Da duecento anni Napoleone «fu» ma la Svizzera e il Ticino rimasero

Ei fu, recita l’incipit della celebre ode di Alessandro Manzoni dedicata al trapasso di Napoleone Bonaparte.
Duecent’anni fa, il 5 maggio 1821, l’ex imperatore dei francesi si spegneva, prigioniero degli odiatissimi britanni, a Sant’Elena: un’isola sperduta, sotto il sole equatoriale, scoglio solitario in fondo all’Atlantico. Nemesi crudele e atroce, per un despota, avido di gloria e di potere, cui il fato regalò l’effimera illusione di reggere in pugno i destini della Storia.
Se si considera che Bonaparte concluse la sua vita terrena a nemmeno 52 anni, dopo aver abdicato a 45, rimane il fatto che la sua parabola fu folgorante, in senso letterale: così rapida, e violenta, da restarne lui stesso fulminato.
Poco più che quarantenne, aveva instaurato una mostruosa egemonia in Europa, giunta al suo apogeo nel 1810. L’Impero francese si estendeva per 130 dipartimenti, e attorno ad esso gravitava una costellazione di Stati satelliti, dal Regno italico alla Spagna, dalla Svizzera alla Confederazione del Reno, la prima forma di restaurata unità germanica dell’età contemporanea. Dittatore guerrafondaio, oppure abile stratega militare e, financo, ispiratore della coscienza dei diritti sopiti dei popoli e degli individui?
In fondo, entrambe le cose, e non certo per amor di cerchiobottismo: in Napoleone si ritrovano le contraddizioni più acute della rivoluzione dei lumi, che fu suscitatrice di immani speranze poi tradite e affogate in un mare di sangue.
Il meno francese - per i suoi natali còrsi - dei grandi personaggi che hanno regnato a Parigi, comunque la si pensi, resta un gigantesco protagonista storico.
Figlio della rivoluzione
Esecutore testamentario della rivoluzione del 1789, ne esportò i principi per larga parte del Continente, dopo che essi furono depurati delle sterili e fanatiche paranoie in voga dopo il deragliamento della rivoluzione stessa trasformatasi in Terrore giacobino. L’eredità del razionalismo amministrativo napoleonico, dilagato in Europa attraverso guerre di conquista, resiste ancora oggi in taluni capisaldi dello Stato di diritto di impronta borghese, fondato su principi di rigorosa laicità dei pubblici poteri, e sull’uguaglianza civile di tutti i cittadini. Liquidati i retaggi feudali dell’ancien régime, l’ondata napoleonica sommerse e travolse le monarchie reazionarie, e le anticaglie, compreso l’assetto tradizionale della Confederazione elvetica di tredici Stati, guidata da un governo aristocratico bernese: un regime, de facto, sotto il quale due Paesi « alleati » e quattro regioni «soggette» pativano la condizione di figliastri.
Sotto l’egida e sul modello del Codice napoleonico, che segnava la supremazia del potere civile su quello religioso, riconosceva l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, e stabiliva la tolleranza di tutte le fedi, nonché il primato della libera coscienza, uno spirito riformatore innervò le nazioni ove le armate francesi infissero le loro baionette.
Armi grondanti sangue, al servizio, sì, di un’idea universale, ma asservite ai disegni di potenza di una Francia solcata e attraversata da uno dei ricorrenti assalti della sua vocazione imperiale.
Bonaparte perse il lume della ragione, quando pretese di domare l’implacabile Russia, inseguendo l’altrettanto folle disegno di piegare l’Inghilterra, recidendone i tentacoli di potenza insulare regina dei mari e flagellante forza colonizzatrice.
L’Atto di Mediazione
Con la Confederazione elvetica, Napoleone, invece, infame non fu. Se è pur vero che, nel 1798, ne invase i territori, trasformando poi la Svizzera in teatro di scontro bellico, d’altra parte, l’ingerenza francese costituì un fattore di rinnovamento, sul piano delle istituzioni politiche e della disciplina delle pubbliche funzioni.
Il condottiero còrso non fu secondo ai monarchi francesi del vecchio regime, nello smembrare, per necessità militari e di controllo strategico, il territorio elvetico, annettendosi cantoni. E, nella sua condotta verso i reggitori della piccola nazione, non si sottrasse alla sua intima cifra contraddittoria, che lo induceva ad essere duttile fino al relativismo, nella scelta delle formule dell’architettura costituzionale.
Se, infatti, dapprima, impose la Repubblica Elvetica, unitaria e centralistica, successivamente, con l’Atto di Mediazione, entrato in vigore il 15 aprile 1803, riconobbe l’ineliminabile natura federalistica del patto politico che da secoli univa gli svizzeri. L’Atto di Mediazione diede alla luce, tra l’altro, il Canton Ticino, affrancando il vecchio baliaggio dai vincoli di sottomissione ai tredici staterelli, guidati da Berna, che esercitavano un primato su alleati e popolazioni soggette.
Come scrive Guido Calgari, nella Storia della Svizzera (tomo I), la prima legge importante, votata dal neocostituito Gran Consiglio riunito a Bellinzona, «stabilì l’obbligo dell’apertura di scuole, pubbliche e gratuite, in ogni Comune; commovente, si vuol dire, quella fiducia nella forza dell’istruzione popolare, anche tenendo conto dell’apporto delle dottrine illuministiche che in diversi ambienti del Ticino avevano contribuito al risveglio della coscienza civile».
Sebbene, nell’età della Restaurazione - seguita al Congresso di Vienna che riportò sul trono i sovrani legittimi, la Confederazione rinunciasse a una parte dei retaggi bonapartisti, ristabilendo i governi aristocratici e conservatori, le idee della rivoluzione, «trapiantate» da Napoleone, sul suolo svizzero, col ferro e col fuoco, risorsero.
I confederati di tendenza liberale lottarono perché il concetto dell’eguaglianza tra gli uomini, la distruzione dei pregiudizi di casta, il diritto a una costituzione che indichi le fondamentali libertà del cittadino e i doveri del governanti, avessero a trionfare definitivamente.
Singolare memoria
Una singolare memoria dell’epopea napoleonica resiste, in Ticino, con le celebrazioni che, nei mesi estivi, si svolgono, in val di Blenio, a ricordo dei seimila soldati svizzeri che sacrificarono le loro vite nel momento più drammatico della campagna di Russia, terminata in disfatta. Il 27 novembre 1812, a Mosca, i resti delle armate dovettero passare il fiume Beresina. I soldati elvetici - e tra loro anche molti ticinesi -, parteciparono alla costruzione di due ponti per permettere di attraversare il tumultuoso corso d’acqua.
La maggior parte di loro morì, e, tra i sopravvissuti, i bleniesi fecero un voto: ritornando ai loro villaggi, in segno di ringraziamento, avrebbero portato la Madonna in processione vestiti con le loro uniformi napoleoniche. Dopo oltre due secoli, di anno in anno, la tradizione – memento: dunque, ammonimento rivive in tre paesi della valle: Aquila, Leontica e Ponto Valentino.
Le feste mariane sono infatti caratterizzate dalla presenza della milizia storica (ufficiali, alfieri, tamburini, fucilieri in costumi dell’esercito di Bonaparte) che partecipa alle funzioni religiose e si esibisce in sfilate. Una prova storica significativa del fatto che il «duce » corso ha lasciato un’indelebile traccia di sé, non solo nella Storia, con la maiuscola, ma anche nel vissuto e nella memoria popolare delle generazioni che sono seguite.
«Fu vera gloria [la sua, n.d.r.]? Ai posteri l’ardua sentenza». Manzoni, pur celebrando il carisma di Napoleone, quasi a immagine della potenza divina, immaginò, e sperò, con la sua pietas cristiana, che lo spirito consolatore giungesse ad accompagnarne, nella rude e spoglia Sant’Elena, il lungo ed erto cammino verso i lidi eterni.