«Ai ragazzi manca collettività in un mondo che corre troppo»

Il 12 giugno pressoché all’unanimità il Gran Consiglio ha dato luce verde alla nuova «Legge sulla promozione delle attività dell’infanzia e della gioventù». Un testo tanto atteso nel settore. Ne parliamo con il direttore di Pro Juventute, Ilario Lodi, allargando lo sguardo allo stato di salute dei giovani.
Un sì corale quello del Gran Consiglio. Un passo nella giusta direzione?
«Senza alcun dubbio. Un voto che ci riempie di gioia. È stato un segnale importante per le future generazioni, ma pure per il presente. Un segnale che dimostra che il lavoro che c’è stato dietro, in fase di consultazione prima e in Commissione poi, è stato in grado di creare un consenso importante attorno a questa idea».
Quali miglioramenti potrà portare?
«Prima di tutto è un segnale importante perché dà maggiore spazio a tutte le attività legate ai bambini e ai giovani in ambito educativo. Cosa che in Svizzera è abbastanza un unicum. In Svizzera, l’educazione dei bambini è considerata una questione privata, un affare di famiglia in cui lo Stato non dovrebbe mettere il naso. La legislazione in ambito di politiche dell’infanzia e della gioventù è quindi praticamente sempre andata nella direzione della protezione: si interviene soltanto quando il problema è già conclamato. Con questa nuova legge si è invece dato maggior risalto al versante legato all’educazione. Non si interviene quando il problema è già presente, ma per la costruzione di un contesto di vita sociale e democratico che parte già dai bambini e dai giovani, tramite tutta una serie di attività: dai centri giovanili, alle iniziative pensate direttamente dai giovani, alle colonie di vacanza. Insomma, a tutte quelle misure che non guardano al giovane come a un soggetto problematico, ma come una persona che ha la necessità di crescere. Penso che questo sia un elemento fondamentale della nuova legge. Un approccio molto positivo».
Nella vecchia legge si parlava di giovani, a partire dai 12 anni. Oggi si parte dai 4 anni. Un lavoro preventivo, che deve iniziare il prima possibile.
«Sappiamo che la cosiddetta “regola dei mille giorni” vale ancora ed è una regola sacrosanta: quello che succede nei primi tre anni di vita del bambino, se non è totalmente determinante per il suo futuro, poco ci manca. Anticipare le possibilità di poter lavorare con i bambini tramite il sostegno dello Stato è dunque certamente positivo. Già a partire dai 4 anni si possono fare cose molto importanti, che genereranno effetti sulla collettività nella quale saranno inseriti. Perché permetteranno ai giovani di potersi cimentare con occasioni educative che non sono legate alla protezione, bensì alla possibilità di poter crescere, di potersi sviluppare come individui. È qualcosa di irrinunciabile, perché non possiamo lasciare che i bambini siano in balia dei mercati. Dobbiamo occuparci di loro come individui, come persone, e questa legge ci consente di farlo».
Guardando al contesto generale, parrebbe che non esista più un’unica istituzione che riesce a occuparsi, da sola, dell’educazione dei bambini. Più passa il tempo più sembra che le famiglie fatichino a star dietro alle sfide in continua evoluzione con cui sono confrontati i bambini. La stessa cosa si può affermare della scuola, che sovente dice: «Non possiamo essere noi a occuparci di tutto». L’aiuto delle associazioni è dunque un terzo elemento indispensabile per un lavoro di squadra?
«Assolutamente sì. Ha centrato il cuore del problema. L’educazione non può essere più interpretata come una questione privata. Non c’è atto che non sia educativo. Ciò significa che nel contesto di complessità così esteso nel quale oggi si trovano i bambini, le occasioni educative sono pervasive di tutta la quotidianità. Non c’è più soltanto la necessità di avere una figura autorevole che si prende cura dei bambini (come la famiglia o il maestro). Ciò non può più essere esaustivo delle necessità educative dei giovani. Quindi tutti siamo chiamati a esercitare questa responsabilità: qualsiasi cosa facciamo genera effetti sui bambini e sui giovani. E di questi effetti dobbiamo aver cura. Ed essere maggiormente consapevoli, come cittadini, del fatto che anche se non lavoriamo direttamente con i bambini, gli effetti del nostro vivere hanno ripercussioni sulla loro vita. Il lavoro, detto altrimenti, è oggi più difficile che in passato. Bisogna quindi trovare il modo di mettere insieme i tasselli di un mosaico che è quello di una società che stiamo provando a costruire, partendo proprio dai bambini e dai giovani. Questa è la sfida principale di chi in futuro avrà in mano questa legge e la potrà utilizzare».


Qual è la sfida più attuale per i giovani?
«Ci sono molte micro-sfide, ma direi che c’è una macro-sfida sopra tutte le altre. Che sta a monte di tutte le altre. La grandissima sfida è quella della collettività. I giovani oggi soffrono di un cronico deficit di collettività. La globalizzazione ha agito e sta agendo in maniera profondissima sulle individualità. Lo vediamo ad esempio nel concetto di competitività. Competere originariamente significava “andare tutti nella stessa direzione”. Oggi, invece, lo intendiamo come “mors tua vita mea”. Ciò, in un contesto democratico, è un problema, poiché da soli non si va da nessuna parte. Oggi i giovani si sentono dire quotidianamente che devono sbigarsela da soli. La sfida maggiore è quindi quella di rimetterli nelle condizioni di pensarsi come soggetti all’interno di una collettività. È l’unica soluzione per fare fronte agli impegni che la globalizzazione ci ha messo sotto il naso».
Mancano punti di riferimento per creare questa collettività?
«Certo. I punti di riferimento esistono, ma unicamente sotto forma di slogan. Per esempio: un punto di riferimento è quello delle competenze. Ma oggi sviluppare delle competenze porta il giovane a ripiegarsi su sé stesso. Perché apprende competenze per sé stesso, non per la collettività. Ciò andrebbe ribaltato, altrimenti il rischio di perdersi per i giovani è molto più alto. Prova ne è il fatto che oggi siamo confrontati con ragazzi schiacciati su sé stessi, che non riescono a reggere il ritmo. Da qui vengono i fenomeni di ritiro sociale, dall’incapacità di pensarsi all’interno di una collettività. E questo purtroppo glielo abbiamo insegnato noi adulti».
Noi adulti andiamo troppo veloce per i ragazzi?
«È un problema che risale alla rivoluzione industriale. Ma che negli ultimi 40 anni ha subito un’accelerazione vertiginosa. Oggi siamo obbligati a fare più cose nel minor tempo possibile. Se ciò, magari, è sostenibile per gli adulti (ma ho qualche dubbio al riguardo), figuriamoci per un ragazzo. Ragazzo che non riesce a tenere il ritmo perché non ha il tempo per elaborare le esperienze. In ambito scolastico, professionale,d famigliare, sportivo, e così via. È venuta a mancare la dimensione del “frattempo”, che permette di sostare in ciò che si sta facendo. E tutto è diventato un rincorrere qualcosa che non si riesce a raggiunge. E i giovani cosa fanno? Si chiamano fuori dalla società. Non diamo loro il tempo necessario per diventare persone. È una società che ha purtroppo altri valori. O perlomeno che non mette i valori della persona al primo posto. Abbiamo perso l’equilibrio. Si dice che la ricchezza prima di distribuirla bisogna produrla, ma oggi produciamo ricchezza a scapito di profili di personalità. E qualcosa non torna».
E per affrontare questa sfida, come stanno le associazioni e le fondazioni come Pro Juventute?
«Le basi legali in Svizzera per le politiche legate all’infanzia sono rarissime e laddove sono presenti sono legate quasi unicamente all’ambito della protezione, non dell’educazione (fatta eccezione, naturalmente, per quanto riguarda la scuola e la formazione professionale). Quindi chi fa il mio lavoro si trova in costante difficoltà perché non ci sono i mezzi finanziari. Che cosa mi aspetto? Che lo Stato, non solo il Ticino, ma anche gli altri Cantoni e la Confederazione investano massicciamente e in maniera strutturale nelle politiche dell’infanzia e della gioventù. Sogno dunque una legge federale sull’educazione. Sapendo che attirerò molte critiche. Ma non possiamo più pensare questo settore in termini cantonali o comunali. Soprattutto davanti alle emergenze pedagogiche con cui siamo confrontati dal punto di vista educativo. Non sono più problemi da Canton Ticino, Ginevra, o Zurigo. No, sono ormai problemi federali, direi anche globali».