«Un trauma con cui convivo»

Il 27 settembre 2001, nella sala del Gran Consiglio di Zugo, successe quanto nessuno si sarebbe mai aspettato. Alle 10:30, Friedrich Leibacher, personaggio perennemente in lotta con le autorità, entrò nella sala del Parlamento munito di due fucili e una pistola e iniziò a sparare. L’uomo uccise 14 persone e ne ferì altre 18, prima di togliersi la vita. Tra i circa 60 politici presenti in Parlamento quella tragica mattina c’era Gerhard Pfister. L’attuale presidente dell’Alleanza del Centro era da cinque anni membro del Legislativo cantonale. Al momento dei primi spari Pfister si trovava al suo posto, nella quarta e ultima fila della sala, non molto lontano dall’unica porta d’entrata.
Restare a terra per salvarsi
Al primo colpo il politico pensa si tratti del rumore di un banco chiuso bruscamente. Ben presto si accorge della gravità della situazione. Si butta a terra. Un proiettile colpisce fatalmente il vicino alla sua sinistra. Deve aver provato a scappare andando verso la finestra. Anche Pfister viene colto da un impulso ad andare in quella direzione, ma un altro vicino lo ferma. Alzarsi vuol dire aumentare le probabilità di diventare dei bersagli. Restare a terra, sotto il banco, «è stata la decisione giusta», racconta oggi il 59.enne. La maggior parte delle persone rimaste uccise si trovavano vicine al leggio, ma anche al centro e sul lato destro della sala, dove erano seduti proprio i rappresentanti del partito di Pfister e i membri del PLR.
Quando il rumore dei colpi cessa, Pfister non sa ancora che l’attentatore si è suicidato. Qualcuno avvisa che che si può uscire. Sono passati poco più di due minuti dall’inizio degli spari. Pfister segue il consiglio ed esce dalla porta, lanciandosi per le scale. La sanguinosa scena in sala resta alle sue spalle.
«Quel giorno mi ha cambiato profondamente la vita», afferma il politico, che incontriamo a Palazzo federale durante la sessione parlamentare in corso. «Per una decina di anni non è passata settimana in cui non abbia pensato a quanto successo. È un trauma che è diventato parte della mia esistenza. Bisogna conviverci», afferma il consigliere nazionale, alla Camera del popolo dal 2003.
Ancora oggi stare in una stanza chiusa gremita di persone lo riesce a mettere a disagio, e a volte si sorprende a guardare dove sono le uscite di sicurezza, o dove il suo posto a sedere è collocato rispetto alla porta d’entrata della stanza in cui si trova.



«I ricordi si fanno più forti»
Al tavolo al quale ci sediamo nella vivace Sala dei passi perduti il consigliere nazionale parla con tono tranquillo. A Zugo, racconta, ogni 27 settembre si ricordano le vittime della strage. «Sono andato ogni volta che potevo. Per me questo 27 settembre è come ogni altro 27 settembre. Ora che sono passati 20 anni e i media ne parlano di più, però, i ricordi si stanno facendo più forti», ammette.
Per elaborare lo shock, afferma il consigliere nazionale, hanno aiutato molto i giorni e le settimane subito dopo l’attentato. «Ho avuto la fortuna di uscire illeso da quella strage e poter quindi partecipare ai funerali delle vittime. Andando a memoria penso che ce fosse stato almeno uno al giorno per una settimana intera. Quella per me è stata un’importante fase di elaborazione di quanto accaduto. Più tardi ho notato come per i colleghi che invece sono stati ricoverati in ospedale e non hanno potuto venire ai funerali, questa fase è mancata».
La fortissima esperienza ha anche dato forza a Pfister: la morte relativizza ogni altro problema. Attacchi verbali e critiche pesanti, lati meno gioiosi della vita di ogni politico di punta, non lo toccano troppo, dice.
«La fiducia è sparita»
La strage ha sicuramente cambiato Gerhard Pfister sul lato personale, «ma non su quello politico», afferma ancora il deputato. La politica a Zugo e in Svizzera, invece, quelle sono mutate da allora. «La fiducia e l’apertura totale della politica è sparita. Il Parlamento a Zugo era aperto a tutti. Ognuno poteva entrare e sedersi, senza passare prima da nessun tipo di controllo, nella sala del Gran Consiglio. Ora non è più così. Se un tempo potevamo essere fieri del fatto che i politici svizzeri non avessero bisogno di protezione, oggi le cose sono cambiate».
Quelle «litigate sane»
Il 27 settembre 2001, aggiunge Pfister, va ricordato per una questione di rispetto verso chi è morto. Ma non solo. «Quanto accaduto 20 anni fa ci deve ricordare che in politica e nella società la violenza non deve mai trovare spazio. La politica vive di dibattito. Di “litigate sane”. Dal 2001, lo stile del dibattito politico è però cambiato. C’è più emotività». Anche la pandemia, non aiuta, amplificando la portata delle emozioni. E tramite i nuovi media tutto ha più eco. «Ma mi riferisco soprattutto alla politica, non alla popolazione. Dobbiamo essere coscienti del fatto che le nostre parole hanno delle conseguenze. L’avversario politico non deve diventare il nemico». L’arte in politica è convincere gli altri della propria opinione. «Il rispetto per i pareri altrui va assolutamente mantenuto».
La strage
L’autore si chiamava Friedrich Leibacher, classe 1944, nato e cresciuto a Zugo, una persona problematica con precedenti penali. Secondo una perizia psichiatrica soffriva di un disturbo della personalità di tipo dissociativo. Disoccupato e al beneficio di una rendita parziale d’invalidità, la mattina del 27 settembre 2001 l’attentatore parcheggia la sua automobile davanti alla sede del Parlamento cantonale. Con sé ha un Fass 90, una pistola SIG e un fucile a pompa. Sono da poco passate le 10:30, quando nell’atrio incontra la consigliera di Stato Monika Hutter. Le spara con il fucile a pompa e la uccide. Poi entra nell’aula e inizia a fare fuoco sui presenti. In totale esplode 91 colpi e ammazza altre tredici persone, tra le quali i consiglieri di Stato Peter Bossard e Jean-Paul Flachsmann. Le altre undici vittime sono tutte deputati. L’azione dura in totale 2 minuti e 34 secondi. Al termine, Leibacher si toglie la vita sparandosi con la pistola.
Il perché
Nel 1998 Leibacher litiga in un’osteria di Zugo con l’autista dell’azienda di trasporti locale, minacciandolo con una pistola. L’uomo lo denuncia. Ne nasce una vertenza giudiziaria. Segue una fila di ricorsi. Leibacher si appella anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. Due anni e mezzo dopo i fatti la Procura pubblica decide di portarlo in tribunale. L’attentato diventa un’occasione per regolare i conti con l’autorità che l’avrebbe trattato ingiustamente. Il suo bersaglio principale, il consigliere di Stato Robert Bisig, resta illeso. Nell’auto dell’attentatore verrà ritrovato un biglietto con scritto «Il giorno dell’ira per la mafia di Zugo».
Ripercussioni sulla sicurezza anche a Palazzo delle Orsoline
La strage al Parlamento di Zugo che ha causato 14 morti esattamente 20 anni fa ha cambiato radicalmente le abitudini svizzere e ribaltato il paradigma. Le istituzioni e i parlamenti, da luoghi aperti e liberamente accessibili, sono diventati chiusi e fruibili solo agli addetti ai lavori, tranne eccezioni. In realtà il pubblico può ancora accedere alle tribune dalle quali si può assistere ai lavori parlamentari (ndr. anche se al massimo si vede qualche scolaresca o habitué), ma all’entrata c’è un filtro, non solo dettato dalla situazione pandemica. Zugo ha davvero cambiato tutto, anche per quanto concerne il Palazzo delle Orsoline di Bellinzona. Nel 2001 i lavori si svolgevano ancora nella vecchia sala del Parlamento, quella con i banchi in legno e ancora dotata dei posacenere in ottone. Sì, perché, incredibile ma vero, in passato in Gran Consiglio si poteva anche fumare. A pensarci oggi sembra una vera e propria assurdità. Ma sono i tempi che cambiano. Le cronache dell’epoca ci riportano le reazioni del Governo che era corso ai ripari. Quella di Zugo fu l’azione di uno squilibrato, ma il timore di emulazione non faceva dormire sonni tranquilli al Consiglio di Stato di allora, composto da Marina Masoni, Gabriele Gendotti (subentrato nel 2000 al defunto Giuseppe Buffi), Luigi Pedrazzini, Marco Borradori e Patrizia Pesenti. La prima decisione fu permettere l’accesso dalla sola entrata principale, sbarrando tutte le altre. A quell’epoca c’era la volontà di mantenere a tutti i costi il carattere pubblico delle sedute, una realtà che è messa nero su bianco nella legge. E per la prima volta si sono viste le forze dell’ordine all’interno del Palazzo a scopo preventivo. I poliziotti della cantonale c’erano, ma non in tenuta antisommossa, bensì con la normale tenuta che all’epoca era marrone, ma qualcuno era presente anche in civile. Per la prima volta è stato disciplinato l’accesso anche ai giornalisti: prima di Zugo non c’erano tessere, badge o pass, oggi questo è una realtà per tutti gli accreditati dei media. L’allora presidente del Gran Consiglio Ignazio Bonoli dichiarò che «pur ammettendo che una sicurezza totale in questo ambito non è realizzabile, dobbiamo chiederci se la nostra democrazia così aperta, così vicina al popolo e alle sue esigenze, non possa essere costretta oggi a cambiare atteggiamento e a porre in primo piano il problema della sicurezza non solo delle persone che operano all’interno delle nostre istituzioni pubbliche, ma anche delle istituzioni stesse. È fuori di dubbio che il dilemma con il quale siamo oggi confrontati è quello della compatibilità di queste due componenti essenziali: la massima apertura possibile, ma anche la massima sicurezza possibile».
Oggi possiamo dire che quello fu un evento straordinario e non il primo di un sistematico attacco al potere politico. Nel frattempo il Ticino si è dotato di una nuova aula parlamentare, contraddistinta da vetri molto spessi (c’e chi sostiene siano antiproiettile, ma nessuno ha mai ufficialmente confermato la cosa). Dalle tribune si osservano i parlamentari come si trovassero in un acquario. Il contatto tra cittadini e politici, COVID o non COVID, è stato abolito ormai da tempo a Palazzo delle Orsoline.