Armato a Taverne? Non era lui: stando a un’App dormiva

BELLINZONA - «Una giornata campale»: così è stato definito ieri nell’aula della Pretura penale di Bellinzona quel giovedì 8 marzo 2018, quando a Torricella-Taverne si scatenò il finimondo con pattuglie della polizia a bloccare gli accessi stradali del paese, altre a monitorare le scuole, abitanti spaventati ed esercizi pubblici con la serranda abbassata. A far scattare l’allarme la segnalazione di una donna, che aveva dichiarato alla polizia di essere stata minacciata da un uomo armato di pistola e molestata sessualmente verso le 10 del mattino nei pressi del sottopassaggio della cantonale. L’uomo in questione, un cittadino svizzero 42.enne della zona, era ieri a processo in Pretura penale di fronte al giudice Marco Kraushaar. Difeso dalla MLaw Demetra Giovanettina dello studio Marcellini-Galliani di Lugano, l’imputato doveva rispondere dei reati di infrazione alla Legge federale sulle armi e sulle munizioni «per aver – si legge nel decreto d’accusa firmato dall’allora procuratore pubblico Antonio Perugini – impugnato una pistola infilata nella cintola sulla pubblica via» e di molestie sessuali, per aver mimato un gesto sconcio mentre si avvicinava alla vittima. Per lui l’allora procuratore, che ieri in aula non è stato sostituito da alcun collega, aveva proposto una condanna a una pena detentiva di 30 giorni e a una multa di 300 franchi.
Il giudice ha ribaltato però il decreto d’accusa accogliendo la richiesta della difesa di assolvere l’imputato da entrambi i capi d’accusa. Perché? Semplice, non poteva essere lui l’autore dei crimini: in quel momento stava dormendo. Inoltre, la pistola di cui parlava la donna non è mai stata rinvenuta.
Rilevamenti chiave
Quando gli agenti gli sono piombati in casa verso le 11.45 l’imputato era sveglio da poco e si stava preparando un caffè. Come prova dei suoi movimenti quella mattina ci sono i rilevamenti del suo dispositivo Fitbit, ovvero un orologio collegato all’omonima app per smartphone che registra le ore di sonno, i battiti cardiaci e i passi di chi lo indossa: tutti i rilevamenti combaciano con la versione fornita fin dall’inizio dall’imputato. Al momento del fermo il 42.enne indossava il bracciale, che ha tolto solo una volta giunto in polizia. Fino a quel momento non si registra un’interruzione, «il che esclude che ci sia stato un passaggio del dispositivo da una terza persona» ha spiegato Giovanettina. Stando alla versione della vittima (definita dalla difesa «povera di dettagli e poco chiara») l’imputato era visibilmente alterato quando si è avvicinato a lei nei pressi del sottopassaggio. «La teoria del procuratore e della polizia – ha detto ancora la difesa – sosteneva che l’imputato avesse fatto una bravata al mattino e fosse ritornato a casa, dove ha avuto poi una sorta di amnesia che gli impediva di ricordare quanto successo». Ma stando agli esami del sangue, l’imputato non aveva assunto droghe né alcol e nel dialogo con gli agenti risultava lucido. «Un identikit che non combacia con lo stato confusionale in cui è stato descritto l’uomo dalla vittima», ha sottolineato Giovanettina, secondo cui nel corso del procedimento penale c’è stato uno «squilibrio tra la credibilità dell’imputato e quella dell’accusatrice privata». Questo anche perché l’uomo ha alle spalle diversi precedenti penali legati al consumo di stupefacenti e a risse «da bar»; episodi per cui è noto in paese.
I due si conoscevano
Stando alla difesa, forse l’accusatrice privata aveva paura dell’imputato per questo e, «nonostante non sia andata davvero come lei ha raccontato la mattina dell’8 marzo, si è convinta di aver visto proprio l’imputato». Ed è questa la tesi sposata dal giudice. «Qualcosa in quel sottopassaggio dev’essere successo, è improbabile che lei si sia inventata tutto – ha detto Kraushaar – ma tutti gli elementi portano a pensare che si sia sbagliata sull’identità della persona».
«Conosco la donna che mi ha denunciato – ha spiegato in aula l’imputato – ma non ci frequentavamo. Non so perché abbia detto che ero io la persona che ha visto nel sottopassaggio, non aveva motivi per vendicarsi contro di me. Penso che sia stata colpa della mia brutta fama: ha visto una persona e l’ha associata alla mia faccia». L’imputato, a cui verranno anche rimborsate le spese legali, ha infine spiegato di aver smesso anni fa con la droga e iniziato un percorso per cambiare vita. Ora solo una domanda resta aperta: ammesso che i fatti raccontati dalla donna siano realmente accaduti, chi è stato a spaventarla?