Che cosa succede, in Svizzera, quando cambiamo lingua?

In una realtà culturalmente frammentata come quella svizzera, cambiare lingua è spesso un gesto quotidiano. Ma è davvero solo un cambio di codice? Oppure ogni idioma attiva una parte diversa di noi, del nostro modo di pensare e di relazionarci?
Seguendo ciò che la linguistica strutturale e la semiotica insegnano è possibile affermare che una lingua non è un semplice contenitore di regole grammaticali e lessico, ma un sistema di segni che organizza la realtà. Parlare in francese, italiano o tedesco non significa solo usare registri diversi: significa costruire il mondo — e il sé — in modi differenti. Ci sono quindi in gioco strategie comunicative, ritmo, modalità di enunciazione differenti. Il modo in cui si saluta, si argomenta, si esprime cortesia o ironia, cambia da lingua a lingua — e con essa cambia anche l’immagine che l’io proietta nel discorso. Non si tratta quindi di uno strumento neutro, ma di una forma di mediazione tra il soggetto e il mondo. Quando una persona passa da una lingua all’altra, attiva cornici interpretative diverse: ciò che è «normale» in una lingua può apparire «emotivo» o «formale» in un’altra.
Anche la psicologia della personalità dialoga con questo approccio. I tratti caratteriali, come estroversione o amicalità, non sono entità assolute, ma si manifestano anche attraverso il linguaggio, nel modo in cui ci posizioniamo nel discorso. È interessante notare come molti bilingui svizzeri riferiscano di sentirsi più estroversi in italiano, più neutrali in tedesco, più eleganti in francese. E non si tratta soltanto di un effetto culturale: è la lingua stessa, con la sua struttura e i suoi rapporti, a modellare il tono e l’intenzionalità con cui comunichiamo.
Ma c’è di più. Entra in gioco anche il legame affettivo e personale che ognuno sviluppa con le parole delle lingue che conosce.
Umberto Eco parlava di enciclopedia, cioè una rete complessa — e mai del tutto stabile — di associazioni concettuali attraverso cui diamo senso alla realtà. Ogni termine che usiamo attiva, nella nostra mente, una costellazione di significati possibili. Se diciamo «cane», qualcuno penserà subito a «gatto», qualcun altro a «fedeltà», a un animale di famiglia, o a una paura infantile.
Queste associazioni non sono universali: dipendono dalla nostra storia personale, dal contesto culturale, e dalla lingua in cui un concetto ci è stato presentato. Così, la parola «dog» in inglese, «chien» in francese o «Hund» in tedesco, pur indicando lo stesso referente, attivano reti concettuali diverse — in base alla lingua, alla cultura e alle esperienze vissute in ciascun codice linguistico.
Per questo motivo, una stessa persona può sviluppare «enciclopedie mentali» differenti per lo stesso concetto, a seconda della lingua che sta usando. Questo si traduce poi in usi linguistici diversi a seconda del contesto: non solo varia il vocabolario, ma anche il modo in cui costruiamo il discorso, scegliamo i toni, diamo significato.
La lingua, dunque, non è solo ciò che usiamo per esprimere la personalità: è parte integrante della personalità stessa. È il teatro in cui mettiamo in scena le nostre maschere — o, come direbbe il semiologo Roland Barthes, i nostri «modi di dire io».
In Svizzera, questa pluralità linguistica si traduce in una pluralità semiotica di identità. Non una perdita di coerenza, ma un’estensione del sé. Il soggetto non si frammenta, ma si adatta a universi di senso differenti. Un romancio può parlare in italiano al lavoro, in tedesco con i colleghi e in francese con la burocrazia, senza sentirsi diviso: ognuna di queste lingue attiva un diverso assetto relazionale, una diversa postura nel mondo, una diversa enciclopedia.
La vera domanda allora non è se la lingua cambi chi siamo, ma quanti modi di essere ci permette di esplorare. E in questo senso, la Svizzera non è solo un mosaico linguistico, ma un laboratorio vivente della semiotica dell’identità.