Da Morcote al Messico sfidando (anche) l'uragano Milton: «Che gioia ridare la vista a questi pazienti»

Poco più di un anno fa, nell’aprile del 2023, un incendio si era portato via circa 400 mila franchi di strumentazione. Ora, a minacciare l’operato dei medici è stato nientepopodimeno che Milton, passato con tutta la sua furia distruttiva anche da Cancun, in Messico. Theo Signer, però, sorride. Specialista FMH in oftalmologia, primario e direttore medico del Centro Avanti, nonché primario del Gruppo Vista, ha raggiunto la rinomata località turistica dello Stato di Quintana Roo dalla sua Morcote. Con lui, altri medici oftalmologi parte dell’associazione Swiss Foundation Against Blindness in Mexico che, fino al 19 ottobre, opereranno agli occhi su base volontaria oltre 500 pazienti.
Dottor
Signer, lei e i suoi colleghi siete partiti lo scorso 5 ottobre. Pochi giorni
fa, tuttavia, siete stati investiti pure voi dall’uragano Milton. Che esperienza
è stata e, soprattutto, come state?
«Bene, nonostante
tutto. Fino a lunedì 7, direi, tutto si è svolto normalmente. Certo, viste le
condizioni meteo quel giorno erano arrivati meno pazienti in ospedale. E questo
perché non potevano proprio raggiungerci. Martedì, invece, complici le
direttive delle autorità messicane eravamo letteralmente barricati. Tutti. Era
vietato perfino uscire di casa. Passato l’uragano, giovedì abbiamo ripreso con
le operazioni. Ritrovandoci, va da sé, un numero maggiore di pazienti vista la
chiusura forzata. Oltre un terzo rispetto a quelli preventivati per una singola
giornata».
La vostra
attività, quindi, ne ha risentito?
«No, non direi. È
vero che i pazienti si sono accumulati. Ma stiamo vivendo questo surplus molto
serenamente. Anche perché c’è una bellissima collaborazione fra la nostra
squadra e lo staff locale. Detto in altri termini, riusciamo a svolgere il
nostro lavoro senza problemi. E come previsto».
L’uragano,
quindi, nel vostro caso ha fatto meno danni rispetto all’incendio del 2023.
«È arrivato e se n’è
andato. In un istante, quasi. Certo, l’ospedale ha sofferto: la struttura
mostra i segni del passaggio di Milton, ci sono alberi spezzati un po’ ovunque.
Ma, nell’angolo a noi riservato, funziona tutto. Abbiamo acqua, corrente,
strumentazione».


Detto della
forte richiesta e dei tanti, tantissimi pazienti che si rivolgono a voi, quanto
è importante la vostra presenza in questo angolo di Messico?
«Lo è, in effetti,
basti pensare al fatto che il nostro arrivo è stato parecchio mediatizzato in
Messico. La governatrice statale e la direttrice del Dipartimento della sanità
sono venute a trovarci. Abbiamo pure ricevuto un invito istituzionale per una
cena. Il nostro lavoro, però, è apprezzato anche dai pazienti stessi».
Di quali
disturbi alla vista soffrono, principalmente, le persone che operate?
«Di cataratte che,
alle nostre latitudini, in Ticino, sono estremamente rare. Le troviamo, magari,
in alcune valli. Cataratte dovute, principalmente, alla forte esposizione alla
luce solare. Ci accorgiamo di quanto soffrano queste persone proprio mentre
operiamo: inizialmente, siamo portati a pensare che si tratti di un intervento
di routine, ma poi ci accorgiamo di quanto sia importante la perdita di
trasparenza del cristallino. Parliamo, d’altro canto, di pazienti ipovedenti. E
in generale di situazioni e malattie, appunto, inimmaginabili in Svizzera».
Facciamo un
passo indietro: quanto è stato difficile risollevarsi dopo l’incendio del 2023
e, soprattutto, trovare nuova strumentazione?
«Ogni membro dell’associazione
Swiss Foundation Against Blindness in Mexico ha dato il suo contributo, in
questo senso. Grazie ai nostri lavori, in Svizzera, e ai buoni contatti siamo
riusciti a ricevere parecchio materiale. Ma, dicevo, ognuno di noi ha fatto del
suo meglio e, così facendo, siamo riusciti a recuperare un sacco di
strumentazione».


Tradotto: ci
avete rimesso di tasca vostra…
«Era importante
ripartire al più presto, dopo l’incendio. È vero, però, che abbiamo dovuto
noleggiare i microscopi, ad esempio, a prezzi decisamente alti per una fondazione
come la nostra. Il prossimo 21 novembre, proprio pensando all’incendio, abbiamo
organizzato una serata benefica al Docks di Lugano. Lo scopo è raccogliere
donazioni. Il bello della Swiss Foundation Against Blindness in Mexico è che
non ci sono spese amministrative. Chi partecipa alle spedizioni in Messico, per
dire, lo fa prendendosi un periodo di vacanza dal lavoro. Siamo, in sostanza,
una fondazione piccola. Il che significa, banalmente, che ogni franco versato
finisce al paziente».
Riuscite, al
di là dei tantissimi interventi, a fare anche prevenzione?
«Sì, ne facciamo.
Spiegando di indossare degli occhiali protettivi. Ma la luce solare, qui, è un
problema. Queste persone sono esposte da mattina a sera ai raggi UV. È un altro
mondo rispetto all’Europa. Detto ciò, abbiamo notato altresì un problema di
nutrizione. Il tasso di pazienti con diabete è importante. E il diabete, beh,
favorisce malattie come la cataratta. È vero che i messicani spesso vivono con
poco, ma consumano una grande quantità di bevande zuccherate. È pieno,
pienissimo di chioschi con questi bottiglioni da due litri. Una cosa esagerata».
Che rapporto
si instaura fra voi e i pazienti? Che effetto fa ridare la vista a così tante
persone?
«È qualcosa di
bellissimo. Ma è qualcosa che difficilmente si può spiegare a parole. Durante l’intervento,
i pazienti sono tesissimi. Hanno la pressione arteriosa molto alta, proprio per
via di questa tensione. Poi, quando magari mettiamo su un po’ di musica
messicana, musica che piace anche a noi perché mette allegria e allevia lo
stress quotidiano, ecco che cambiano espressione in viso. È un mondo quasi
surreale, quello messicano. La cosa più bella, in ogni caso, sono le lacrime di
gioia, sia dei pazienti sia dei loro famigliari, all’indomani dell’operazione,
durante le tradizionali visite post-operatorie».


Lacrime più
che comprensibili e condivisibili…
«Sì, perché parliamo
di persone che, negli ultimi tre, quattro o cinque anni, non vedevano nulla.
Ripeto: nulla. Persone che, da un giorno all’altro, riacquistano la vista grazie
al nostro intervento. E che, quindi, possono tornare ad avere un futuro e a non
dipendere necessariamente dai famigliari».
Un’ultima
domanda: ha citato l’evento benefico di novembre, come giudicherebbe la
sensibilità del Ticino e dei ticinesi rispetto alla vostra missione in Messico?
«Il Ticino è un
cantone davvero aperto e solidale. Un cantone che risponde sempre presente. E a
cui piace, come dicevo, il fatto che siamo noi ad andare in prima persona sul
posto a operare. Offrendo un servizio importante per 5-600 pazienti».