Contro la crisi dei saperi disciplinari: «Sono strumenti per capire il mondo»
«Vogliamo ragionare sulla scuola oltre le scadenze dei mandati e le riforme politiche, approvate o bocciate». A parlare è Virginio Pedroni, già docente di filosofia e presidente dell’associazione «Essere a scuola». Domani, all’auditorio dell’USI di Lugano, Pedroni aprirà il convegno «La scuola, tra conoscenza, persona e lavoro». «Siamo convinti che la scuola sia un campo di tensioni molto forti tra esigenze contrastanti». Quelle, appunto, tra conoscenza, persona e lavoro. Quasi a suggerire un conflitto interno, una lotta silenziosa per la preminenza di un’esigenza sull’altra.
Due prospettive
Basterebbe, forse, riassumere le due citazioni che compaiono nella locandina del convegno per capire meglio di cosa parliamo. «Se qualcuno dovesse chiedermi che cosa si dovrebbe imparare al liceo, risponderei: prima di tutto solo cose inutili; greco antico, latino, matematica pura e filosofia. Il bello è che così, all’età di 18 anni, si ha un bagaglio di sapere inutile con cui si può fare tutto. Mentre col sapere utile si possono fare solo piccole cose». Accanto alla citazione della filosofa Agnes Heller, seguono - in contrapposizione - le Raccomandazioni del Consiglio dell’Unione europea: «La scuola deve fornire un corredo di abilità e competenze per mantenere il tenore di vita attuale, e sostenere alti tassi di occupazione e promuovere la coesione sociale». Ecco le due esigenze contrapposte, le tensioni interne alla scuola, di cui parla Pedroni. Da una parte una scuola orientata alla conoscenza e alla trasmissione del sapere necessario per capire il mondo; dall’altra una scuola orientata all’impiegabilità dell’individuo.
Ricette per l’uso
Pedroni sa esattamente che non esistono ricette pronte per l’uso. «Non vogliamo dettare una linea, né tanto meno abbiamo la verità in tasca da recitare. Vogliamo riflettere e confrontarci oltre gli steccati partitici». Eppure, la dimensione politica in questa riflessione è ben presente. «Sì, certamente, politica e culturale», ribatte Pedroni che cita Hannah Arendt: «La scuola rappresenta il mondo di fronte alle nuove generazioni. Ossia deve assumersi la responsabilità di spiegare il mondo alle nuove generazioni». Spiegare il mondo. Come? «Con la conoscenza e il sapere». Ecco il punto. Il punto da cui partire. O ripartire.
La tradizione
«La scuola è sempre stata riconosciuta come luogo di trasmissione dei saperi. Da una generazione all’altra». Oggi, invece, la conoscenza intesa come sapere viene messa in discussione, osserva Pedroni: «Non solo perché le conoscenze si sono moltiplicate. Ma anche perché non esiste più un canone chiaro e riconosciuto di cosa sia importante insegnare e di cosa non lo sia». Il lavoro di trasmissione diventa quindi più complicato, ma non per questo meno importante. «Per noi è un punto fermo, fondamentale». Il sapere è necessario per capire il mondo, approvarlo o criticarlo. «Per farlo, però, servono gli strumenti». Si capirà meglio, allora, la questione di fondo: se la scuola non trasmette saperi ma pone come esigenza primaria «l’occupabilità», forse, l’istituto scolastico sta venendo meno al proprio mandato. «Il ruolo formativo mediato dal sapere deve restare prioritario, rivolto a uno studente che è una persona con ragione e sentimenti, non un aggregato di competenze pronte per l’uso».
Dalla teoria alla pratica
Fin qui la teoria, patinata - apparentemente - di retorica. Ma nella pratica come si manifesta questa tensione tra indirizzi diversi? «Negli ultimi anni, in Ticino, è stata posta una grande attenzione alla ridefinizione dei piani di studio della scuola dell’obbligo», commenta Gianluca D’Ettorre, docente e presidente di OCST docenti. «Al contempo, a livello federale, si stanno rivedendo i piani di studio della formazione professionale e liceale». Punto comune, la centralità del concetto di competenza e di attitudine mentale. «Si sono introdotte nei piani di studio le cosiddette competenze trasversali o soft skills». Come, per esempio, il saper comunicare o il saper collaborare. «La nostra impressione è che ci troviamo di fronte a competenze che, per quanto rilevanti, con l’articolazione interna dei saperi hanno poco a che fare», chiosa Pedroni. Un vero e proprio cambio di paradigma rispetto al sistema precedente, incentrato sul primato dei contenuti, ossia del sapere e della conoscenza. «In questa nuova prospettiva, i contenuti e i saperi disciplinari hanno un ruolo secondario, ovvero vengono scelti per l’acquisizione delle competenze», spiega D’Ettorre. E qui arriviamo al nodo della discussione: «In Europa si sta discutendo dell’indebolimento dei saperi disciplinari, che sono le chiavi di lettura del mondo, a vantaggio di un paradigma formativo orientato al raggiungimento di alcuni obiettivi politici». Vedi le Raccomandazioni dell’UE. «Il nostro timore è che la formazione diventi una con-formazione. A detrimento di alcuni contenuti. Quelli che consentono agli allievi di scegliere liberamente, con scienza e coscienza». Non meno perentorio, Pedroni: «Il rischio è che prevalga una dimensione funzionale della scuola, che dia all’allievo le competenze per muoversi nel mondo, adattandosi, ma senza tuttavia avere gli strumenti per pensarlo diversamente».
Contenuti sacrificati?
Ancora una volta, purtroppo, siamo finiti nella teoria. Incalziamo allora i nostri interlocutori con una domanda precisa: dove si consuma questo sottile slittamento verso il primato delle competenze? E quali sono i contenuti sacrificati? Ancora D’Ettorre: «Nei piani di studio molto raramente il contenuto viene indicato come imprescindibile. In genere viene indicato un ambito all’interno del quale il docente ha facoltà di scegliere i contenuti, purché raggiunga, come obiettivo, l’apprendimento da parte degli allievi delle competenze indicate». Da una parte, viene quindi a mancare un canone univoco di riferimento, dall’altra obbliga il docente a fare delle scelte tra i contenuti. Chi vive il mondo della scuola - in filigrana - vi scorge un impoverimento tanto problematico quanto pericoloso. «Nella scuola dell’obbligo ticinese questa riforma è iniziata nel 2015. Ma è nella formazione professionale che appare in tutta la sua evidenza. Nel settore del commercio e della vendita, la formazione non prevede più l’insegnamento di materie come l’economia, la contabilità o altro. Ci sono invece competenze fondate sulle situazioni lavorative concrete». Altro esempio. «Nei piani di studio post-obbligatori, sempre più spesso viene chiesto di formare gli studenti al principio della sostenibilità, etica, sociale, economica o ecologica, a dipendenza della materia. Quindi, di riorganizzare la disciplina in funzione di questo principio politicamente condiviso». È chiaro, conclude D’Ettorre: «Ogni manovra di questo genere ha un prezzo: vuole dire escludere qualcos’altro. E poi ancora: che cos’è la sostenibilità? Chi l’ha mai studiata accademicamente? Come la si insegna? Come si producono materiali didattici di questo tipo?». Il cortocircuito è dietro l’angolo. «Va detto che il Cantone non ha grandi margini di manovra. Da HarmoS in poi, questi piani vengono concordati a livello di Conferenza svizzera dei direttori della pubblica educazione (CDPE), se non a livello di SEFRI, la Segreteria di Stato per la formazione», conclude D’Ettorre.