Fotovoltaico

È ora di parlare di parchi solari sulle montagne ticinesi

Fra sicurezza energetica e transizione climatica, apriamo la discussione in merito al ruolo che potrebbe avere il nostro cantone
L'impianto sperimentale galleggiante installato sul lago della diga di Toules, nei pressi del Gran San Bernardo. © ROMANDIE ENERGIE
Bruno Giussani
09.03.2023 06:00

Sei mesi fa il Parlamento federale ha deciso di incentivare i grandi impianti fotovoltaici alpini. Molti progetti sono nati in altri cantoni. La tecnologia c’è, il Ticino ha le montagne e il sole. Apriamo la discussione.

Sono almeno una dozzina i progetti di grandi centrali elettriche solari alpine già annunciati in Svizzera. Quasi tutti in Vallese e nei Grigioni.

In Ticino (la «Sonnenstube» della Svizzera), finora, nessuno.

I vallesani ci si sono messi con più lena, in uno sforzo trasversale. Il consigliere di Stato responsabile dell’energia (Roberto Schmidt, del Centro) ha lanciato una task force per studiare il potenziale del fotovoltaico alpino. Peter Bodenmann, ex-presidente del Partito socialista svizzero, sta dietro due dei progetti più avanzati. Alcune delle principali aziende elettriche svizzere sono coinvolte.

I grigionesi sono più discreti, fanno meno conferenze stampa dei vallesani, ma stanno andando veloci, come s’è visto durante una recente giornata di studio di Swissolar a Landquart.

Parafrasando il consigliere nazionale ticinese Rocco Cattaneo (PLR – vedi intervista), che da anni porta avanti una politica di promozione dello sviluppo di un settore energetico solare forte in Svizzera: e i ticinesi cosa aspettano?

I parchi solari alpini sono centrali elettriche solari installate in altitudine, generalmente sopra i 1.800/2.000 metri, ciò che li situa sopra il livello della nebbia. Sono pensati per essere dotati di pannelli solari bifacciali. Beneficiano quindi del sole che li colpisce direttamente (e con maggiore intensità e durata data l’altitudine), delle basse temperature che aumentano l’efficienza dei pannelli, come pure dei potenziali riflessi sulla neve in inverno. Ed è appunto in inverno che la Svizzera manca di energia, e deve importarne massicciamente dall’estero.

Varie aziende elettriche hanno fatto dei test, dai quali è risultato che la resa invernale dei pannelli bifacciali in altitudine è fra il 30 e il 70 per cento più alta che in pianura. Entrano in questo ordine di grandezza anche i risultati ottenuti dall’installazione pilota galleggiante situata da tre anni sul lago della diga di Toules, nei pressi del Gran San Bernardo a 1.810 metri di altitudine. Costruita per testare la tecnologia e raccogliere dati per poi sviluppare un parco solare più grande, conta 2.240 metri quadrati di pannelli solari bifacciali (circa l’1 per cento della superficie del lago) e la sua produzione è risultata «equivalente a quella di pannelli installati nel Sud dell’Italia», dice una portavoce di Romandie Energie, che gestisce l’impianto. E per fare un confronto un po’ più estremo, ma reale, l’impianto solare installato sulla facciata sud del ristorante del Piccolo Cervino, sopra Zermatt, a 3.883 metri, produce nelle giornate invernali soleggiate circa l’80 per cento di energia in più di un impianto paragonabile situato in pianura.

Queste cifre possono essere lette anche in altro modo: in pianura, i pannelli solari producono circa il 30 per cento della loro energia in inverno e il 70 per cento in estate. Gli impianti in altura evitano questo deficit fra produzione estiva e produzione invernale.

Il potenziale dei parchi solari alpini come elemento importante della sicurezza energetica futura della Svizzera è quindi reale.

Idroelettrico sotto pressione

L’accelerazione dei progetti a cui assistiamo non è casuale. Il sistema elettrico attuale basato sui due pilastri idroelettrico e nucleare (mentre nell’eolico, con solo 41 turbine installate, la Svizzera è molto in ritardo) è a medio termine vulnerabile. Come deciso in votazione popolare nel 2017, dal nucleare dovremmo uscire progressivamente nei prossimi quindici-vent’anni. La questione è stata ora riaperta a livello di dibattito politico. Alla luce dello sviluppo di nuove tecnologie (modulari, meno care) essa merita seria considerazione. Anche se ci fosse un ripensamento a 180 gradi, tuttavia, non è immaginabile l’entrata in funzione di nuovi reattori in Svizzera prima di almeno quindici anni. L’idroelettrico è sotto pressione per altre ragioni: i ghiacciai si sciolgono rapidamente (il riscaldamento dell’atmosfera è più accelerato nelle Alpi che altrove in Europa), i periodi di siccità sono più frequenti e ciò rischia di portare a una riduzione della produzione idroelettrica.

La stabilità energetica della Svizzera è attualmente basata sull’importazione di elettricità in inverno (per circa un sesto del fabbisogno), mentre ne esportiamo in estate. Ma i Paesi vicini hanno problemi simili ai nostri. Quando manca l’acqua nei fiumi, o è troppo calda, per fare un esempio, non la si può utilizzare per raffreddare le centrali nucleari (la Francia l’anno scorso ne ha spente parecchie per periodi più o meno lunghi). Consideriamo poi gli sforzi europei per sganciarsi dal gas e dal petrolio russi e il processo di decarbonizzazione della produzione di energia (la “transizione energetica”) per tentar di far fronte ai cambiamenti climatici. Bisogna tener conto inoltre del fatto che la Svizzera non ha attualmente un accordo sull’elettricità con l’Unione Europea. Pur essendo geograficamente al centro della rete continentale (con oltre 40 linee transfrontaliere), all’orizzonte 2025, quando nuove regole UE entreranno in vigore, la Svizzera potrebbe vedere seriamente limitata la sua capacità di importazione. Tanto la Commissione federale dell’elettricità (Elcom) che l’Empa hanno espresso timori di carenza di elettricità in inverno. In questo contesto, un sistema di parchi solari in altitudine potrebbe diventare il terzo pilastro della produzione elettrica svizzera.

Lo scorso settembre il Parlamento federale ha scelto di agevolare i grandi impianti solari alpini, in particolare per garantire in tempi relativamente brevi (anni invece di decenni) un approvvigionamento elettrico più sicuro durante l’inverno. Ha deciso in particolare che i grandi impianti fotovoltaici in altitudine che produrranno almeno 10 gigawattora all’anno e che cominceranno ad immettere energia in rete entro la fine del 2025 potranno beneficiare di procedure semplificate e di finanziamenti dalla Confederazione fino al 60 per cento dell’investimento (ordine di grandezza approssimativo: un miliardo di franchi per 1.000 gigawattora). E questo, fino ad una produzione cumulata di 2.000 gigawattora a livello nazionale.

(Per dare un’idea, 2.000 gigawattora annui corrispondono a circa due terzi dell’energia elettrica prodotta in Ticino ogni anno).

© Romandie Energie
© Romandie Energie

Equazione produzione/impatti

Parte dell’entusiasmo attuale per la creazione di progetti di parchi solari alpini è certamente suscitato dal desiderio di intercettare i generosi sussidi federali e soprattutto di arrivare prima degli altri, visto che il limite di 2.000 gigawattora potrebbe essere consumato rapidamente, per esempio dai soli impianti vallesani di Grengiols e della Vispertal (vedi in basso a sinistra) se entrambi fossero realizzati interamente.

Non è chiaro per il momento come saranno selezionati i progetti: le ordinanze che regolano la questione sono in fase di elaborazione. Chiarissima è invece la necessaria equazione per la localizzazione di questi impianti: in luoghi dove la produzione energetica è massimizzata e l’impatto ambientale minimizzato (in questa seconda variabile entra per esempio l’installazione sopraelevata dei pannelli, a due metri da terra, per trovarsi al disopra della neve in inverno e permettere i movimenti della fauna e il pascolo in estate). La responsabilità collettiva di preservare spazi naturali senza attività umane e di proteggere la biodiversità alpina è evidente. Ma è pure evidente la necessità di garantire l’approvvigionamento energetico del Paese.

Le società moderne non possono funzionare senza una disponibilità di energia sicura, costante e a costi abbordabili, e un elemento essenziale è che in futuro avremo bisogno non di meno, ma di molta più energia elettrica. Qualcosa come tre o quattro volte di più.

Tendenze di fondo

Perseguire politiche e iniziative di eliminazione degli sprechi e ricerca d’efficienza, di ottimizzazione, di isolazione e ristrutturazione degli immobili, e di limitazione dei consumi rimane ovviamente fondamentale. È anche necessario sfruttare ogni potenziale di aumento della capacità degli impianti esistenti, per esempio modernizzando le centrali idroelettriche (come il rinnovo di quella del Ritom), sviluppando il pompaggio-turbinaggio, o innalzando le dighe dove ha senso (in Ticino, quella del Sambuco). Ma siamo confrontati a tendenze di fondo mondiali e nazionali che richiedono una revisione degli obiettivi di produzione elettrica nazionale verso l’alto. Innanzitutto, la necessaria elettrificazione e decarbonizzazione di tutti i settori dipendenti dalle energie fossili, dalla mobilità al riscaldamento ai processi industriali all’agricoltura (la transizione energetica di cui parlavamo prima - sapendo che petrolio e gas rappresentano circa il 60 per cento di tutta l’energia consumata in Svizzera). Poi, lo sviluppo della digitalizzazione e la massiccia infrastruttura che l’accompagna, dai telefonini ai data-centers, dall’intelligenza artificiale alla robotizzazione. Terzo elemento: un certo livello di reindustrializzazione o comunque di rilocalizzazione futura di attività economiche finora esportate all’estero ma che sono fragilizzate dal peggiorare della situazione geopolitica. E naturalmente, la crescita demografica. Tutto ciò richiederà, in un futuro vicino, un aumento significativo della produzione elettrica da fonti rinnovabili.

Vantaggi e problematiche

In gennaio, al Congresso svizzero dell’energia a Berna, il consigliere federale Albert Rösti (UDC), nuovo direttore del Dipartimento federale dell’energia, è sembrato interpretare queste tendenze quando ha stravolto il paradigma fin qui dominante (importazioni e risparmio energetico) parlando di «sovranità energetica» e affermando che «dobbiamo produrre di più» per uscire dall’impasse attuale e garantire l’approvvigionamento a corto quanto a lungo termine.

Se presenta molti vantaggi, la realizzazione di parchi solari alpini comporta anche una serie di problematiche uniche, prima fra tutte l’impatto sugli ecosistemi locali e sugli habitat della fauna selvatica, ma anche il terreno difficile (tanto in termini di costruzione quanto di manutenzione) e la necessità di collegarli alla rete elettrica e la capacità della stessa rete di assorbire i picchi di potenza.

Una critica spesso articolata è che prima di pensare a installazioni di grande taglia in altitudine, bisognerebbe coprire di pannelli solari quel che è già costruito: le dighe (quando esposte a sud), per esempio, e soprattutto i tetti, quelli delle grandi costruzioni come delle case, dove il collegamento alla rete elettrica già esiste. È un buon argomento, sostenuto anche da alcuni studi e rafforzato dal fatto che il solare di piccola dimensione in Svizzera ha vissuto nel 2021 una crescita di circa il 40 per cento, ripetuta nel 2022, sospinto anche dalla riduzione del costo dei pannelli.

Il nuovo Piano energetico e climatico cantonale (PECC) ticinese, attualmente in consultazione fino a fine marzo, sembra flirtare con questa posizione. Afferma l’obiettivo dell’«indipendenza energetica» aumentando «in modo drastico la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, sfruttando al massimo il potenziale indigeno». Indica l’obiettivo in 1.500 gigawattora annui di produzione. E mette la priorità sull’«installazione di impianti fotovoltaici integrati nelle costruzioni o realizzati su supporti non convenzionali» come le traverse ferroviarie. Gli «impianti al di fuori delle zone edificabili [sono invece] ritenuti meno prioritari e di difficile realizzazione», pure se «non si esclude che si sviluppi anche il cosiddetto fotovoltaico alpino».

In futuro avremo meno bisogno non di meno, ma di molta più energia elettrica

Ottimizzato per l’inverno

È un argomento coerente, e il potenziale del solare sui tetti e sulle facciate è reale. Ma c’è un contro-argomento. Come abbiamo visto qualche paragrafo fa, il principale problema energetico elvetico è invernale. Ci sono in Svizzera oltre quattro milioni e mezzo di edifici residenziali, pubblici, commerciali e industriali, e coprirli tutti (o anche solo la metà) è non solo un’impresa titanica, ma pure costosa e relativamente inefficiente quando considerata come alternativa a un numero relativamente piccolo di infrastrutture di grandi dimensioni, di più facile gestione e situate in altitudine, quindi ottimizzate, appunto, per produrre molto di più in inverno. Il che non sta a dire che non bisogna continuare a incoraggiare l’installazione di pannelli solari sugli stabili: in chiave transizione energetica è una necessità. Ma non risolve da solo il problema invernale. Il doppio obiettivo della sicurezza energetica e della produzione di energia senza emissioni di gas a effetto serra richiede la costruzione di grandi infrastrutture. Fatte in modo responsabile e con un occhio molto attento agli impatti ambientali, ovviamente, ma parliamo di infrastrutture ambiziose come quelle che hanno alimentato il successo economico svizzero: le dighe (Ritom, 1920; Lucendro, 1947; Grande-Dixence, la diga più alta d’Europa, 1953; Verzasca, 1965; e altre 210 attraverso il Paese), le condotte forzate (spesso invisibili, scavate nella montagna), le centrali (ce ne sono quasi 700 in Svizzera), le reti di trasporto e distribuzione. Nell’ultimo secolo abbiamo elettrificato il Paese attraverso una serie di grandi opere, mostrando lungimiranza e coraggio e, sì, con un immancabile impatto sul territorio. Ma di quelle opere oggi andiamo orgogliosi.

Venti chilometri quadrati

Qui bisogna sfatare il malinteso del “si vogliono coprire le montagne di pannelli solari”. Se vogliamo fare un altro paragone ci sono in Svizzera (secondo un rapporto del 2018 dell’Istituto federale di studio della neve e delle valanghe) circa 425 chilometri quadrati di territorio alpino occupati da piste da sci, impianti di risalita e infrastrutture annesse. Per raggiungere l’obiettivo fissato dal Parlamento federale (2.000 gigawattora) basterebbero circa 20 chilometri quadrati di impianti solari. Per colmare il deficit invernale attuale, circa 100.

Siamo a una svolta energetica. Da farsi senza indebolire l’economia, anzi rafforzandola (perché in realtà la transizione energetica non è “un costo”, ma un’incredibile opportunità economica, generatrice di possibilità nuove e di molti posti di lavoro qualificati). Il Ticino, cantone alpino e che beneficia di molto soleggiamento, nel contesto svizzero può svolgere un ruolo di primo piano sul fronte dei parchi solari in altitudine. A patto di muoversi velocemente e in modo coordinato, e di non ricadere anche per il solare nello schema Ofible/Ofima (gli impianti di Blenio e Maggia dove i due terzi circa dell’idroelettricità prodotta in Ticino è non solo esportata oltralpe, ma controllata dalle aziende d’oltralpe).

È ora di immaginare che la Sonnenstube possa diventare la Sonnenwerk

Nessuna soluzione magica

Questa svolta energetica non necessiterà soltanto di volontà politica, di massicci investimenti, di coordinazione fra le varie aziende e realtà ticinesi e di attenzione all’equazione produzione/impatti ambientali. Richiederà pure di ripensare il modo in cui consideriamo i sistemi di produzione elettrica nel loro insieme, sapendo che tutte le fonti rinnovabili saranno necessarie: una soluzione magica ai problemi attuali (e ciò vale anche per il risparmio energetico) non esiste. Il solare di larga scala ha in particolare un potenziale di grande complementarità con la produzione idroelettrica.

Mentre il Vallese e i Grigioni si muovono, in Ticino circolano soprattutto idee. È ora di trasformarle in progetti, di discutere seriamente e serenamente di parchi solari alpini di grandi dimensioni da costruire sulle nostre montagne, e di immaginare che la “Sonnenstube” possa diventare una “Sonnenwerk”.