L'intervista

Bruno Rezzonico: «Volare è una magia, ti fa dimenticare i problemi»

A tu per tu con il vicepresidente dell'Aero Club cittadino: dal passato al futuro di Lugano-Agno, passando per tanti, tantissimi aneddoti personali
© Ti-Press / Francesca Agosta
Marcello Pelizzari
04.09.2025 06:00

Volare, dice, è «ancora una magia». Incontrare Bruno Rezzonico, a margine della presentazione di Lugano Vola, significa fare un tuffo nel passato. Suo e, di riflesso, dell’aeroporto di Agno. Dal «pratone» degli albori alla lingua d’asfalto di oggi. In mezzo, l’Aero Club di cui è vicepresidente e tanti, tantissimi aneddoti.

Iniziamo da una domanda banale: se diciamo Lugano-Agno, qual è il suo primo ricordo?
«Senz’altro le mie capatine, qui, ai tempi del Ginnasio. La pista era in erba, parlo degli anni Cinquanta. Agno, ricordiamo, fu inaugurato nel 1938, due anni dopo la nascita dell’Aero Club. Essendo lo scalo più a sud della Svizzera, divenne presto appetibile per i militari. Lo è ancora oggi. L’esercito, d’altro canto, stanziò dei soldi per valorizzare l’aeroporto, mentre a drenare il cosiddetto pratone furono i rifugiati polacchi».

Quelle capatine, chiamiamole così, si tradussero in una lunga, e prosperosa, carriera come pilota, istruttore e, infine, membro del Servizio d’inchiesta svizzero sulla sicurezza (SISI).
«Presi la licenza, diventai presto istruttore e iniziai a volare proprio qui a Lugano. Quindi, trovai un ingegnere con un bimotore a Milano e iniziai a volare per lui. In seguito, lavorai per diversi industriali italiani, dai Borghi ai Fabbri, arrivando nel 1967 a formare un vero e proprio equipaggio ticinese, con Renato Piattini, a bordo di un HS-125. La pista allora era lunga 1.200 metri. Non era delle più lunghe, dovevi conoscerla bene».

Gli anni di piombo vi allontanarono da quell’apparecchio, nella misura in cui venne venduto. E lei si divise da Piattini.
«Io ottenni un brevetto per il lungo raggio, con l’idea di diventare un pilota di linea. Ma le famiglie di industriali, in Italia, pagavano meglio. E uno, beh, guardava anche la moneta. A ben vedere, poi, lavorare per la Swissair della situazione avrebbe significato fare sempre le stesse rotte. Detto degli italiani, lavorai pure a Ginevra, con vari velivoli, per poi rientrare a Lugano e lavorare per Sergio Mantegazza, quando oramai eravamo negli anni Ottanta. Nel 1985, mi chiamò un imprenditore tedesco e, con lui, andai avanti altri vent’anni. Se mi guardo indietro, dico che ho sempre cercato nella mia carriera di puntare in alto. Penso di esserci riuscito».

Se lo aspettava, se ripensa alle sue visite da ragazzo a Lugano-Agno?
«No, assolutamente no. Quando venivo qui, c’era spesso un bimotore. Ecco, per salire a bordo bisognava aprire una porticina. Ogni volta che vedevo il pilota scendere da lì, mi dicevo: chissà se anch’io, un giorno, volerò lassù. È successo».

Quando, da ragazzo, frequentavo Agno non c’erano recinzioni. Era tutto aperto. Ma anche negli anni successivi non c’era tutta la sicurezza di oggi. Se devo trovare una critica, allora dico che lo scalo è diventato un po’ impersonale

Crede che manchi lo spirito dei bei tempi? Da fuori, ci sembra che l’aeroporto non sia così «presente» nell’immaginario collettivo dei luganesi…
«Quando, da ragazzo, frequentavo Agno non c’erano recinzioni. Era tutto aperto. Ma anche negli anni successivi non c’era tutta la sicurezza di oggi. Se devo trovare una critica, allora dico che lo scalo è diventato un po’ impersonale. Ricordo quando venivo qui con mio figlio, poteva entrare in pista senza problemi, perfino toccare gli aerei. Adesso c’è una rete alta tre metri e la gente sta fuori. Tutto il nostro mondo, insomma, è più lontano rispetto alla popolazione. Di conseguenza, chi magari insegue il sogno di diventare un pilota vede questo traguardo allontanarsi. C’è anche da dire che ai miei tempi era più facile intraprendere una carriera nell’aviazione. Oggi, invece, servono molti soldi, anche se uno prende e va in America, dove i brevetti costano meno. Di più, quando cominciai c’era una grande richiesta di piloti dall’Italia, in particolare nel settore executive».

L’Aero Club, venendo al presente, come sta?
«Abbiamo circa 300 soci, un immobile che ci permette, tramite gli affitti, di sovvenzionare i gruppi a noi collegati ma non è che teniamo in piedi l’aeroporto. Lo scalo vive grazie alla Città. In generale, Agno si barcamena: bisognerebbe investire negli hangar, ma è un po’ tutto fermo. I nostri piloti, tuttavia, sono contenti. Conta questo».

Un evento come Lugano Vola, il prossimo 13 settembre, può aiutare?
«Diciamo che questo evento è un mio capriccio, o meglio un desiderio mio e di Davide Pedrioli. A una certa gli ho detto: senti, dobbiamo farlo vedere questo benedetto aeroporto, farlo sentire alla gente, muoverlo. Al di là delle posizioni di alcuni politici, lo scalo è importante. E va mantenuto. Mi sono detto: creiamo uno show, invitiamo fra gli altri la Patrouille Suisse. Ho dovuto tirare un po’ di giacchette, dato che solo di assicurazione per avere la pattuglia acrobatica bisogna spendere migliaia e migliaia di franchi. Ma credo ne sia valsa la pena».

Un’ultima domanda: volare è ancora una magia, nonostante tutto?
«Sì. Siamo abituati a camminare, a nuotare nell’acqua, ma non a stare in aria. Quando sei lassù, però, capisci che è una cosa bellissima, perché entri in un’altra dimensione e ti lasci indietro tutti i problemi».