Bruno Rezzonico: «Volare è una magia, ti fa dimenticare i problemi»

Volare, dice, è «ancora una magia». Incontrare Bruno Rezzonico, a margine della presentazione di Lugano Vola, significa fare un tuffo nel passato. Suo e, di riflesso, dell’aeroporto di Agno. Dal «pratone» degli albori alla lingua d’asfalto di oggi. In mezzo, l’Aero Club di cui è vicepresidente e tanti, tantissimi aneddoti.
Iniziamo da una domanda banale: se diciamo
Lugano-Agno, qual è il suo primo ricordo?
«Senz’altro le mie capatine, qui, ai tempi
del Ginnasio. La pista era in erba, parlo degli anni Cinquanta. Agno, ricordiamo,
fu inaugurato nel 1938, due anni dopo la nascita dell’Aero Club. Essendo lo
scalo più a sud della Svizzera, divenne presto appetibile per i militari. Lo è
ancora oggi. L’esercito, d’altro canto, stanziò dei soldi per valorizzare l’aeroporto,
mentre a drenare il cosiddetto pratone furono i rifugiati polacchi».
Quelle capatine, chiamiamole così, si
tradussero in una lunga, e prosperosa, carriera come pilota, istruttore e,
infine, membro del Servizio d’inchiesta svizzero sulla sicurezza (SISI).
«Presi la licenza, diventai presto
istruttore e iniziai a volare proprio qui a Lugano. Quindi, trovai un ingegnere
con un bimotore a Milano e iniziai a volare per lui. In seguito, lavorai per
diversi industriali italiani, dai Borghi ai Fabbri, arrivando nel 1967 a
formare un vero e proprio equipaggio ticinese, con Renato Piattini, a bordo di
un HS-125. La pista allora era lunga 1.200 metri. Non era delle più lunghe,
dovevi conoscerla bene».
Gli anni di piombo vi allontanarono da
quell’apparecchio, nella misura in cui venne venduto. E lei si divise da
Piattini.
«Io ottenni un brevetto per il lungo
raggio, con l’idea di diventare un pilota di linea. Ma le famiglie di
industriali, in Italia, pagavano meglio. E uno, beh, guardava anche la moneta.
A ben vedere, poi, lavorare per la Swissair della situazione avrebbe
significato fare sempre le stesse rotte. Detto degli italiani, lavorai pure a
Ginevra, con vari velivoli, per poi rientrare a Lugano e lavorare per Sergio
Mantegazza, quando oramai eravamo negli anni Ottanta. Nel 1985, mi chiamò un
imprenditore tedesco e, con lui, andai avanti altri vent’anni. Se mi guardo
indietro, dico che ho sempre cercato nella mia carriera di puntare in alto.
Penso di esserci riuscito».
Se lo aspettava, se ripensa alle sue
visite da ragazzo a Lugano-Agno?
«No, assolutamente no. Quando venivo qui,
c’era spesso un bimotore. Ecco, per salire a bordo bisognava aprire una
porticina. Ogni volta che vedevo il pilota scendere da lì, mi dicevo: chissà se
anch’io, un giorno, volerò lassù. È successo».


Crede che manchi lo spirito dei bei tempi?
Da fuori, ci sembra che l’aeroporto non sia così «presente» nell’immaginario
collettivo dei luganesi…
«Quando, da ragazzo, frequentavo Agno non
c’erano recinzioni. Era tutto aperto. Ma anche negli anni successivi non c’era
tutta la sicurezza di oggi. Se devo trovare una critica, allora dico che lo
scalo è diventato un po’ impersonale. Ricordo quando venivo qui con mio figlio,
poteva entrare in pista senza problemi, perfino toccare gli aerei. Adesso c’è
una rete alta tre metri e la gente sta fuori. Tutto il nostro mondo, insomma, è
più lontano rispetto alla popolazione. Di conseguenza, chi magari insegue il
sogno di diventare un pilota vede questo traguardo allontanarsi. C’è anche da
dire che ai miei tempi era più facile intraprendere una carriera nell’aviazione.
Oggi, invece, servono molti soldi, anche se uno prende e va in America, dove i
brevetti costano meno. Di più, quando cominciai c’era una grande richiesta di
piloti dall’Italia, in particolare nel settore executive».
L’Aero Club, venendo al presente, come
sta?
«Abbiamo circa 300 soci, un immobile che
ci permette, tramite gli affitti, di sovvenzionare i gruppi a noi collegati ma
non è che teniamo in piedi l’aeroporto. Lo scalo vive grazie alla Città. In
generale, Agno si barcamena: bisognerebbe investire negli hangar, ma è un po’
tutto fermo. I nostri piloti, tuttavia, sono contenti. Conta questo».
Un evento come Lugano Vola, il prossimo 13
settembre, può aiutare?
«Diciamo che questo evento è un mio
capriccio, o meglio un desiderio mio e di Davide Pedrioli. A una certa gli ho
detto: senti, dobbiamo farlo vedere questo benedetto aeroporto, farlo sentire
alla gente, muoverlo. Al di là delle posizioni di alcuni politici, lo scalo è importante.
E va mantenuto. Mi sono detto: creiamo uno show, invitiamo fra gli altri la
Patrouille Suisse. Ho dovuto tirare un po’ di giacchette, dato che solo di
assicurazione per avere la pattuglia acrobatica bisogna spendere migliaia e
migliaia di franchi. Ma credo ne sia valsa la pena».
Un’ultima domanda: volare è ancora una
magia, nonostante tutto?
«Sì. Siamo abituati a camminare, a nuotare
nell’acqua, ma non a stare in aria. Quando sei lassù, però, capisci che è una
cosa bellissima, perché entri in un’altra dimensione e ti lasci indietro tutti
i problemi».