«È una tragedia, ho la disperazione nel cuore»

“Sono a Cozzera e scrivo come posso, tanto è la compassione che mi opprime. Ho la disperazione nel cuore”. Difficile trovare le parole di fronte a una tragedia come quella capitata il 23 marzo 1851 a Cozzera, la frazione più a nord di Ghirone (oggi Comune di Blenio). Una valanga travolse l’abitato portando distruzione e morte: le vittime furono 23, fra di loro anche dei bambini (ed addirittura un neonato, il piccolo Luigi, di appena un mese e mezzo). Quattro abitanti furono miracolosamente salvati. Fra i 49 superstiti ci fu anche l’uomo, di Olivone, a cui si deve la paternità della citazione riportata all’inizio. Fu grazie a lui che il Ticino conobbe quanto era successo nella Valle del Sole, che purtroppo allora non tenne fede al suo soprannome. Le avvisaglie del dramma, come spesso accade, erano evidenti già da alcuni mesi. In estate, infatti, “si sentirono ripetute scosse di terremoto accompagnate da fenomeni assai più notabili di quelli dai fogli narrati: persone sobbalzate dalle sedie, porte spalancate, grossissime pietre trasportate da uno in altro luogo... Giovedì (20 marzo, ndr.) il cielo si coperse di dense nubi. Per tre giorni caddero dirotte piogge frammiste a neve. Ma sulle montagne la neve cadde copiosissima”.
Le precipitazioni crearono la valanga che scese la sera di domenica 23 marzo, all’ora di cena. Il villaggio fu quasi interamente sepolto ed oltre alle vittime si contarono anche 300 capi di bestiame morti all’interno delle stalle. La macchina dei soccorsi si mise subito in moto, come ricorda Mario Giamboni di Campo, il quale ci ha aiutato a rievocare la “catastrofe bianca bleniese”, per prendere in prestito le parole del compianto professore di Aquila Rocco Degiorgi che dedicò alla valanga uno scritto pubblicato nel centenario dai fatti. Ecco, di seguito, uno stralcio che mette i brividi seppur siano trascorsi 168 anni: “Tutta la vallata fu scossa dal silenzio glaciale di un tremendo boato che fece sobbalzare gli uomini e strepitar le bestie chiuse negli ovili, ed una raffica ventosa di vigore inaudito avvolse tutto in un turbinio sinistro. Dalla falda detta del ‘Ciucair’ una enorme frana bianca, come se la montagna si fosse squarciata rovesciandosi sulle case, sulle stalle, empiendo i vicoli, precipitò schiantando, rovinando nel fragore di legname infranti e sfasciar di muri e di tetti, giù convogliando tutto nel fondo della valle, nella sua tragica corsa. Non si distinse né un gemito, né un urlo, né un’invocazione: tutto sommerso sotto lo spesso e vasto sudario comune: uomini, cose, animali. Poi il silenzio lugubre di morte, di tomba, di fato; rotto subito da voci deliranti di raccapriccio, di strazianti appelli che si levarono dalla parte sud dell’abitato, dove nelle case restate incolumi uscivan la gente, atterrite, inebetite, pazzi dallo spavento e dalla dolorosa sorpresa, a chiamar con gli accenti della disperazione e le invocazioni più tenere i famigliari più intimi, gli amici, i vicini, che nella casa lì a due passi eran stati ghermiti e travolti dall’infernale tregenda”.