o di autorizzazione, ad esempio per un esercizio pubblico. Per uno straniero potrebbe mettere invece in discussione anche il permesso di dimora». Insomma, anche una sanzione pecuniaria può avere conseguenze più pesanti del mero sacrificio a livello di portafoglio.
In qualsiasi caso, fare una recensione negativa di un ristorante (come la si può fare ad esempio su piattaforme come Trip Advisor) può essere perseguibile penalmente? «Il rischio è di sfociare nella concorrenza sleale», dice Paolo Bernasconi. Questa, come la querela per ingiuria, può essere ritirata. Al contrario, il «like» al negazionismo (per esempio l’atto di negare il genocidio armeno o in Bosnia) è perseguibile d’ufficio. «Genitori, scuole e organizazzioni devono avvertite i giovani: anche solo un “like” può avere conseguenze penali».
Una sentenza che parla chiaro
Mettere «like» o condividere contenuti sui social può avere conseguenze penali se vi sono propositi diffamatori. Nel febbraio dell’anno scorso il Tribunale federale ha confermato in parte un giudizio concernente insulti rivolti a un animalista. Nel 2018, il Tribunale cantonale di Zurigo ha condannato a una pena pecuniaria con la condizionale un uomo per diffamazione ripetuta. Mettendo «mi piace» e condividendo contenuti aveva sottoscritto accuse di antisemitismo, fascismo e razzismo verso l’attivista. Per il TF l’uomo aveva poi migliorato la visibilità di contenuti diffamatori quando la loro propagazione è illegale.