"Diamo una mano a chi è in difficoltà"

Sono quasi le undici e nei locali della «casetta gialla» (la mensa sociale delle ACLI) inizia a sprigionarsi un piacevole profumino. Il cuoco e i suoi aiutanti sono a buon punto e il pranzo è quasi pronto. Non c’è molta gente. Ci sono gli operatori, c’è fra Martino Dotta che si aggira tra i tavoli stringendo le mani a tutti e c’è una famiglia sudamericana – forse dell’Ecuador – con una bambina piccola che afferra un giocattolo. Una coppia dell’Est si avvicina al computer e inizia a navigare in Internet, probabilmente in cerca di lavoro. Poi succede – perlomeno per chi alla mensa sociale non ci è mai stato – l’impensabile. La sala da pranzo si riempie di colpo. Una quarantina di persone si siedono ai tavoli e iniziano a guardare con appetito verso le cucine. Il contrasto è evidente. Fuori un macchinone di lusso porta un giocatore dell’Hockey Club Lugano alla vicinissima Resega mentre dentro si attende in fila di poter mangiare un pasto caldo. Una Lugano che non ti aspetti. Così come inaspettato – sempre per chi come noi ha avuto la fortuna di non dover mai far capo a un servizio del genere – è il fatto di trovare ai tavoli persone che parlano dialetto. Persone nate e cresciute a Lugano, ormai di una certa età, che per un motivo o per l’altro si ritrovano in fila per un pasto. E inaspettato (ma questo ci verrà spiegato bene in seguito) è il fatto di vedere un gruppo di ragazzi, curati e ben vestiti (con giacche che sembrano costare più di quella indossata da chi vi scrive), estrarre dal portafoglio una moneta da 5 franchi e pagare per un piatto di risotto. Avviciniamo Karin Belli, operatrice sociale responsabile della struttura, e la riempiamo di domande.
Nelle barche o in case abbandonate
«Ho iniziato nel 2010 – ci spiega – quando la sede era ancora a Viganello (la mensa sociale si trova alla Resega dal 2013, in uno stabile messo a disposizione proprio dall’HC Lugano, ndr), quando si trattava di un progetto pilota. Volevamo cioè capire se per davvero c’era la necessità, a Lugano, di una mensa sociale. E sì, ci siamo ancora. Evidentemente la necessità c’era». Sintomo che la povertà c’è anche da noi, anche se forse è più nascosta che altrove. «Essendo nata e cresciuta a Lugano – ci spiega – mai avrei pensato che in questa città esistesse una così ampia zona grigia di malessere, che i ritmi frenetici della quotidianità non ci permettono di mettere a fuoco». Ma la povertà c’è. «Scoprire che c’erano persone che dormivano nelle barche, o in case abbandonate, è stata dura all’inizio. Altri invece neppure ci dicono dove dormono, perché vogliono che in quei luoghi possano restare in pace». Non tutti quelli che frequentano la mensa sono indigenti, e certamente non tutti sono senzatetto. C’è chi magari vive difficoltà momentanee e chi (soprattutto quando la sede era a Viganello, in un quartiere più popolare) «passava solo per fare quattro chiacchiere, bere un caffè e leggere i giornali». Soprattutto anziani, vittime di una povertà diversa: quella delle relazioni. Della difficoltà cioè, molto elvetica, nello stringere legami, affetti e amicizie. O semplicemente ritrovarli dopo la scomparsa di un coniuge. «In effetti – conferma Belli – la nostra potrebbe essere una società maggiormente accogliente, in cui il singolo presta più attenzione a chi lo circonda».
Spendere tutto per apparire ricchi
La povertà c’è, ma spesso non si vede. «Viene nascosta. L’importante è non apparire indigenti per non essere emarginati ulteriormente. E a volte le persone spendono quel poco che hanno in tasca proprio per non essere identificati come persone in difficoltà». Vestiti e parrucchieri. O automobili quando riescono. «Questo nonostante chi vive in Svizzera può comunque contare su una rete sociale che garantisce un minimo vitale, un paracadute. Discorso ben diverso invece per chi da noi c’è, ma per legge non dovrebbe esserci. Casi in cui si vedono situazioni più acute».
«Ho imparato a non giudicare»
Chissà quanti casi si vedono stando così tanto tempo alla casetta gialla. «Vediamo le situazioni più disparate. Ma ho imparato a non giudicare. Il bello di questa struttura è che non si giudica quel che succede all’esterno, e chi viene sa che verrà accolto. Il compito di noi operatori è proprio soprattutto quello di garantire che in questo luogo si possano trovare pace e tranquillità. Da noi le persone devono poter trovare un luogo in cui essere ascoltate». Dimenticare i problemi che la vita riserva loro fuori dalla casetta gialla. «Noi operatori poi lavoriamo sulle relazioni. Creiamo con gli ospiti il rapporto necessario per poi poterli aiutare, magari semplicemente indirizzandoli verso l’ufficio o l’associazione giusta. Il pasto caldo, la doccia o il bucato (la mensa offre anche questo tipo di servizi, vedasi box sopra) sono importanti. Ma sono anche un mezzo per riuscire ad offrire un supporto in rete».
I momenti più toccanti
E c’è un momento rimasto impresso più di altri? «Come madre – ci spiega Karin Belli – di sicuro sono molto toccata quando di mezzo ci sono i bambini. Sapere che hanno dormito fuori e che meriterebbero una scolarizzazione, un futuro. Un casa». E poi ci sono situazioni più complesse e articolare. «Mi ricordo che un giorno arrivò un ragazzo magrebino. Era un richiedente l’asilo cui però non era ancora stato assegnato il Cantone di competenza. Aveva subito un’operazione e la ferita era chiusa con delle graffette che gli facevano male, e che non poteva togliere perché non era seguito da nessuno. Ho imparato a capire l’importanza di accompagnare in modo discreto una persona nel proprio momento di fragilità, paura e difficoltà».
Donne sottomesse
«In qualità di donna, e non solo operatrice, ho una particolare sensibilità verso il tema della violenza femminile. Sono spesso confrontata con ospiti che ci raccontano dei maltrattamenti subiti dal proprio compagno, sulla difficoltà nel poter fare una reale scelta di cambiamento non avendo alle spalle una rete sociale a cui a fare affidamento. In queste situazioni prevale dentro di me un sentimento di reale impotenza».