Territorio

Gestire le piene e le alluvioni grazie agli impianti idroelettrici

Il bacino artificiale di Ferden, in Vallese, è stato svuotato dopo il disastro di Blatten, sepolto da 9 milioni di tonnellate di ghiaccio e roccia – Lo scorso anno, in Vallemaggia, le dighe trattennero milioni di metri cubi d’acqua – Il ruolo degli sbarramenti nell’epoca del cambiamento climatico
©JEAN-CHRISTOPHE BOTT
Giona Carcano
19.07.2025 06:00

«Gestione delle piene e disposizioni in caso di emergenza». Era il titolo delle due giornate di studio proposte dal Comitato svizzero delle dighe riunito a Friburgo a inizio giugno. Un tema di strettissima attualità e che si lega con gli effetti del cambiamento climatico. Tre gli esempi, recentissimi: il primo è il distacco del ghiacciaio del Birch, in Vallese, che ha seppellito il villaggio di Blatten causando una vittima. Il secondo è quanto accaduto in Vallemaggia e Mesolcina l’estate scorsa, con la devastazione portata da una serie di eventi estremi. Le vittime furono sette in Vallemaggia, tre in Mesolcina. E il terzo esempio? La grande frana di sabato scorso nella zona della Grande Dixence: circa 5.000 i metri cubi di roccia staccatisi dalla parete sopra il sito.

Dalla Svizzera alla Cina

Qualcuno potrebbe chiedersi che cosa c’entrino questi eventi distruttivi e tragici con gli sbarramenti idroelettrici. La risposta è una sola: molto. Prendiamo il caso di Blatten. L’enorme frana di 9 milioni di metri cubi di ghiaccio e roccia, che ha travolto lo scorso 28 maggio il paese della Lötschental, ha ostruito il corso del fiume Lonza. A monte del cumulo di detriti si è quindi formato un lago, ed è a quel punto che le autorità hanno ordinato lo svuotamento del bacino idroelettrico di Ferden, pochi chilometri a valle di Blatten. In questo modo, se si fossero verificate una tracimazione e una conseguente ondata di piena, il bacino artificiale avrebbe potuto svolgere una funzione di contenimento, evitando pesantissimi danni a valle. Una funzione di protezione simile è stata svolta dai bacini del Sambuco e del Naret in Val Lavizzara e quelli di Robiei e Cavagnoli nella parte alta della Bavona durante l’evento a cavallo fra il 29 e il 30 giugno dello scorso anno. Questi laghi artificiali , in particolare il bacino del Sambuco, avevano trattenuto milioni di metri cubi d’acqua, proteggendo la Vallemaggia da danni ancora più gravi. Ecco che allora, alla luce di questi esempi, risulta chiaro l’aspetto di protezione e di regolazione delle piene svolto addizionalmente dai bacini idroelettrici. Un’altra prova di questo prezioso ruolo? Guardando al di fuori dalla Svizzera, spostiamoci in Cina. La famosa diga delle Tre Gole, una delle più grandi al mondo, oltre che per l’immensa produzione idroelettrica è stata costruita con la funzione principale di prevenzione delle inondazioni. Dal suo completamento all’inizio degli anni 2000, il lago artificiale delle Tre Gole è riuscito a prevenire o mitigare quasi 70 eventi estremi, intercettando e immagazzinando più di 220 miliardi di metri cubi di acqua di piena. Solo nel 2020, si è potuta evitare l’ecuazione di 600.000 persone.

La laminazione delle piene

Una funzione utilissima, dunque, che salva vite umane e contiene i danni economici. «Nel gergo tecnico, le dighe svolgono a prescindere un ruolo di ‘‘laminazione’’ delle piene», spiega Andrea Balestra, ingegnere allo studio Lombardi e segretario del Comitato svizzero delle dighe. «In funzione del suo grado di riempimento, il bacino trattiene l’acqua che viene rilasciata in un momento successivo mitigando così il picco di portata del fiume». Al di là degli aspetti tecnici, in gioco rientra pure il cambiamento climatico. Più alte sono le temperature, e più l’atmosfera riesce ad assorbire umidità. E quando l’acqua viene scaricata in formas di precipitazioni, queste diventano più intense anche in ragione del maggior volume d’acqua raccolto. Di qui, dunque, piene improvvise, alluvioni ma anche aumento del rischio di frane o scoscendimenti. Eventi che stanno diventando più frequenti lungo tutto l’arco alpino, una zona più sensibile al cambiamento climatico rispetto ad altre. Un tema che chiama in causa direttamente la protezione del territorio e anche chi si occupa di dighe e sbarramenti. «La raccolta sistematica dei dati riguardanti temperature, precipitazioni e deflussi dei corsi d’acqua è iniziata nel secolo scorso», spiega Balestra. «Ciò significa che disponiamo di dati per un periodo statistico di riferimento piuttosto breve se relazionato alla frequenza degli eventi estremi che siamo chiamati a prevedere nel dimensionamento delle infrastrutture, generalmente nell’ordine delle centinaia o migliaia di anni. Per questo è importante continuare a insistere sulla raccolta di dati di base. Disponendo di dati di qualità, è possibile fare previsioni più affidabili anche a livello idrologico». Un aspetto molto rilevante alla luce proprio del cambiamento climatico in atto: «Una migliore previsione permette anche di vedere prima dei trend o delle differenze rispetto al passato».

Percezione del rischio

Al di là dei numeri e di una migliore precisione predittiva, spesso ci si dimentica che gli sbarramenti costruiti attorno alla metà del secolo scorso nelle valli svizzere e ticinesi stanno contribuendo in modo sempre più significativo alla protezione del territorio dalle piene o, più in generale, da aventi climatici violenti. «Le nostre valli sono strette, e i percorsi dell’acqua abbastanza obbligati», rileva ancora l’ingegnere. «In questi casi, il ‘‘lavoro’’ silenzioso svolto dalle dighe è essenziale. Non bisogna infatti dimenticare che è possibile contenere i danni delle alluvioni anche grazie agli sbarramenti costruiti in passato».

La chiave è il dialogo costante

Tornando alla cronaca delle scorse settimane e al distacco del ghiacciaio del Birch su Blatten, è inevitabile pensare alle conseguenze di un franamento di queste dimensioni all’interno di un bacino idroelettrico. Una massa simile potrebbe infatti provocare un’onda capace di superare lo sbarramento, come successo nel 1963 con la diga del Vajont. Un’ipotesi remota, certo, ma che al giorno d’oggi viene considerata attentamente da geologi, ingegneri, gestori e organi di sorveglianza nella progettazione, durante la costruzione e per tutto il ciclo di vita del bacino, in particolare alla luce dei cambiamenti in atto sull’arco alpino. «Negli anni, in Svizzera ma non solo, sono stati sviluppati dei sistemi di rilevamento in tempo pressoché reale molto performanti», spiega Balestra. I movimenti della massa sopra Blatten e il bacino di Ferden sono stati individuati precocemente, consentendo la completa evacuazione dell’intera zona. Si torna dunque al tema, essenziale, del dialogo fra gli attori coinvolti: autorità, geologi, gestori di bacini». Una collaborazione che è in costante affinamento. «La questione dei piani d’emergenza dei bacini è stata al centro dell’ultimo evento annuale del Comitato svizzero delle dighe», riprende l’ingegnere. «Ogni gestore deve dotarsi di un piano sia per quanto riguarda gli aumenti repentini del livello del lago, sia per franamenti o colate detritiche».

In questo modo, in caso di necessità, le autorità e le squadre di soccorso possono disporre di un prontuario da utilizzare immediatamente. «La gestione recente del bacino di Ferden è un buon esempio: le autorità federali e quelle vallesane erano preparate, sapevano cosa fare, e hanno agito rapidamente probabilmente grazie ai ragionamenti fatti durante l’allestimento di quei piani d’emergenza», evidenzia Andrea Balestra.

La sciagura del 1965

Rispetto al passato, dunque, c’è più consapevolezza dei rischi di potenziali catastrofi legate a franamenti improvvisi sull’arco alpino. Autorità, ingegneri e geologi hanno imparato dagli errori commessi in passato. In agosto, ad esempio, cadono i 60 anni dal disastro del Mattmark, sopra Saas-Fee, in Vallese. Il cedimento di una parte del ghiacciaio dell’Allalin provocò un’enorme valanga, che travolse le baracche che ospitavano gli operai intenti a costruire lo sbarramento del Mattmark. I morti furono 88. «La percezione del rischio è profondamente cambiata da quell’evento», ricorda il nostro interlocutore. «L’evoluzione è stata notevolissima».

Ma chi paga il conto?

Infine, c’è un tema economico. Vanno bene i rischi, i piani di evacuazione e la protezione dalle piene che svolgono le dighe. Ma chi paga quando le autorità ordinano lo svuotamento di un bacino idroelettrico per altri scopi come successo a Ferden? «Per molti dei serbatoi sottesi da dighe, l’uso multiplo è una realtà “di fatto”, e un riconoscimento esplicito - di tipo economico o di altra natura - non è sempre garantito. Una possibile soluzione è rappresentata dalla suddivisione equa di costi e vantaggi da parte dei diversi soggetti coinvolti, pubblici e privati, perseguita sia con il riconoscimento del ruolo multifunzionale delle dighe sia con l’attivazione di politiche e strumenti per la valorizzazione e compensazione dei vari ruoli. In generale, quindi, le compensazioni ci sono se sono state previste nella concessione per lo sfruttamento della risorsa idrica», spiega l’ingegnere. «Un esempio arriva proprio dalla diga del Mattmark: le autorità del Canton Vallese, all’inizio degli anni Duemila, hanno stipulato un accordo con il gestore riservando una parte del volume del bacino per trattenere le piene. In pratica hanno acquistato un volume di laminazione. Un’evoluzione di questo sistema è rappresentato dal concetto di laminazione dinamica: con l’aiuto di previsioni precise, si cerca di anticipare le piene e di modificare conseguentemente la strategia di gestione degli impianti. In questo modo si riesce a trattenere la maggior paerte della portata entrante nei bacini, evitando da un lato che il gestore perda acqua preziosa per la produzione idroelettrica e dall’altro che a valle dell’impianto si verifichi una piena».