L’intervista

«Test sierologici fondamentali per capire la reale diffusione del virus»

Il professor Andreas Cerny, direttore dell’Epatocentro Ticino, ci spiega il funzionamento e l’utilità di queste importanti analisi mediche sulla presenza di anticorpi
Provette di sangue dei test sierologici. ©EPA
Giona Carcano
16.04.2020 11:26

I test sierologici potrebbero essere un prezioso strumento per determinare con chiarezza la quota della popolazione entrata in contatto con il virus. Ne abbiamo parlato con il professor Andreas Cerny, direttore dell’Epatocentro Ticino, che ha risposto avvalendosi della collaborazione della dottoressa Beatrice Barda, specialista in microbiologia clinica e virologia con dottorato in epidemiologia e della dottoressa Cinzia Zehnder, specialista in microbiologia medica, e responsabile del Synlab Ticino.

Alcuni Paesi hanno annunciato che ricorreranno a test sierologici sulla popolazione, in modo da farsi un’idea più precisa sul numero dei contagi e capire quanti soggetti potrebbero riprendere normalmente l’attività. Condivide questa strategia?

«Assolutamente sì, purtroppo il “contact tracing” in molti paesi non è stato effettuato capillarmente, altri non l’hanno praticamente mai intrapreso e i pazienti asintomatici e pauci-sintomatici sono l’80% dei positivi totali. Un test sierologico attendibile è pertanto fondamentale per capire che fetta di popolazione ha già incontrato il virus».

In cosa consistono i test sierologici?

«Sono test capaci di rilevare la presenza di anticorpi specifici contro il SARS-CoV 2 e quindi forniscono un’informazione preziosa sui reali numeri della diffusione del virus».

Come funzionano?

«I test sierologici per SARS-CoV-2 si basano sulla reazione di una parte del virus (antigene) con gli anticorpi eventualmente presenti nel siero del paziente. La maggior parte dei test utilizzati in laboratorio sono di tipo immunoenzimatico: la reazione immunologica antigene-anticorpo viene evidenziata attraverso un enzima capace di produrre un segnale cromogenico o fluorogenico, la cui intensità correla alla presenza e alla quantità di anticorpi presenti nel siero del paziente».

Quanto sono affidabili?

«L’affidabilità del risultato dipende essenzialmente dalla sensibilità e dalla specificità del metodo prescelto e varia tra i differenti test sierologici disponibili sul mercato.Per sensibilità ci si riferisce alla capacità del test di individuare elettivamente la presenza di anticorpi contro il SARS-CoV-2 quando presenti nel siero del paziente. Una sensibilità ideale del 100% permette cioè di riconoscere tutti i pazienti che hanno sviluppato anticorpi e che, se sottoposti al test, risulteranno quindi positivi. Viceversa una sensibilità dell’85% significa che su 100 pazienti che hanno effettivamente sviluppato gli anticorpi, se sottoposti al test, solo 85 risulteranno positivi, 15 saranno invece “falsi- negativi”. Un test si considera specifico quando il risultato non è influenzato da reazioni crociate con altri agenti virali cui si è venuti a contatto, come ad esempio i coronavirus stagionali, responsabili di infezioni delle alte vie respiratorie. Maggiore è la specificità del metodo, minore è quindi la possibilità di avere risultati “falsi positivi”. Tra i diversi test disponibili, i “test rapidi” immunocromatografici si caratterizzano, allo stato attuale, per una minore affidabilità del risultato in quanto meno sensibili e specifici rispetto ai test immunoenzimatici (EIA) utilizzati in Laboratorio, che invece garantiscono una maggior accuratezza diagnostica unitamente alla quantificazione di tutti gli isotipi anticorpali».

È pensabile applicare questa particolare strategia alla popolazione svizzera?

«Certo. Ovviamente non si può testare tutti gli individui, bisogna eseguire un campionamento di una parte rappresentativa della popolazione, su cui eseguire i test sierologici. Attualmente il tampone nasofaringeo, che permette la rilevazione diretta del virus con tecniche di biologia molecolare, non viene eseguito a tappeto, ma secondo i criteri di sospetto indicati dall’Ufficio federale di sanità pubblica. I test molecolari risultano peraltro positivi solo per un periodo di tempo limitato, mentre i test sierologici, attraverso il monitoraggio della cinetica anticorpale, permettono un’indagine di popolazione predittiva della reale diffusione dell’infezione sul territorio».

Il Professor Andreas Cerny.
Il Professor Andreas Cerny.

Il Ticino avrebbe la capacità di effettuare test sierologici a tappeto?

«Sarebbe un grande sforzo in termini di forza lavoro e logistica, ma non si può escludere a priori che possa essere messo in atto».

Le notizie sull’immunità sono discordanti. C’è chi è risultato positivo al tampone una seconda volta, ad esempio. Questo indica che non si diventa immuni?

« È vero che tante persone hanno ancora un tampone positivo dopo che sono guarite clinicamente, ma non sappiamo se il test molecolare (che rileva la presenza di materiale genetico del virus) indichi effettivamente che il paziente sia ancora infettivo. D’altro canto, alla luce delle più recenti acquisizioni, la negatività del tampone nasofaringeo può peraltro non correlare con la “viro-clearance”, cioè l’eliminazione del virus dall’organismo, potendo questo essere ancora rilevabile a lungo da campioni respiratori profondi o dalle feci».

Allo stato attuale delle cose, cosa sappiamo davvero sull’immunità? Per quanto tempo, dopo essere guariti, si è immuni al coronavirus?

«Attualmente non è stato ancora possibile eseguire test sierologici su un numero sufficiente di pazienti perché i metodi stessi sono ancora a confronto, in modo da poter individuare il test ottimale.Allo stato attuale delle conoscenze, non è possibile esprimersi sull’immunità in termini di protezione da nuova infezione da parte di questo virus, che circola nell’uomo da meno di sei mesi e che, avendo compiuto recentemente il salto di specie, risulta ancora instabile. Se la risposta anticorpale sia protettiva o meno e per quanto tempo perdurino gli anticorpi non è ancora stato chiarito. A tale scopo è necessario un monitoraggio sierologico dei pazienti per mesi, attraverso studi clinici già in atto nel nostro Paese, per meglio comprendere la risposta del nostro sistema immunitario nei confronti del virus SARS-CoV-2».

Trovare il giusto equilibrio fra salute pubblica e rilancio economico è fondamentale. Quali strumenti abbiamo a disposizione per scongiurare nuovi e pericolosi picchi di contagi una volta riaperte le attività?

«Purtroppo, la storia ci insegna che dopo la riapertura delle attività, che favoriscono il contatto tra le persone e la loro mobilità, ci sarà un secondo picco perché il virus ricomincia a circolare nella popolazione. Tuttavia, abbiamo delle armi a nostra disposizione: attendere che i nuovi positivi giornalieri siano vicino allo zero e consolidare il dato per qualche settimana, così si conferma la riduzione della circolazione del virus; mantenere l’isolamento, obbligare le persone ad indossare le mascherine e i guanti soprattutto negli spazi chiusi, evitare il sovraffollamento, effettuare un monitoraggio capillare dei nuovi casi che si presentano e mettere una quarantena rigida ai positivi nuovi e alle persone a stretto contatto con loro. Insomma, fino a che il vaccino o una cura efficace e sicura, non saranno disponibili, bisognerà modificare il concetto che abbiamo di società e di incontri».

Alcuni guariti – o presunti tali – risultano positivi al tampone anche dopo diverse settimane. C’è una spiegazione?

«La guarigione clinica non sempre corrisponde con un tampone negativo; il tampone attesta solamente la presenza del genoma virale a livello delle vie respiratorie. Tuttavia, non sappiamo se quel genoma corrisponda a virus vivo e quindi in grado di infettare altre persone. Ci sono studi che dimostrano che il tampone può rimanere positivo fino ad oltre un mese dall’inizio della sintomatologia».

Quando, o dopo quanto tempo, un paziente può davvero essere considerato guarito? Esiste già uno standard medico per quanto riguarda il coronavirus?

«La definizione di ‘‘guarito’’ è molto problematica, come ha giustamente sollevato anche nelle domande precedenti. Purtroppo, alcuni pazienti guariti clinicamente risultano ancora positivi al tampone e non si sa se siano contagiosi e se questa positività significhi malattia attiva. Sono necessari studi maggiormente approfonditi di coltura virale su linee cellulari, che sono lunghi, laboriosi e non sempre possono essere effettuati».

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