«All’alpe a causa della siccità sarà un’altra stagione difficile»

Recentemente ha piovuto e pure nevicato. Poca cosa, però, dopo un altro inverno avaro di precipitazioni. Rimangono quindi le preoccupazioni per chi si guadagna da vivere nel settore primario, come il giovane allevatore e alpigiano Matteo Ambrosini. «Teo», che ha 25 anni, l’abbiamo incontrato a Cevio, la località valmaggese dove ha fondato la sua azienda agricola. L’attende un’altra stagione, la sua terza, ai 1798 metri di quota dell’alpe onsernonese di Porcareccio, dove produce l’omonimo formaggio. Da un paio d’anni (come potete leggere dopo l'intervista grazie alle note che dobbiamo a Marco Gaia, responsabile a Locarno-Monti del Centro regionale sud di MeteoSvizzera) le precipitazioni regolari e sufficientemente abbondanti si fanno desiderare e dunque anche Matteo Ambrosini e i suoi colleghi alpigiani sono confrontati con problemi dovuti alla siccità.

Come si presentano i pascoli in quota e in particolare quelli di Porcareccio?
«Sono salito a Porcareccio ai primi di aprile e di neve non ce n’era già più in buona parte dell’alpe. I pascoli erano marroni e secchi, segno che hanno potuto godere di ben poca acqua. Per questo motivo ho deciso di caricare l’alpe attorno all’inizio di giugno, con almeno due settimane d’anticipo rispetto al solito. Infatti, dovrò usufruire il più presto possibile dell’erba che tornerà a crescere subito quando le temperature torneranno ad alzarsi e concluderà quindi il suo ciclo di vita relativamente presto. Anche perché mancando un manto di neve che si sciolga man mano, l’erba spunta praticamente tutta d’un colpo sui pascoli nel loro complesso, senza contare che viene a mancare una fonte d’acqua per mantenerla fresca il più a lungo possibile. L’anno scorso, per esempio, l’erba era già quasi tutta gialla e quindi senza sostanza, poco nutriente, già a metà luglio».

A Porcareccio salgono mucche e capre...
«Quest’anno porterò a Porcareccio una trentina di mucche da latte e spero una decina di mucche giovani. Ho invece dovuto decidere di rinunciare al centinaio di capre che mio fratello Nicola alleva a Fontana, in Valle Bavona. Saliranno a Porcareccio solo la quindicina di mie capre che non me la sono sentita di vendere lo scorso autunno perché ci sono affezionato. Rinunciando alle capre non solo perderò il latte che utilizzavo per fare il formaggio unendolo a quello di mucca, ma ne vanno di mezzo anche le zone di pascolo».

Ci puoi spiegare meglio?
«Le capre, brucando, mangiano le piantine giovani di larice e vari piccoli arbusti o piante, mantenendo puliti i pascoli e dando la possibilità all’erba di continuare a crescere. E per la biodiversità – sia che si parli di flora sia di fauna – è sicuramente una perdita, quando questo tipo di vegetazione avanza. Senza contare che per crescere e mantenersi in vita queste piante consumano parecchia acqua, quell’acqua che viene così a mancare anche all’erba, già messa a dura prova dai terreni siccitosi su cui cresce, e pure alle sorgenti, utili non solo per gli alpi ma anche per paesi e villaggi».
Nella decisione di rinunciare alle capre c’entra anche il lupo?
«Sì, c’entra. Ai primi di aprile a Porcareccio ho trovato impronte di lupo, tre esemplari che sono passati e ripassati nella zona. Nell’ultima estate, per fortuna, non ho subìto predazioni, ma prudenzialmente ogni notte ho rinchiuso le capre in un recinto, sapendo che questo predatore può comunque arrivare in ogni momento e ovunque. Dobbiamo però considerare che le capre iniziano a pascolare verso sera e se ne vanno in giro a brucare per tutta la notte, per poi presentarsi la mattina all’alpe per farsi mungere, riposare e starsene al fresco durante gran parte del giorno. Le loro abitudini sono state quindi stravolte, con ripercussioni negative sulla quantità di latte che riuscivano a produrre. Di latte di capra nell’ultima stagione a Porcareccio ne ho perso quasi la metà. Gestire un gregge di capre diventa troppo gravoso per un alpigiano come me, da qui la mia rinuncia».

E come è invece per le mucche, pensando in particolare al fatto che l’erba si secca ben presto?
«Quando l’erba sta esaurendo il suo ciclo vitale, le mucche camminano molto di più per cercare ciò che rimane di quella fresca o ancora relativamente tale. Quindi, tendono a produrre meno latte, anche in misura molto marcata, e a volte calano pure di peso. Tanto che in seguito possono volerci alcune settimane affinché siano in grado di recuperare una condizione fisica ideale. Senza contare che ne risente anche la concimazione naturale dei pascoli garantita dagli escrementi delle mucche. Insomma, i problemi con cui siamo confrontati sono molteplici e tutti interconnessi fra loro».
In Ticino sono un centinaio gli alpeggi dove si produce formaggio. Nell’ultima stagione quanta produzione è andata persa a causa della siccità?
«Recentemente si è tenuta l’assemblea della STEA, la Società ticinese di economia alpestre, di cui sono socio e membro di comitato, e si è parlato anche di questo tema. La produzione di formaggio negli alpi nel 2022 è diminuita in media del 20-30 per cento e dal punto di vista finanziario, di conseguenza, le perdite sono state elevate. Anche sugli alpi dove non si mungono gli animali, dedicati al bestiame giovane o a quello per la produzione di carne, i problemi possono essere i medesimi. Soprattutto dove le sorgenti pian piano si asciugano e gli animali devono camminare di più per potersi dissetare».

A un inverno 2021-2022 avaro di precipitazioni e che dunque non ha alimentato le riserve d’acqua se ne è aggiunto un altro, l’ultimo, sostanzialmente uguale, il che non è certo confortante.
«Le preoccupazioni – almeno per quanto mi riguarda, ma sono sicuro che ciò vale per la maggior parte dei miei colleghi alpigiani – sono ancora maggiori proprio per questo stato delle cose. Senza contare che anche le temperature sempre più elevate ci giocano contro e non solo perché fanno sciogliere più velocemente i già pochi accumuli di neve che si trovano nelle zone di pascolo».
Ossia?
«A Porcareccio c’è una sorgente dietro agli edifici dell’alpe e posso contare su un bacino di accumulo che è stato costruito più distante ed è servito da un’altra sorgente. L’anno scorso in luglio l’acqua aveva una temperatura di 14 gradi, quando noi eravamo abituati ad averla attorno ai 6 al massimo. Una bassa temperatura dell’acqua è importante affinché si possa raffreddare adeguatamente il latte, così da garantirne la conservazione e la qualità ed evitare la proliferazione di batteri. Per questo motivo già nel 2022 ho acquistato una cisterna per il raffreddamento del latte che funziona a elettricità, il cui consumo incide sulle spese generali di conduzione dell’alpe. Inoltre, quando fa caldo e non arrivano piogge che di tanto in tanto abbassino la temperatura dell’aria, si scalda troppo la cantina dove faccio maturare il formaggio e lo conservo, perché le rocce attorno all’edificio fanno da accumulatore termico».
Prima o poi, non si potrebbe essere tentati di gettare la spugna?
«Come molti altri alpigiani, sono ancora troppo legato alla tradizione della salita all’alpe. È però vero che alcuni colleghi a volte già si chiedono se il santo valga ancora la candela. La risposta migliore, al momento, è che non bisogna farsi troppe domande e provare a fare il meglio che si può».