L'intervista

«Dividere l’umanità in razze non aiuta a capire le differenze»

Lunedì, all'USI, si terrà il simposio «Noi vs loro: il cervello razzista», organizzato da BrainCircle Lugano — Fra i partecipanti anche il genetista di fama internazionale Guido Barbujani: «Le razze ce le siamo inventate, adesso ne sappiamo abbastanza per lasciarle perdere»
© AP/Keith Bedford
Dario Campione
16.03.2023 06:00

«Le razze ce le siamo inventate, le abbiamo prese sul serio per secoli, ma adesso ne sappiamo abbastanza per lasciarle perdere. Oggi sappiamo che siamo tutti parenti e tutti differenti, secondo un bello slogan coniato dal genetista francese André Langaney». È la tesi del genetista Guido Barbujani, che lunedì sarà a Lugano per parlare di razzismo (cfr. box a fine articolo). 

Professor Barbujani, partirei da una sua affermazione molto netta: «Siamo tutti africani, tutti discendenti di antenati che, non molto tempo fa, se ne stavano nell’Africa orientale, e da lì sono usciti riuscendo a colonizzare in poche migliaia di anni tutto il pianeta. Abbiamo avuto troppo poco tempo, e troppo poco isolamento, perché nell’uomo si formassero razze biologiche distinte». Niente razze nell’uomo, dunque, ma soltanto molte differenze «che stanno scritte solo un po’ nel nostro DNA, e moltissimo nella nostra cultura, nei diversi modi di vivere e di pensare che abbiamo sviluppato nel corso dei millenni». In termini più semplici, perché, a proposito degli esseri umani, è sbagliato parlare di razze?
«Perché ragionare in termini di razze significa dare per scontato che dietro le parole con cui definiamo i gruppi di persone - i bianchi, i neri, gli asiatici, gli ispanici, i turchi, gli svizzeri… - ci siano individui tutti identici o simili fra loro. Invece oggi sappiamo che ognuno di questi gruppi comprende gente molto diversa dal punto di vista genetico; se vogliamo trovare per ciascuno di noi i farmaci giusti, o il donatore giusto per un trapianto d’organo, dobbiamo andare a guardare le nostre caratteristiche individuali, non le etichette etniche o razziali».

Tuttavia, il pregiudizio è molto resistente, tutti vi ricorrono, spesso anche in maniera inconscia. Evitarlo non è così facile.
«Nelle situazioni di cui non abbiamo esperienza - e sono parecchie, nella vita: il primo titolo dell’Insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera era Il pianeta dell’inesperienza - dobbiamo per forza far ricorso a pregiudizi. Però a nessuno di noi fa piacere essere trattato come anonimo esponente di una categoria - ancora una volta: un bianco, un nero, una turca, una svizzera; ma anche un vecchio, una disoccupata, un immigrante… - Dunque, far ricorso a pregiudizi a volte è inevitabile, ma superarli sostituendoli, appena possibile, con giudizi, è molto consigliabile».

Pensare l’umanità come suddivisa in razze non ci aiuta a capire le nostre differenze, proprio perché nella stessa categoria razziale finiscono invariabilmente persone i cui DNA sono molto, molto diversi fra loro
Guido Barbujani, genetista

È possibile convincere le persone che tutti gli esseri umani hanno identiche potenzialità? E come farlo?
«Non credo che tutti gli esseri umani abbiano uguali potenzialità. Fin da piccolissimi, ci sono bambini più impulsivi o più riflessivi, bambini che coordinano meglio i propri movimenti e altri che si esprimono meglio con le parole…. Siamo esseri viventi, le nostre differenze sono anche - anche! - scritte nel DNA. Però, al momento, nessuno sa dire da quali geni dipendano, e quanto contino davvero questi geni rispetto a tanti altri fattori sociali e culturali. Il punto, quindi, è un altro: come cittadini vivremo meglio se la nostra società metterà tutti in grado di sviluppare le proprie potenzialità, indipendentemente dal sesso, dalle origini geografiche, dalla religione, dalle condizioni economiche e sociali. Non è poi una novità: nel 1948 l’avevano già scritto nella Costituzione italiana. Che questo bel principio sia stato poi messo in pratica, beh, questo è un altro discorso».

Perché non ha senso il “catalogo razziale” dell’umanità?
«Perché i cataloghi razziali nascono nell’Ottocento, quando si studiava quello che si poteva: la lunghezza delle ossa, la forma del cranio, il colore della pelle. Questi dati hanno molti limiti, e infatti hanno generato decine di cataloghi razziali in contraddizione fra loro: quante e quali sarebbero le razze umane nessuno è mai riuscito a dirlo. Oggi disponiamo di strumenti scientifici molto sofisticati, e abbiamo visto che pensare l’umanità come suddivisa in razze non ci aiuta a capire le nostre differenze, proprio perché nella stessa categoria razziale finiscono invariabilmente persone i cui DNA sono molto, molto diversi fra loro».

Battere il razzismo, però, rimane comunque difficile. Difficile nonostante i progressi scientifici, la tecnologia, la globalizzazione. Perché secondo lei?
«Per tanti motivi. Uno è che il razzismo è facile: ci offre un nemico a cui dare la colpa di ciò che non funziona nella nostra vita. È la ricetta di base del populismo: proporre una soluzione semplice - è colpa degli altri - ai complessi problemi della nostra convivenza sociale. Solo che queste ricette semplici non funzionano mai».

Anche le parole sono importanti: lo sforzo di lasciarci alle spalle gli stereotipi razzisti passa anche per una fase di ripulitura del lessico
Guido Barbujani, genetista

Lei ha sempre insistito sulla «pulizia del lessico» come metodo per sconfiggere il razzismo.
«Mentre sottolineiamo che il problema principale è nel concetto e non nella parola, ci rendiamo però conto che anche le parole sono importanti. In effetti, lo sforzo di lasciarci alle spalle gli stereotipi razzisti passa anche per una fase di ripulitura del lessico, per l’eliminazione di espressioni che esprimano un pregiudizio, esplicito o implicito. Se uno, parlando dell’umanità, dice razza e intende razza, parla di qualcosa che non esiste. Se invece dice razza e intende popolazione, meglio dire popolazione».

Utilizzare un linguaggio non razzista significa anche partire dal rispetto dei singoli.
«Sicuramente, perché non bisognerebbe mai offendere nessuno. Se a qualcuno dà fastidio che lo si chiami terrone o vecchio o boscimane, bisogna cercare parole diverse. Senza tuttavia dimenticare un punto».

Quale?
«Che il problema è anche nella lingua, ma non solo lì: se poi non si passa a comportamenti conseguenti, non cambia quasi nulla. Alla fine, conta come parliamo, ma conta molto di più quello che facciamo».

In che modo, a suo avviso, i mass media possono aiutare a sconfiggere la mentalità razzista che pure, purtroppo, persiste?
«Sarebbe già qualcosa se evitassero di perpetuarla con un uso spregiudicato del vocabolario. Un amico di Cosenza mi faceva notare che quando un calabrese fa una rapina, i giornali sottolineano la sua origine, mentre quando il professor Renato Dulbecco vinse nel 1975 il premio Nobel per la Medicina nessuno si sarebbe sognato di titolare “Calabrese vince il Nobel”».

La scheda: chi è Guido Barbujani

Guido Barbujani, 67 anni, è professore ordinario di Genetica all’Università di Ferrara. Nella sua carriera accademica ha lavorato alla Stony Brook University (New York) e negli atenei di Padova e di Bologna. Dal 2011 al 2014 è stato presidente dell’Associazione Genetica Italiana.

Specializzato in genetica delle popolazioni, con Robert R. Sokal è stato fra i primi a sviluppare i metodi statistici per confrontare dati genetici e linguistici, e per ricostruire così la storia evolutiva delle popolazioni umane. I suoi studi hanno permesso di appurare che la maggior parte degli antenati degli attuali europei non si trovavano in Europa, ma nel vicino Oriente, fino all’epoca neolitica.

Tra i suoi libri più importanti va ricordato Sono razzista, ma sto cercando di smettere  (Laterza, 2022²), scritto con Pietro Cheli.

"Come nasce il razzismo nel cervello" è il tema del simposio organizzato nella giornata di lunedì 20 marzo da BrainCircle Lugano (associazione no-profit per la divulgazione della ricerca sul cervello) in collaborazione con l’Osservatorio contro il razzismo e la facoltà di Comunicazione dell’USI, la Fondazione Eccles, la Fondazione Goren Monti Ferrari e l’Associazione Svizzera-Israele. Il Corriere del Ticino è media partner dell’iniziativa. Il simposio, che è aperto al pubblico, si tiene nell’Aula magna dell’USI, a Lugano, dalle 14, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale. Iscrizioni online sul sito www.braincirclelugano.ch. I lavori sono organizzati in sessioni e si concluderanno con una tavola rotonda su «Razzismi e new media». Il professor Guido Barbujani guiderà la prima sessione («Un’unica razza: quella umana») durante la quale interverranno Federica Frediani, docente USI ed esperta di narrative del Medio Oriente Mediterraneo, e Laura Bertini, responsabile del Centro di documentazione e ricerca sulle migrazioni della SUPSI.
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