Dagli USA è fuga di cervelli: il Ticino è pronto ad accoglierli?

Negli Stati Uniti è fuga di cervelli. Tre scienziati su quattro, fra quelli attivi nel Paese, stanno infatti pensando di portare avanti altrove il proprio lavoro: è quanto emerge da un sondaggio pubblicato dalla rivista Nature, che ha raccolto l'opinione di oltre 1.600 ricercatori. Il perché di questo (prospettato) esodo è presto detto: dal giorno del suo insediamento, l'amministrazione Trump – tramite il DOGE, iniziativa per l'"efficienza governativa" guidata dal miliardario Elon Musk – si è adoperata per tagliare il più possibile i fondi alla ricerca. Nel mese di febbraio, ad esempio, l'NIH, divisione del Dipartimento della Sanità che figura fra i maggiori finanziatori della ricerca medica al mondo, si è vista costretta ad annunciare una riduzione di 4 miliardi al proprio budget. Fra migliaia di scienziati licenziati e centinaia di studi interrotti, la scienza statunitense è nel caos. L'impatto di queste azioni potrebbe essere devastante: proprio negli scorsi giorni, due gruppi di ricercatori impegnati nella ricerca sull'HIV e in un promettente studio sulla immunoterapia per tumori gastrointestinali hanno fatto sapere che decenni di lavoro potrebbero andare persi per colpa dello stop. In un mondo iperconnesso, che effetto avrà tutto ciò sulla ricerca svizzera e ticinese? Abbiamo cercato di capirlo.
«Siamo già stati contattati»
«I tagli federali alla ricerca negli Stati Uniti sono preoccupanti», commenta la rettrice dell'Università della Svizzera italiana (USI) Luisa Lambertini. «Come università, crediamo che la ricerca debba poter essere effettuata liberamente in tutto il mondo». L'USI, ci spiega Lambertini, «sta effettuando un'analisi dei propri progetti» e, al momento, l'istituto «non sembra, fortunatamente, essere esposto in maniera diretta» alle conseguenze dei tagli impartiti dall'amministrazione Trump alla ricerca americana. «La chiusura di certi programmi di ricerca negli Stati Uniti, tuttavia, potrà sicuramente avere effetti indiretti anche sull'USI. Dovesse venire meno il network che collega i nostri ricercatori a quelli statunitensi, ci saranno impatti, nel lungo termine, sulla quantità e qualità degli studi».
La fuga di cervelli dagli Stati Uniti, tuttavia, può rappresentare anche un'occasione. «Le università svizzere e, più in generale, quelle europee sono un territorio ambito per i ricercatori americani che stanno riflettendo sul proprio futuro e considerando la possibilità di lasciare il proprio Paese. O per quelli europei che, sinora impegnati Oltreoceano, potrebbero valutare un ritorno. Sì, questa potrebbe anche essere un'opportunità per le università svizzere». Gli istituti elvetici sapranno approfittarne? «In altri Paesi, in Francia ad esempio, alcune università hanno già avviato appositi programmi per accogliere i ricercatori intenzionati a lasciare gli Stati Uniti». L'USI, spiega la rettrice, «non ha ancora intrapreso passi attivi. Abbiamo processi di nomina e ricerca di cattedre abbastanza flessibili e siamo già stati contattati da alcuni ricercatori che hanno manifestato il loro interesse a spostarsi in Svizzera. Ci stiamo muovendo nell'ambito di quello che sono le nostre modalità di assunzione, il nostro budget e le nostre possibilità». Lambertini invita tuttavia a un approccio comunitario, più che individuale. «Sarebbe utile, a livello svizzero ed europeo, sviluppare un progetto con risorse sufficienti ad accogliere questi ricercatori e mettere a loro disposizione le infrastrutture necessarie. Perché la loro ricerca sia efficace ed effettiva, c'è bisogno di un investimento iniziale».
E a proposito di risorse, che dire dei dazi imposti dall'amministrazione Trump a tutto il mondo? Che impatto possono avere sul settore accademico? «Non ci intaccano direttamente, ancora, ma è chiaro che un'eventuale risposta svizzera nei confronti di beni o servizi prodotti dall'America potrebbe rendere più costoso tutto ciò che le università devono acquistare per il funzionamento giornaliero delle proprie attività di formazione e ricerca».
Un'idea interessante
«La riduzione del bilancio federale statunitense per la ricerca e le incertezze che ne derivano sono preoccupanti per la scienza stessa, in quanto gli Stati Uniti sono una delle principali nazioni scientifiche in molti campi», commenta invece Beatrice Fasana, vicepresidente del Consiglio SUPSI e membro del Consiglio dei Politecnici Federali Svizzeri. «In Svizzera, alcuni progetti di ricerca internazionali che coinvolgono le nostre istituzioni potrebbero essere colpiti, in particolare in settori che richiedono grandi investimenti come la ricerca medica e le scienze della terra, del clima e dell’energia. Tuttavia, è troppo presto per valutare le conseguenze concrete sulle collaborazioni esistenti all'interno della SUPSI o dei due Politecnici federali». Questi istituti «hanno sempre esercitato un'attrattiva sui talenti internazionali», ci spiega Fasana. «Naturale», insomma, che «nel clima di incertezza che regna negli Stati Uniti, alcuni ricercatori prendano in considerazione alternative: e la Svizzera è un ambiente scientifico rinomato per la sua stabilità e qualità». Al momento, continua, «non sono state avviate iniziative mirate in questa direzione, ma restiamo aperti ad accogliere profili di alto livello, indipendentemente dalla loro provenienza».
Con Fasana torniamo sull'idea di un progetto comune, nazionale o europeo. «Questa idea sta suscitando un notevole interesse nel mondo accademico, soprattutto a fronte degli attacchi politici e ideologici alla scienza, che hanno avuto un effetto profondo su molti ricercatori. La mobilità scientifica è un fenomeno consolidato e, se inserita in una strategia coerente, può rappresentare un'opportunità per arricchire l'ecosistema della ricerca svizzera ed europea». Un’idea, quella di adottare una precisa strategia per attirare talenti scientifici, peraltro già lanciata in Consiglio nazionale dal deputato ticinese Alex Farinelli (PLR) con un’interpellanza nel mese di marzo.
«Non si tratta di approfittare di un contesto difficile altrove, ma piuttosto della possibilità di rafforzare l'attrattiva a lungo termine delle nostre istituzioni creando un contesto favorevole all'accoglienza e allo sviluppo delle competenze». Il nostro Paese, evidenzia Fasana, ha un compito importante: «La Svizzera ha il dovere di svolgere un ruolo attivo nella difesa di una scienza aperta e internazionale». Nel contesto di una ricerca sempre più interconnessa, conclude, «l'indebolimento dei bilanci e gli attacchi verbali negli Stati Uniti stanno danneggiando la scienza a livello globale. E alla fine è la società nel suo complesso a pagarne il prezzo. Prendiamo ad esempio la ricerca biomedica: meno ricerca americana significa anche meno soluzioni per sconfiggere certe malattie. Per le istituzioni svizzere, la chiave è rimanere aperte, reattive e impegnate in una strategia a lungo termine di eccellenza e collaborazione transfrontaliera».
Progetti a rischio
A Bellinzona, intanto, l'Istituto di ricerca in biomedicina (IRB) tiene la situazione sotto la lente. «Il sentimento di incertezza dei colleghi statunitensi di fronte a quanto sta succedendo è palpabile», ci spiega Davide Robbiani, capo del laboratorio di Immunologia e Malattie Infettive. Un'incertezza, questa, che tocca direttamente anche il centro sopracenerino. «È possibile che tagli a fondi di ricerca americani obblighino a ridurre o chiudere progetti tra i quali anche quelli collaborativi con IRB», rivela Robbiani. Di più: «IRB riceve inoltre direttamente fondi dall’ente americano di salute pubblica (NIH), per studi riguardanti la preparazione a nuove pandemie, la lotta contro la malaria e ricerche sui tumori. Per ora non è stata annunciata alcuna interruzione o sospensione di questi fondi, ma visto il clima attuale temiamo che la probabilità sia abbastanza alta».
Qualcuno, dunque, ha provato a sondare il terreno all'IRB: «Alcuni ricercatori attivi negli Stati Uniti, anche molto bravi, si sono fatti avanti per esplorare possibilità di trasferimento in Europa e chiedere consiglio. Per IRB, in questo momento, non sarebbe semplice reclutare, anche perché a Bellinzona gli spazi di laboratorio sono limitati. Il nuovo stabile di cui è promotore l’Istituto Oncologico di Ricerca (IOR) sarà pronto solo tra qualche anno».
Ma pur tenendo in conto un eventuale "travaso" di cervelli verso l'Europa, c'è poco di cui gioire. «Sì, la Svizzera potrebbe acquisire qualche ricercatore di alto profilo. Ma se dovesse perdurare, la situazione danneggerebbe soprattutto le giovani generazioni, che saranno meno motivate ad intraprendere la professione di ricercatore. E ci saranno danni strutturali importanti in certe aree che sembrano essere prese particolarmente di mira, come quella della sorveglianza alle malattie emergenti e lo sviluppo di nuovi vaccini», spiega Robbiani.
Ma non sono solo i tagli alla ricerca a preoccupare. Che cosa cambierebbe nel caso in cui la guerra dei dazi – per ora congelata – dovesse riaccendersi? «Istituti accademici come il nostro producono conoscenza, non beni commerciali: siamo quindi in una situazione diversa rispetto a ditte esportatrici», premette il direttore del laboratorio bellinzonese. «Tuttavia dipendiamo dagli Stati Uniti per numerosi reagenti scientifici e strumentazioni avanzate che operano nei nostri laboratori. Per alcune di esse esistono solo 1-2 produttori al mondo, quindi non possiamo semplicemente "rivolgerci altrove". Il rischio è pertanto quello del rialzo dei costi di acquisizione e manutenzione nel caso venissero imposti controdazi dalla Svizzera».