Da Origlio alla Biennale di Venezia

LUGANO - Biennale. Basta questa parola per vedere gli occhi di chi lavora in campo artistico illuminarsi. Per la maggior parte di loro l’Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia è un sogno e lo è ancora di più se non hai ancora compiuto 26 anni e stai muovendo i primi passi nel mondo dell’architettura. È il caso di Tiziano Schürch, giovane architetto di Origlio che fa parte del team vincitore del concorso per l’allestimento del padiglione catalano negli eventi collaterali della Biennale. Il progetto - che ha sbaragliato gli altri 25 concorrenti - è curato dall’architetto e professore all’università di Barcellona Pedro Azara e s’intitola Perdere la testa. (Idoli). Tratta il tema dell’iconoclastia (la distruzione di immagini sacre) e dell’iconolatria (la venerazione idolatrica di immagini o simboli) nel mondo contemporaneo attraverso l’esposizione di una serie di sculture attaccate, vandalizzate, mutilate, macchiate e che per questo sono state relegate nei magazzini municipali del capoluogo catalano (come si vede nelle foto). Attraverso l’odio e rispettivamente l’adorazione, s’indaga il rapporto tra l’essere umano e le immagini. Un tema più che mai attuale anche nel Luganese e in tutto il Ticino: solo pochi giorni fa una statua della Madonna è stata attaccata a Brè, portando così a quota 9 gli episodi avvenuti nell’ultimo anno che vedono protagoniste effigi sacre danneggiate o rubate.

Se per Schürch questa non è la prima esperienza come architetto di mostre, - si è occupato dell’allestimento per l’Istituto Valenciano d’Arte Moderno (IVAM) e sta lavorando ad un progetto previsto al Museo Picasso - questa è la sua prima volta alla Biennale. «Per me è un sogno, - racconta quando lo incontriamo a Lugano poche ore prima di partire per la città sull’acqua - so che sembra una frase fatta, ma è davvero così. Sono fortunato perché dopo gli studi ho avuto subito la possibilità di fare ciò che mi piace». Infatti, grazie a un Erasmus a Barcellona, nel 2016 Schürch ha iniziato a collaborare con Pedro Azara, professore di teoria dell’architettura e dell’arte. A metà 2018, dopo la laurea al Politecnico di Zurigo, è tornato a Barcellona per lavorare con lui e dare lezioni all’università. Insieme all’emozione per la mostra che sarà visibile al pubblico a breve (la 58.esima edizione dell’Esposizione apre l’11 maggio e va avanti fino al 24 novembre) c’è anche un po’ di tensione. «Un conto è disegnare e progettare uno spazio, - racconta - realizzarlo in scala uno a uno è tutta un’altra cosa».

Una relazione fisica con l’arte
Ma come s’inserisce in un’esposizione di statue colpite da iconoclastia o iconolatria il lavoro dell’architetto? «Attraverso l’architettura si può prendere posizione nei confronti dell’arte, - spiega Schürch - l’allestimento comporta un intervento architettonico nella facciata del padiglione, un deposito di gondole che viene svuotato per l’occasione, e un intervento all’interno. L’esterno viene occultato con una tela che riflette la luce e così, nascondendo l’edificio, verrà reso visibile. All’interno, invece, si vuole evitare di creare una relazione distaccata tra opera e spettatore che, anzi, per vedere le statue è costretto ad avvicinarsi molto e in maniera scomoda, entrando in una relazione quasi fisica con le opere». L’architettura quindi viene considerata non come un lavoro neutrale, ma come qualcosa che prende una posizione dirompente nei confronti delle opere.
«Anche perché solitamente si pensa che l’attacco nei confronti di sculture o immagini legate a una certa ideologia sia retaggio del passato oppure avvenga in Paesi lontani, - spiega - invece sono episodi che hanno luogo anche qui e oggi ed è su questo che vogliamo riflettere». Oltre a statue sacre (tra queste il baldacchino che ha sfilato per le strade di Tarragona in occasione della settimana santa) viene esposta anche un’opera commissionata in epoca franchista ma realizzata da un artista repubblicano. «Volevamo portare anche una scultura equestre di Franco che ne ha subite di tutti i colori, - racconta il nostro interlocutore - ma, dato che è stata aperta un’inchiesta per far luce sui danni che ha subito recentemente, non è possibile portarla fuori dai confini spagnoli».

«A Lugano manca vita»
Con Schürch parliamo anche di Lugano. «Ci torno poco - confessa - e se è vero che ha un offerta culturale incredibile, penso al LAC, al MASI, ad Estival, noto che ha perso un po’ la sua essenza di città. Quello di cui mi accorgo, dopo aver vissuto in una città come Barcellona, è che nel centro manca la vita più normale e quotidiana; quella creata da persone che non solamente lavorano o si recano in città per motivi di svago, ma da coloro che nel centro della città ci vivono. Una presenza vitale che non termina con gli orari d’ufficio, e che fa si che dietro le finestre delle facciate si intravedano luci accese anche dopo le 19. Una presenza che farebbe sì che gli edifici della città non siano unicamente involucri immacolati di uffici e negozi, bensì anche case in cui poter vivere». Quello del riportare la vita in città, fa notare, «è un tema architettonico».
«Tornare in Ticino? Sì, ma»
Quella del giovane professionista che sceglie di lavorare all’estero è una situazione comune a molti ticinesi. Ma vale la pena tornare, dopo esperienze del genere? «Sì - dice - anche se per quello che sto facendo ora servono istituzioni culturali che sono prerogativa di una grande città». A lungo termine, però, Schürch conta di far rientro in Ticino. «Sono molto legato al territorio in cui sono cresciuto e credo ci siano sfide interessanti, mi domando ad esempio come si potrà continuare a costruire in una regione che percepiamo come totalmente costruita? Oppure in che case vivranno i ticinesi quando lo spazio per poter costruire case unifamiliari sarà terminato?».
È ora di partire per Venezia, dove Schürch lavorerà all’allestimento del padiglione Catalano per circa due settimane. E poi? «Poi torno a Barcellona, c’è altro da fare».