L'intervista

Con il «pandino» fino in Mongolia: «Le nostre valli nel cuore mentre Gori ci porta lontano»

Abbiamo parlato con il mesolcinese Emian Furger e il capriaschese Diego Walder che, un po' per sfida un po' per beneficenza, stanno affrontando il Mongol Rally su una vecchia Fiat che si chiama come il protagonista di un romanzo di Plinio Martini
Furger sul cofano, Walder sul tetto.
Estelle Vezzoli
02.08.2025 06:00

Un po’ per sfida, un po’ per beneficenza, il mesolcinese Emian Furger e il capriaschese Diego Walder stanno affrontando a bordo di una vecchia Fiat il Mongol Rally. Da Tbilisi, in Georgia, ci hanno raccontato come sta andando.

Da dove nasce l’idea di intraprendere un’avventura così atipica?
«Quando ancora studiavo a Zurigo - dice Furger - parlo di oltre dieci anni fa, un collega che aveva partecipato al rally me ne ha parlato a lungo. Da lì l’idea di partecipare mi è rimasta in testa, e l’ho messa come sogno nel cassetto. Qualche anno fa, seduti al bar Alpino a Tesserete, ho proposto quest’avventura a Diego. Ne abbiamo poi riparlato alle feste di Redde dell’anno scorso e il giorno dopo eravamo iscritti».

Come si svolge esattamente il Mongol Rally?
«Il rally c’è da una ventina d’anni: questa edizione è la seconda dopo qualche anno di stop a causa della pandemia. Si parte da Bratronice, un piccolo paesino vicino a Praga, e lo scopo è quello di arrivare in Mongolia. Per questioni di visti e permessi negli ultimi due anni hanno anticipato l’arrivo in Kazakistan, nella cittadina di Öskemen. L’auto con cui si viaggia può avere al massimo 1.3L di cilindrata e, in linea di principio, deve essere il meno adeguata possibile per arrivare fino alla meta. Bisogna poi fare una piccola raccolta fondi: c’è una quota minima da donare all’ente benefico ufficiale del rally, “Cool Earth”, che si occupa di rimboschimenti nella fascia tropicale; i fondi poi possono essere raccolti autonomamente e donati a un ente di propria scelta. Per quanto riguarda tutto il resto si è in completa autonomia: il percorso può essere scelto come si preferisce, si può optare per una via più diretta o abbandonarsi a un percorso zigzagante. Si hanno unicamente punto di partenza e di arrivo, il giorno di partenza e il giorno limite d’arrivo. Non è importante chi arriva prima, non è una gara, di solito il primo che arriva viene preso in giro: l’idea è di godersi il viaggio, vedere cose, fare esperienze, risolvere problemi. E crearne».

Avete già provato a creare problemi?
«Abbiamo provato a guidare su un lago salato, in Turchia. In questo periodo è asciutto: si forma una crosta di sale che è connessa alla riva da una zona paludosa: abbiamo provato a fare qualche manovra sperimentale e si è forato uno pneumatico: per qualche giorno ci siamo dovuti arrangiare come potevamo, finché finalmente abbiamo incontrato una stazione di servizio dove abbiamo potuto riparare al meglio il danno».

A proposito, con che auto state viaggiando?
«L’auto è una Fiat Panda 4x4 di vent’anni fa, arricchita dalle firme di tutti i nostri amici, a cui si aggiungono via via quelle delle persone che incontriamo lungo la strada. Si chiama Gori, come il protagonista del romanzo di Plinio Martini, Il fondo del sacco, che è anche il nome del nostro equipaggio. È proprio per questa ragione che abbiamo scelto di donare il piccolo ricavato della nostra raccolta fondi al comune di Cevio, che con la Fondazione valle Bavona è promotore del progetto di “ricucitura” paesaggistica della valle. Valle da cui, peraltro, abbiamo simbolicamente iniziato il nostro viaggio alla volta di Praga, dove, per il 13 luglio, era fissata la partenza ufficiale».

Come mai questo attaccamento al libro di Martini?
«Il fondo del sacco è un libro fantastico, legato all’emigrazione, al partire, all’andare via. La storia è imbevuta di nostalgia e di amore per il territorio, parla della Svizzera italiana, cioè della regione in cui siamo nati e cresciuti e a cui ci sentiamo legati. Il protagonista, infatti, se ne va in America, dove pur trovandosi materialmente bene, prova comunque nostalgia di casa, del suo territorio: cosa che probabilmente, prima della fine di questo viaggio, proveremo un po’ anche noi. Una ‘running gag’ che abbiamo è che, quando si vede qualcosa che vagamente ricorda casa si dice: “Ah, par da vess in Valcola”. E tutti i giorni salta fuori qualcosa che ricorda casa. Quando si dice “tutto il mondo è paese”, “il mondo è piccolo”, in fondo si tocca una certa verità: anche se guardandoci intorno, ora, qualche volta sembra davvero di essere su un altro pianeta, ci sono sempre cose che accomunano i paesaggi e richiamano casa».

Come avete gestito la raccolta fondi?
«Per rimanere in tema terra e territorio, ci siamo rivolti a un nostro amico viticoltore, Giacomo Foletti, che da qualche anno vinifica anche una parte dell’uva che produce. Gli abbiamo chiesto se fosse possibile realizzare un’edizione speciale del suo vino, etichettandola a tema Fondo del sacco-Mongol Rally (della grafica si è occupato Konrad Walder) e quelle bottiglie – si tratta di un centinaio di esemplari – le abbiamo vendute, destinando il ricavato a questa raccolta fondi. Con stupore, senza alcuna pubblicità, sono sparite in un attimo: col senno di poi avremmo potuto anche raddoppiarne il numero!».

Cosa farete se riuscirete a giungere a destinazione?
«Non ci sono dubbi: stapperemo una bottiglia del nostro vino nostrano e lo berremo in piazza a Öskemen, pensando a casa. Forse, come Gori, con un po’ di nostalgia, ma ricchi di nuovi luoghi ed esperienze».

Al centro della sfida c'è l'imprevisto

«Crediamo che il mondo sia diventato troppo sicuro e organizzato, che viviamo in cerchi sempre più ristretti di libertà. La paura delle cause legali, l’avidità e il rifiuto codardo di prenderci responsabilità ci hanno privato di una delle cose più interessanti della vita: l’imprevisto. La via non tracciata si ribella a tutto ciò. Ti costringe a perderti, a non sapere cosa ci sia dietro l’angolo, ad abbracciare l’ignoto». Queste sono le parole con cui i The adventurists, i fondatori del Mongol Rally, presentano questa corsa fuori strada che, nell’arco di un mese, porta i partecipanti a esplorare le vie più accidentate e inaspettate che da Praga portano alla Mongolia. Nato come scherzosa sfida personale dei due fondatori, il rally è ora una delle corse off-road a sfondo benefico più conosciute al mondo e conta a ogni edizione centinaia di iscritti.