«Ben venga lo sfitto, crea concorrenza»

Settimana scorsa il gruppo immobiliare Artisa ha festeggiato a Lugano i suoi primi 50 anni. Per l’occasione abbiamo fatto una chiacchierata a tutto campo con Stefano Artioli, che in azienda rappresenta la seconda generazione e che ha trasformato la piccola società di metalcostruzioni Genazzi&Artioli nell’attuale gruppo Artisa. Il mercato immobiliare è tutt’altro che saturo ci assicura. Ecco perché per un imprenditore non esiste la parola pensione, aggiunge pieno di entusiasmo, ci sono ancora troppe possibilità da cogliere.
Signor Artioli, ci racconta gli inizi del gruppo?
«La ditta è stata fondata da mio padre nel 1968, con Aurelio Genazzi, e si occupava di metalcostruzioni. Poi il socio nel ’73 è mancato e nel ’77 ho iniziato ad affiancare mio padre. Il rapporto tra di noi non era sempre semplice, anche per la differenza di caratteri: lui era più da lavoro pratico in officina, io da settore progettuale e commerciale. Abbiamo iniziato un percorso di crescita fino alla fine degli anni ‘90. Costruivamo capannoni, serbatoi, depuratori, fabbriche. Erano anni di grossa crescita e di entusiasmo, il mondo era anche più semplice e c’era molta meno burocrazia».
E poi?
«E poi nel 1999 mio padre è andato in pensione. Dal 2000 al 2008 ho iniziato un processo di profonda trasformazione. In pratica, tutte le attività storiche della Genazzi & Artioli, che nel frattempo era diventata una struttura da 10.000 mq e quaranta dipendenti sono state chiuse. A Preonzo una parte degli spazi veniva affittata ad altre aziende. Prima abbiamo creato delle società affiliate, come la Curvotecnica, la Eventmore e rilevato la Bredo Bau. Poi abbiamo iniziato a specializzarci nella progettazione immobiliare e a vendere tutte le attività legate all’esecuzione. Da gennaio 2018 siamo a tutti gli effetti un gruppo che sviluppa progetti a livello nazionale e internazionale».
Artisa quando nasce?
«La holding è stata creata nel 2008. A molti sembrava che con il processo di conversione al settore immobiliare stessi stravolgendo la natura del gruppo: ma sono cresciuto nei cantieri, e le assicuro che costruire un palazzo non è così diverso da un capannone. Ci vuole sempre capitale, la capacità di trasformazione e di gestire le persone. Il brand Artisa è nato in una sera, il nome sta per Artioli, Stefano, e Alain (mio figlio, la terza generazione)».
Ma come spiegare la crescita esponenziale che avete avuto negli ultimi sei anni?
«È semplice. Il successo è arrivato dalla grande fame sul mercato delle casse pensioni e dei fondi d’investimento, che se non impiegano il denaro devono pagare tassi negativi. Tra i nostri maggiori clienti in Svizzera ci sono CS, UBS, SwissLife, Swiss Prime Site, CSS. Noi sviluppiamo progetti, loro costruiscono gli immobili. I costi di finanziamento sono molto bassi, vista la grande liquidità sul mercato. Infine si dimentica spesso che il parco immobiliare ticinese è molto vetusto e che ci sono interi quartieri da ricostruire».
Tanti associano il brand di Artisa al lusso. Le cose stanno veramente così?
«Assolutamente no. Noi costruiamo per il ceto medio, sia gli appartamenti, sia il ‘microliving’, sia le strutture per la terza e quarta età».
A chi sostiene che siete voi che dettate i ritmi del mercato immobiliare ticinese, cosa rispondete?
«È vero. In pochi anni abbiamo realizzato almeno un migliaio di appartamenti nel Cantone. In tutta la Svizzera il nostro portafoglio pesa 700 milioni, e dovrebbe avvicinarsi al miliardo entro la fine dell’anno prossimo. Siamo a Lugano, Zugo, Zurigo, Berna, Losanna, Ginevra, e Lucerna. Noi ci occupiamo di ridisegnare i quartieri e di trovare i finanziamenti sul mondo dei capitali per realizzare i progetti. In Ticino la maggior parte dei palazzi non sono più nostri, ma appartengono ai nostri dieci maggior clienti. Ci sono rimasti solamente i grossi oggetti a Lugano (il parco Maraini, il quartiere di Cornaredo e il nostro stabile a Manno). Nelle altre città abbiamo acquistato o stiamo costruendo stabili del futuro».
Per il 2019 prevedete di raddoppiare il patrimonio immobiliare rispetto al 2017: in un momento in cui lo sfitto sta aumentando, non è pericoloso?
«No, i media raccontano le storie a metà. In Ticino gran parte dello sfitto del 2% è generato dal settore del lusso, un mercato che va esaurendosi perché ci sono sempre meno russi e italiani che arrivano per affari. Poi un po’ di sfitto significa concorrenza, che fa bene al settore. Negli anni ’70 era al 4%. Ed erano anni in cui si è costruito sull’onda della speculazione edilizia che attingeva i fondi dalle fiduciarie. Edifici mai rinnovati, per cui ben venga ora la concorrenza del nuovo. E poi ci sono città, come il comune di Zurigo, che ha dichiarato che entro il 2030 bisognerà realizzare 60.000 nuovi appartamenti per far fronte alla trasformazione della città. E noi guardiamo avanti».
Quali sono i trend dell’immobiliare del futuro?
«Uno dei nostri focus è il ‘microliving’. È un concetto di serviced-apartments, cioè di piccoli appartamenti già ammobiliati e corredati da una serie di servizi nelle zone centrali delle città per la fascia media. Abbiamo un progetto di ‘City Pop’ a Besso, ma anche a Zurigo, a Losanna e a Berna. Il prezzo è componibile, cioè si paga per i servizi effettivamente utilizzati (pulizia, palestra, car sharing, spesa online). Inoltre c’è una grossa innovazione tecnologia: tramite un’applicazione è infatti possibile gestire tutti i servizi».
Un concetto che state sviluppando anche all’estero?
«Si, abbiamo tre oggetti in trattativa per la trasformazione in City Pop in centro a Milano. E poi stiamo puntando sulle città più grandi della Germania: Monaco, Francoforte, Lipsia, Amburgo, Colonia e Bonn, Düsseldorf. Francoforte si sta ingrandendo molto per via della Brexit (gli sviluppatori prevedono una crescita di 100 mila persone all’anno)».

In Ticino qual è il progetto che vi caratterizza di più?
«Cornaredo. Per ora siamo i principali attori che stanno costruendo il quartiere. Sarà la nuova porta d’ingresso sulla città dalla galleria del Vedeggio. Per realizzarlo sono previste tappe fino al 2025, in pratica un cantiere decennale. Sarà la porta più bella su Lugano, con accesso a piedi al parco di Trevano. Questo forse non piace a tutti».
Cioè? In Ticino ha più amici o nemici?
«Non pesto i piedi a nessuno. Però come dico sempre, quando si ha il coraggio di fare, il nemico non arriva mai dal basso ma dal ceto medio alto. Per cui odia chi emerge dal nulla perché ha il quid che manca a loro. E comincia a malignare».
In che senso?
«Vuole sapere cosa malignano? Che i soldi di Artisa arrivano dalla Russia, dall’Italia, dalla mafia. Ma chiunque voglia può consultare i nostri registri contabili. Sono tante fantasie che non esistono in un Paese che funziona come il nostro. Chi insinua che i soldi hanno strane origini, non ha ancora capito che dietro ai cantieri c’è il denaro delle casse pensioni che preferiscono investire in immobili piuttosto che pagare fior fior di milioni di interessi negativi alla BNS. Noi siamo piuttosto la soluzione che permette di offrire rendimenti interessanti».
Dunque del successo di società come Artisa in realtà beneficiano tutti?
«Direi! Artisa è cresciuta in modo veloce e quindi a volte genera invidie. Ma unire la finanza con l’immobile è il nuovo modo di fare l’edilizia. Le dico solo che negli anni abbiamo pagato milioni di tasse, di cui ha beneficiato anche Bellinzona. Questo significa anche che il gruppo è cresciuto, rispetto ai bollettini da 5.000 franchi degli inizi. Perciò dico: ben vengano le aziende come la nostra in Ticino, diamogli il potenziale per svilupparsi e generare ricchezza».
La nuova Valascia nascerà sulla piana di Ambrì. Un grande progetto sfuggito ad Artisa oppure non eravate interessati?
«No non siamo interessati alle costruzioni statali. Anche per lo stadio a Cornaredo, dopo il concorso di quattro anni fa ci siamo ritirati. Il comune di Porza ha bocciato la pista di ghiaccio sotterranea con la luce zenitale, anche perché mancava la giurisprudenza per decidere se era un progetto fattibile. Per cui abbiamo deciso di lasciar stare. È un peccato, perché il concetto era quello di dare a Lugano una scuola superiore di hockey per crescere i giovani professionisti. Ovvero produrre in casa un prodotto di qualità invece di andarlo a comprare all’estero. Sono troppo innovativo per i tempi a volte».
Cioè vede più lontano?
«Le faccio un altro esempio. Io non ho mai studiato gerontologia ma in Canton Ticino abbiamo costruito circa 500 posti tra senior residence medicalizzate e case anziani. Senza, nel Cantone ora ci sarebbe una carenza di strutture. Anche a Cornaredo costruiamo pensando già al 2030. Le pianificazioni cantonali aggiornano spesso in ritardo il numero di posti letto necessari sul territorio, quando in realtà il trend dell’invecchiamento della popolazione è un dato di fatto risaputo da tempo, in tutta Europa».
Il vostro gruppo sta dando lavoro agli artigiani ticinesi, ma c’è chi sostiene che siete molto determinati a tirare il prezzo per assegnare le commesse. Realtà o lamento montato ad arte?
«Non è vero. È vero che ci sono tante piccole aziende poco organizzate o con poca serietà professionale. Sa quanti non riescono a gestire i costi della ditta, e poi a prestazione finita presentano una fattura ben più cara. Le dirò, in Svizzera interna di solito sono più seri. E a volte i cantieri addirittura costano meno. Poi generalmente noi facciamo solo il progetto di sviluppo, i finanziatori sono i costruttori. Diamo il progetto ad una grossa impresa di costruzione e controlliamo l’esecuzione chiedendo garanzie depositate fino a cinque anni».
Dopo anni di discussioni la LIA è stata affossata dal Parlamento. Una decisione saggia o no?
«Per me sì. Alla fine la discussione era se fare o no un controllo quando ci sono già le associazioni di categoria. A cosa serve un controllo del controllo, se non a uno sperpero di costi ed erosione di margini? L’imprenditore non deve diventare poliziotto, deve avere la fantasia di fare business, generare ricchezza e distribuirla al dipendente. Sono le basi economiche di qualsiasi Paese».

E Artisa oggi a che punto di crescita si trova?
«La visione è quella di diventare entro cinque anni una delle maggiori società a livello svizzero, con un peso da tre miliardi. Oltre ad avere un parco immobiliare solo nelle top location di tutte le città. Oggi Artisa è sulla strada per la quotazione in Borsa. Abbiamo iniziato nel 2016 e già per la fine del 2019 o l’inizio del 2020 potremmo entrare in Borsa a Zurigo. Se poi faremo il passo o no, lo decideremo all’ultimo. Però nel frattempo avremo fatto un percorso di trasparenza e di due diligence che comunque ci è utile».
Sareste la terza azienda ticinese a fare il grande passo: come mai questa decisione?
«Vogliamo espanderci. La catena City Pop prevede 2.000 appartamenti in Svizzera e 15.000 in Europa. A Zurigo stiamo costruendo l’Artisa Tower, il nostro primo grattacielo di 80 metri, e speriamo bene che ce ne saranno altri a seguire. Ma per crescere ci vogliono capitali: possiamo o quotarci in Borsa oppure aprirci a degli investitori privati a livello internazionale. In ogni caso dobbiamo fare un accurato percorso di due diligence che documenti come funziona la società con la massima trasparenza. Il processo è lungo, è partito due anni fa e non vogliamo accelerarlo».
In cinquant’anni di storia anche il gruppo Artisa avrà passato un momento di bassa. Quale?
«Negli anni 2000 c’è stata una fase di forte cambiamento ma anche di crisi. L’azienda non andava bene e io stesso ero fortemente sotto pressione, avevo perso il mio entusiasmo imprenditoriale e non sapevo cosa stavo sbagliando. E poi ho capito: finora ero stato il tipo di imprenditore che controlla tutto, caricandosi di stress enormi. Per far crescere il gruppo c’era bisogno sia di cambiare il business, sia il mio stesso approccio: ho cominciato a credere negli altri. Tant’è che la differenza di Artisa oggi non la fa Stefano Artioli ma i dirigenti che mi appoggiano, e che sono più bravi di me. Quelli più capaci però vanno scovati. E poi per tirar fuori il potenziale dalle persone bisogna essere bravi a togliere le loro paure. In fondo, pensare in grande non costa niente. È quando ti blocchi per paura dell’errore che c’è il vero problema».
Col suo entusiasmo non ha mai fatto colpi di testa?
«Sbaglio sempre, col tempo ho imparato a sbagliare meno. Sono sposato da 34 anni, da lì si impara il compromesso».
Un’ultima domanda, chi leva le paure a Lei?
«Beh ne ho già poche di natura. Una però ce l’ho veramente, e cioè quando ho a che fare con uno stupido. Lo stupido è una mina vagante ed è pericoloso perché non so mai dove andrà a parare».