Come fare buon giornalismo nell'era del terrorismo globale

LUGANO - Martedì sera all'USI sono stati analizzati pregi, difetti e nuove sfide dell'informazione legata al terrorismo: perché se i cronisti di guerra sono "testimoni di pace e civiltà", è anche vero che l'informazione, a volte in buona fede altre meno, spesso è selettiva nonché "preda delle correnti emozionali". Ne hanno discusso, durante il dibattito "Il giornalismo nell'era del terrorismo globale", moderati dal direttore del CdT Fabio Pontiggia, Milena Gabanelli, conduttrice di Report, Ferruccio de Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera e ora editorialista del Corriere del Ticino, e Marcello Foa, CEO di MediaTI e docente di giornalismo all'USI.
La serata era organizzata dal Corriere del Ticino, dall'Osservatorio europeo di giornalismo della Facoltà di scienze della comunicazione dell'USI e dall'Associazione Dante Alighieri di Lugano. Ecco com'è andata.
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"Il giornalismo riesce a fare una buona informazione sul tema terrorismo?". È con questa domanda che il direttore Pontiggia ha aperto la serata. La prima a rispondere è l'ospite d'eccezione, Milena Gabanelli, che ha spiegato come le informazioni spesso "siano tante, troppe e non di rado contraddittorie": sul caso di Zaman ad esempio, il giornale turco chiuso da Erdogan, l'inviato di Report in Turchia ha constato come per molti locali la chiusura sia stata giusta poiché la testata sosteneva un certo tipo di propaganda estremista.
Ferruccio de Bortoli ha proseguito ricordando dei dati preoccupanti per la categoria dei giornalisti: secondo Reporter Senza Frontiere solo nel 2015 i giornalisti uccisi sono stati 110. "Ma, ed è qui il problema delle guerre moderne, in primis quella contro il terrorismo, la maggior parte di essi non sono morti in zone di guerra". Questo perché - ha spiegato De Bortoli - "ormai le guerre non hanno più una frontiera chiara, non c'è quella linea di sicurezza che delimita la zona sicura da quella ad alto rischio". L'Occidente però, con i suoi giornalisti, è riuscito a mostrare un volto diverso dalla pura potenza economica e militare: i giornalisti sul campo hanno portato anche valori fondamentali, sono "testimoni di pace e civiltà" e hanno dimostrato di saper essere critici anche verso i loro stessi Paesi.
Ciononostante l'informazione ha commesso - e commette ancora - degli errori. L'opinione di de Bortoli è chiara: "i mass media hanno contribuito alla narrazione dello Stato Islamico, sdoganando l'idea stessa che uno Stato terrorista possa esistere". Non ci si è poi interrogati abbastanza sui processi che "hanno permesso all'Isis di reclutare ampie fasce di popolazioni che non di rado hanno una storia laica alle spalle: è il caso di molti ex militari baathisti dell'esercito di Saddam Hussein".
Marcello Foa ha sottolineato un altro problema da non sottovalutare: i media spesso si interessano al terrorismo solo attraverso ondate emozionali, dettate dall'ineludibile legge dell'audience. "Ogni giornalista dovrebbe conoscere le tecniche di manipolazione dei media, sempre più frequentemente padroneggiate dai terroristi e l'Isis ne un esempio lampante. Questo per evitare di rimanere ancorati ad un livello di analisi superficiale, fenomeno purtroppo tipico negli organi d'informazione più importante".
Riflessioni che hanno fatto sorgere spontaneamente la domanda di Fabio Pontiggia ai colleghi: "Vi sentite vittime di questo inquinamento delle informazioni?". Al che Gabanelli "ha difeso" la categoria dei giornalisti, sottolineando come anche i cittadini abbiano una responsabilità nel disinteresse che spesso avvolge chi legge le notizie. "Basti pensare che giornalisti d'inchiesta italiani, da Riccardo Iacona (Presa Diretta) a Corrado Formigli (Piazza Pulita) con reportage rigorosi si attestano a percentuali di audience bassissime". Citando l'esempio degli oltre cento studenti cristiani uccisi in Kenya, Gabanelli ha spiegato che "l'interesse dell'informazione è proporzionale al numero dei morti e alla vicinanza degli attentati". Sulla stessa linea di pensiero anche de Bortoli: "Il paradosso della Rete è che siamo tutti cittadini del mondo ma reagiamo solo se la minaccia è vicina, altrimenti siamo solo spettatori disinteressati".
"Come evitare di farsi influenzare - ha ripreso Pontiggia - è una delle cose più importanti da comprendere". Osservazione che ha generato molteplici risposte: per de Bortoli "il giornalismo d'inchiesta deve imporre dei temi", temi che il flusso mediatico non tratta con la dovuta attenzione. A stretto giro, Foa ha condannato "il pensiero unico", citando il caso dell'uso dei gas tossici da parte di Assad. Il fatto, dato per certo da quasi tutta la stampa internazionale, si è rivelato non solo falso, ma anche una manipolazione dei ribelli per spingere gli Stati Uniti ad intervenire contro Assad. "Quando una verità prende piede sulla stampa e sul web - ha spiegato Foa - sradicarla dalle convinzioni dell'opinione pubblica è impresa difficile: anche se qualcuno lavora bene, si trova in solitudine, una mosca bianca nella marea di notizie che affermano tutte la stessa cosa".
Il giornalista deve dunque cercare di rendere interessanti argomenti, sottoponendo alla società ed ai suoi governanti nuove questioni. L'esempio fatto dalla Gabanelli, approfondito dalla stessa giornalista anche nella sua trasmissione, tocca il Ticino: il burqa ed i problemi di sicurezza ad esso legati.
Infatti pare sarà proprio questo uno dei temi dominanti dei prossimi anni: l'equilibrio tra due concetti che rischiano di essere in antitesi, la libertà e la sicurezza. Il caso di Apple - citato alla fine dalla Gabanelli - è emblematico: se la richiesta dell'FBI di tracciare il telefonino del terrorista di San Bernardino dovesse minare la sicurezza di tutti i dispositivi, è giusto che il colosso di Cupertino ceda? "È fondamentale - hanno concordato de Bortoli e Foa rispondendole - non sacrificare in modo eccessivo quei valori di libertà che caratterizzano la nostra società".