Tanti auguri, caro Twitter

La storia, più o meno, è nota. Era il 21 marzo del 2006 e Jack Dorsey, all’epoca sviluppatore rampante, testava Twitter. «Sto impostando il mio twttr». Il primo cinguettio della storia, già. Il social vero e proprio, tuttavia, venne lanciato il 15 luglio dello stesso anno. Quindici anni fa. Dorsey, nel frattempo, ha messo all’asta quel tweet con una certificazione tramite blockchain.
Twitter, soprattutto, negli anni è cambiato. Si è evoluto. Diventando una piattaforma diversa rispetto alle intenzioni iniziali. La crescita, in ogni caso, è stata netta. Apprezzato dai politici, è usato tantissimo dai giornalisti. In svariate occasioni è stato testimone e megafono di eventi: le primavere arabe, la cattura di Osama Bin Laden, e ancora l’elezione di Donald Trump nel 2016.
Le sfide, quindici anni dopo, sono molteplici. Twitter è in prima linea per combattere le fake news e il razzismo, ad esempio. Su un fronte prettamente strategico, invece, la piattaforma dopo aver lanciato le chat audio (per contrastare Clubhouse) sta pensando anche a servizi a pagamento.
Come sta Twitter?
La domanda, a quindici anni dal suo lancio pubblico, sorge spontanea: come sta Twitter? E ancora: quanto può ritenersi soddisfatto del percorso compiuto? «Twitter ha una storia tumultuosa alle spalle fatta di discese vertiginose e altrettanto nette risalite, ma ha il vantaggio di avere alle spalle un fondatore, Jack Dorsey, che continua a essere fortemente convinto della salute e delle potenzialità della sua creazione» spiega Eleonora Benecchi, docente e ricercatrice all’USI, esperta di social media e culture digitali. «A febbraio di quest’anno ha annunciato di voler portare il numero di utenti regolari della piattaforma a 315 milioni e raddoppiare le entrate annuali a 7,5 miliardi di dollari entro la fine del 2023. Piani ambiziosi, se si pensa che a fine 2018 Twitter perdeva utenti a una velocità tale che ha smesso di dire quanti. Certo, la piattaforma ha incontrato sulla sua strada un alleato tanto imprevedibile quanto potente: il lockdown. Nel pieno della pandemia da COVID-19, Twitter ha visto un consistente afflusso di nuovi utenti che lo ha per così dire salvato da una crisi che durava ormai da troppo tempo. La capacità di continuare ad attrarre nuovi utenti, a più di un anno di distanza da quella che è stata una tempesta perfetta per la piattaforma, è significativa: i nuovi sviluppi proposti, come le chat audio e la possibilità di seguire argomenti piuttosto che persone, e alcune scelte di campo inizialmente viste come controverse, vedi la sospensione dell’account di Donald Trump e di molti suoi seguaci, stanno pagando».


Dicevamo dei cambiamenti. Spesso, i social network nascono in un contesto e con una specifica funzione salvo poi mutare, evolversi e diventare qualcos’altro. Ecco, cos’è oggi Twitter? C’è chi lo avvicina a un grande aggregatore di notizie, chi parla addirittura di testata giornalistica e chi, ancora, ne sottolinea l’impegno sul fronte politico. Insomma, l’etichetta «social network» è ancora attuale? «Intanto – ribadisce la nostra interlocutrice – va ricordato che Twitter come lo conosciamo è nato per caso mentre i suoi ideatori, Evan Williams e Biz Stone, a cui solo più tardi si è aggiunto Jack Dorsey, cercavano di realizzare un’app di podcast, Odeo. Lo hanno chiamato social network, ma io credo che Twitter abbia smesso molto presto di essere una piattaforma con lo scopo primario di mantenere ed espandere la rete sociale delle persone. Per la precisione, quando ha cambiato la domanda che ci fa prima di digitare un tweet. Da «cosa fai?» a «cosa succede?», spostando dunque il focus dalla persona al contenuto. Nel 2013 Williams ha ammesso che l’identità di Twitter è cambiata nel tempo e che non è più identificabile con l’idea di social network, ma, diciamo noi, neppure con il concetto tanto promosso dai suoi fondatori di “servizio neutrale” attraverso cui passano dei contenuti di cui il network non può essere ritenuto responsabile. Oggi è più vicino al concetto di medium che a quello di network, perché è sempre più un mediatore di contenuti che fa scelte editoriali tanto quanto altri media, anche se non vuole ammetterlo esplicitamente».
Un social che copia altri social
A proposito di cambiamenti, Twitter è sempre stato considerato un social di nicchia adatto a giornalisti e politici. Allo stesso tempo, Twitter ha inglobato funzioni tipiche di altri social (i fleets che però abolirà o ancora gli spaces per contrastare Clubhouse) forte di una posizione dominante rispetto a nuovi attori. Questa evoluzione non sta snaturando il prodotto? «Sicuramente, alcune evoluzioni hanno diluito la sua peculiarità» prosegue Benecchi. «Del resto, il mondo dei social è un’industria dell’imitazione. Le storie che scompaiono sono l’esempio perfetto di questo trend: si tratta di una caratteristica che ha dimostrato di aumentare il livello di coinvolgimento degli utenti e dunque è stata implementata gradualmente da tutti i più grandi attori del comparto social con nomi e formati leggermente diversi. Non per tutti ha funzionato allo stesso modo: se prendiamo appunto il caso di Twitter, senz’altro i fleets non hanno raccolto grande entusiasmo da parte degli utenti, ma del resto neanche le stories su Facebook hanno avuto la stessa efficacia che su Instagram o Snapchat dove sono nate. Tuttavia, di fronte a nuove feature o app di successo i giganti social hanno tre strade davanti: imitare, trovare una forma di collaborazione o comprare il servizio concorrente».
In questo senso, la scelta (futura) di offrire contenuti a pagamento apre il campo a svariate interpretazioni. La tipologia di abbonamento premium è qualcosa che funziona molto bene per OnlyFans, ma un meccanismo simile avrebbe senso per cinguettii e chat audio? Ancora Benecchi: «La sfida che Twitter ha davanti è proprio quella di trovare e soprattutto introdurre efficacemente nuovi modelli di sostentamento che vadano oltre quello attualmente preponderante della sponsorizzazione di contenuti o prodotti, pari a circa l’86%. Questa forma di introito non è in crisi ma è difficilmente espandibile oltre a quanto già vediamo. Ecco perché da anni Dorsey parla di introdurre servizi in abbonamento o personalizzazioni a pagamento sulla piattaforma. Solo se Twitter riuscirà a rinnovare il proprio modello economico, pur mantenendo la freschezza del suo modello sociale e culturale, può sperare di accompagnarci per altri quindici anni».


Il ruolo politico
Twitter, venendo a un altro punto importante, ha assunto anche un ruolo politico negli anni. È stato testimone di grandi avvenimenti, come le primavere arabe, ma è stato anche grancassa e censore se pensiamo alla decisione di bannare Donald Trump. Dobbiamo trattare Twitter e i social come attori politici? E gli stessi politici devono interfacciarsi con questi social come fossero, per certi versi, nazioni sovrane? Anche qui, le tesi e le interpretazioni sono molteplici. «Io credo che dobbiamo trattare i social per quello che sono, ovvero delle imprese commerciali» chiarisce Benecchi. «Non possiamo dimenticarci che si tratta di piattaforme pensate e sviluppate per creare guadagno, né lasciarci fuorviare dai discorsi messi in campo dai loro creatori che li descrivono come servizi per la società o infrastrutture neutre che si limitano ad accogliere quello che le persone dicono o fanno. Certo, una persona non diventa razzista o violenta frequentando Twitter. Ma discorsi razzisti e di incitamento alla violenza possono essere favoriti e amplificati dall’algoritmo e dal modello tecnologico della piattaforma. Gli eventi di Capitol Hill hanno messo sotto gli occhi di tutti quanto le interazioni, le conversazioni e i contenuti che si sviluppano via social sono profondamente influenzati dalla piattaforma tecnologica che li ospita e come i social stessi siano tutt’altro che soggetti neutrali. Tanto è vero che si sono schierati pubblicamente con scelte anche molto discusse. Twitter ha un problema di lungo corso con l’hate speech e l’incitamento alla violenza, dato anche dalla possibilità di twittare in anonimato, e con la diffusione di disinformazione. Ultimamente sta cercando di prendere contromisure adeguate, ma questo giro di vite forse arriva tardi rispetto ai problemi che vorrebbe contenere. Inoltre dovremmo chiederci: se scoppiasse un incendio chiederemmo di spegnerlo al piromane che lo ha appiccato, alle persone che hanno lasciato che si sviluppasse in modo incontrollato o a dei pompieri?».
Twitter, concludendo, ha ridefinito da un lato la pratica giornalistica – diventando fonte inesauribile di notizie – e dall’altra il ruolo di mediatori dei giornali e dei media tradizionali. La convivenza è ancora possibile o i social ruberanno definitivamente la scena? «Ricordo un momento in cui si cantava ‘‘Video killed the radio star’’, il video ha ucciso la star della radio, ma in realtà se guardiamo alla storia dei media nessun medium ne ha mai completamente soppiantato un altro. Tra l’altro, al momento Twitter come altri social rifiuta di assumere un ruolo editoriale e certo non è assimilabile a una vera e propria testata giornalistica, ma di certo è un distributore di notizie o un luogo dove le persone vanno a cercare le notizie e dunque deve anche prendersi le responsabilità del ruolo che ricopre nella vita delle persone e nella società più in generale. Non credo però si vada verso una sostituzione, piuttosto Twitter diventerà sempre più importante per le testate giornalistiche soprattutto nel caso di breaking news e eventi live. È proprio in questi contesti che ha dimostrato tutta la forza della sua tecnologia».