Arte

Giocondo Albertolli, il restauratore del buon gusto

Con Carlo Agliati presentiamo il volume dedicato all’architetto e ornatista di Bedano in cui vengono messi in luce i materiali conservati all’Archivio di Stato di Bellinzona
Un ritratto dell’architetto Giocondo Albertolli (1742-1839), opera del pittore Carlo Gerosa, del 1837 ca. (Milano, Accademia di Belle arti di Brera).
Carlo Silini
26.03.2019 06:00

È un giovedì di vento gelido e impetuoso quello in cui lo storico Carlo Agliati ci accoglie nell’Archivio di Stato di Bellinzona e ci accompagna con circospezione nei bunker dell’Istituto. Qui, tra le pareti di cemento dei lunghi corridoi verdi, l’impatto degli agenti atmosferici è nullo e quello che scopriamo nel silenzio dei piani interrati è un piccolo mondo di meraviglie invisibili ai più: quadri antichi, oggetti rari, raccolte di libri ufficiali (dai primi verbali del Gran Consiglio nel 1803 a quelli vergati fino all’altro ieri), lettere, disegni, documenti ingialliti. Veri tesori dai quali gli studiosi traggono materiali stupefacenti, come quelli che vanno a sostanziare il libro a più voci Ornato e architettura nell’Italia neoclassica. Il fondo degli Albertolli di Bedano, secc. XVIII-XIX (Bellinzona, Edizioni dello Stato del Cantone Ticino, 2019), presentato ufficialmente martedì 26 marzo alle 18.30 nell’Archivio stesso. Ne parliamo con Agliati, curatore del volume assieme a Paola Cordera e Giuliana Ricci. Un vero tuffo nella gloria artistica del nostro Paese. Che parte da lontano.

«Gli Albertolli di Bedano – esordisce Agliati – sono una delle tante famiglie dell’area del lago di Lugano e in questo caso della valle del Vedeggio e del Malcantone dove molti villaggi sono popolati da maestranze d’arte, di alta specializzazione ma anche di mestieri più marginali e di fatica nell’ambito della costruzione edilizia. Dai semplici sterratori ai mastri da pietra, i muratori». L’emigrazione edilizia è una tradizione che risale al Medioevo, quella dei magistri d’arte, come i comacini, ed è costituita da clan famigliari e regionali. «Era molto apprezzata dalla grande aristocrazia e dalla Chiesa soprattutto fra il Seicento e l’Ottocento perché costituita da botteghe efficientissime che costavano poco. Erano affidabili e consegnavano il prodotto, come diremmo oggi, “chiavi in mano”». La committenza è quindi ecclesiastica, aristocratica e/o legata ai regnanti che costruivano i loro scintillanti palazzi. I Rabaglio, per esempio, hanno collaborato nel Settecento alla ricostruzione del palazzo reale di Madrid. Grande pagina di storia dell’arte ticinese esportata all’estero quindi, che dura finché dura: «Cioè a lungo, ma da metà Ottocento va esaurendosi perché nascono le grandi scuole tecniche. Nasce, cioè, il politecnico che non è più la scuola del mestiere, come ai tempi dei magistri, ma la scuola della professione scientifica insegnata in tutti i Paesi d’Europa. In Svizzera, per dire, il Politecnico è opera fransciniana e nasce a Zurigo alla metà dell’Ottocento. In Italia, a Milano, nascerà poco dopo. Sotto la spinta di queste alte scuole tecniche e delle accademie artistiche si spegne la tradizione dei magistri». Ma questa è musica lontana per gli Albertolli protagonisti del volume presentato.

Il clan
Stiamo parlando di una famiglia di magistri di cui abbiamo notizie a partire dall’inizio del Settecento. Sono dapprima attivi in Val d’Aosta, perché «il regno sabaudo era uno dei poli di attrazione per questi ticinesi. Qui c’era una committenza non necessariamente di alta specializzazione. Infatti i primi Albertolli di cui abbiamo notizia sono attivi come agrimensori, cioè misuratori di terreno (nel volume c’è un saggio su questo particolare aspetto). Poi arrivano i costruttori di strade, di ponti, gli impresari costruttori, ma anche i restauratori di chiese. Se, per esempio, crollava un tetto chiamavano loro”»

Il più famoso

Statua di Giocondo Albertolli, conservata all’Accademia di Brera a Milano.
Statua di Giocondo Albertolli, conservata all’Accademia di Brera a Milano.


Una realtà che dura fino alla metà del Settecento, quando uno di loro, nato a Bedano – Giocondo Albertolli, l’esponente più illustre della famiglia – viene mandato dal padre da un suo fratello (quindi suo zio) che stava a Parma. «Lì, osserva Agliati, c’era una delle prime accademie di belle arti. Tutto nasce dal desiderio di formare il figlio in un ambito scolastico e non solo di farlo crescere alla scuola del mestiere. Erano ragazzi che imparavano con l’apprendistato. C’erano anche dei contratti veri e propri di apprendistato, cominciavano col secchiello in mano e piano piano, quelli più capaci, gradino dopo gradino facevano tutta la carriera fino a diventare magari dei celebrati architetti».

Col Piermarini

La Galleria decorata a stucco da Giocondo Albertolli del Palazzo Belgiojoso a Milano, 1777-82.
La Galleria decorata a stucco da Giocondo Albertolli del Palazzo Belgiojoso a Milano, 1777-82.

Con la nascita delle prime accademie le cose cambiano e, appunto, Giocondo viene inviato giovanissimo (aveva meno di dodici anni) dallo zio che faceva il marmorino e si era formato alla cava di Arzo, il cui marmo girava in tutta Europa. «Frequenta l’accademia e si capisce subito che è portato soprattutto nell’ambito della decorazione a stucco, una delle arti più di moda nel Settecento e fino ad Ottocento inoltrato. A Parma realizza i primi progetti. Poi va a Firenze, nel Gran Ducato, dove riceve delle commissioni molto importanti da parte del Gran Duca di Toscana: per intenderci, a palazzo Pitti e agli Uffizi che non erano ancora museo». Sua, per dire, la decorazione della galleria della Niobe con l’aiuto del fratello Grato, il suo collaboratore più stretto. Nella seconda stagione settecentesca, quella in cui nasce il grande Albertolli, viene poi chiamato da Giuseppe Piermarini (1734 –1808), l’architetto di riferimento del neoclassicismo lombardo, l’uomo che ha costruito la Scala di Milano.

La Sala della Niobe, nella Galleria degli Uffizi a Firenze, decorata a stucco da Giocondo Albertolli e aiuti nel 1778-79.
La Sala della Niobe, nella Galleria degli Uffizi a Firenze, decorata a stucco da Giocondo Albertolli e aiuti nel 1778-79.
Particolare del timpano del Teatro alla Scala di Milano, ideato dall’Albertolli.
Particolare del timpano del Teatro alla Scala di Milano, ideato dall’Albertolli.

E il timpano della facciata della Scala è ideato proprio dall’Albertolli. «Sì, negli anni Settanta del Settecento Piermarini chiama a Milano Giocondo per decorare gli interni dei palazzi che stava costruendo. Stiamo parlando del palazzo reale, che all’epoca si chiamava ancora palazzo di corte. Abbiamo una vecchia foto della sala delle cariatidi che è stata poi bombardata nella seconda guerra mondiale e oggi non c’è più, a palazzo reale, opera dell’Albertolli. Poi c’è la villa reale di Monza, residenza estiva dell’imperatore d’Austria e i grandi palazzi dell’aristocrazia, che si visitano ancora oggi e di cui all’Archivio conserviamo dei disegni. Pensiamo pure a palazzo Belgioioso a Milano, una delle opere più belle e importanti del Piermarini, con decorazioni di Giocondo Albertolli. O a palazzo Greppi». Da citare anche alcuni suoi monumenti, come quello dedicato a Napoleone a Lodi.

Brera

Incisione raffigurante un’aquila presa “dal naturale”, contenuta nell’album “Miscellanea per i giovani studiosi del disegno”, 1796.
Incisione raffigurante un’aquila presa “dal naturale”, contenuta nell’album “Miscellanea per i giovani studiosi del disegno”, 1796.

L’ultima fase è quella che lo consegna alla celebrità. Nel 1776 nasce l’Accademia di belle arti di Brera per volontà dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria. «Uno dei suoi principali fondatori, commenta Agliati, è appunto Giocondo Albertolli che, dal primo giorno, diventa professore titolare della scuola d’ornato». Da lì si avvia un periodo eccezionale per la storia dell’arte italiana perché Albertolli influenza il gusto di parecchie generazioni di artisti che vengono formate alla sua scuola. È famoso anche per i suoi repertori, album di incisioni, manuali che non verranno usati solo a Brera ma in tutta Europa. «È pure incisore, anche se poi si fa aiutare dai figli che ne seguono le orme, in particolare da Raffaele, o da altri parenti come il genero Ferdinando, suo successore alla scuola d’ornato a Brera». Fatto sta che il «metodo Albertolli» fa scuola. «Consisteva nell’insegnare l’arte dell’ornato passo dopo passo, dal disegno più elementare di un fiore stilizzato alle forme più difficili e complesse, come il famoso capitello albertolliano di derivazione classica che gli allievi dovevano saper riprodurre». Sotto la prima illustrazione di uno dei manuali leggiamo: «Giovinetto, se vuoi apprendere il disegno non passare alla seconda lezione se non quando saprai disegnare la prima». Molti altri si sono ispirati ai suoi manuali ripubblicandoli. «Non a caso è stato definito il restauratore del buon gusto in Italia perché, dopo l’epoca barocca, riavvicina l’arte verso il gusto degli antichi. Siamo in piena epoca neoclassica di riscoperta dei greci e dei romani».

Villa Melzi

Veduta della Villa Melzi sul lago di Como, a Bellagio, progettata da Giocondo Albertolli, in un’incisione del primo Ottocento (Londra, The British Library)
Veduta della Villa Melzi sul lago di Como, a Bellagio, progettata da Giocondo Albertolli, in un’incisione del primo Ottocento (Londra, The British Library)

Insomma, Piermarini fa la sua parte come architetto ma Albertolli (anch’egli architetto) è noto soprattutto come decoratore e designer ante litteram. Un architetto degli interni. «Nelle residenze che decorava lui disegnava anche i mobili, i camini, gli arredi, le lampade... Una delle sue opere pi importanti, come architetto e come architetto d’interni è la famosa villa Melzi a Bellagio, tra le più belle sul lago di Como. Il committente è il duca Francesco Melzi, uno dei maggiorenti della politica napoleonica tra fine Settecento e inizio Ottocento in Lombardia. Albertolli riesce a entrare nelle sue grazie quando è già un professore dell’Accademia in pensione. Melzi gli affida nel 1811 l’edificazione di questa grande villa sul lago».

Il Ticino

La Palazzina Albertolli in piazza San Rocco a Lugano. (Foto Archivio CdT).
La Palazzina Albertolli in piazza San Rocco a Lugano. (Foto Archivio CdT).

E in Ticino? Albertolli ha sempre tenuto relazioni molto strette con la patria, anche se, da quando è partito, non ci ha mai vissuto in modo stabile. «Di tanto in tanto tornava, come attestano alcune testimonianze. Parte della famiglia risiedeva ancora a Bedano, dove ha lasciato la sua casa, che fa costruire via lettera. Lui era in relazione con un capomastro del luogo, un certo Fraschina di Gravesano, gli mandava il progetto della casa e le indicazioni (tutti materiali custoditi nell’Archivio di Stato). L’aveva concepita come casa di campagna dove veniva nei periodi di villeggiatura. La villa esiste ancora oggi ed è tutt’ora abitata».

Poi, in piazza san Rocco a Lugano, c’è un suo palazzo che un tempo ha ospitato la Banca nazionale, diventata Banca Finter a cui subentra la Banca Notenstein e oggi è vuoto. «L’edificio con un bel giardino, di stile neoclassico, è noto come palazzina Albertolli. Non c’è certezza che l’abbia progettata lui. Se non fu lui è stato il fratello, visto che il proprietario era Grato. Probabilmente c’è stata una sorta di coproduzione tra i fratelli». In Ticino l’Albertolli era molto apprezzato. Gli chiedevano consigli per la scuola di disegno, per determinate perizie, ad esempio nei lavori di restauro della cattedrale. «La balaustra sul sagrato di San Lorenzo è proprio di Giocondo Albertolli che fa una perizia sulle due statue che si vedono entrando nel sagrato della cattedrale».

Il «viaggio di pietra»

La chiesa di San Lucio a Brugherio e la lapide che ricorda il suo trasferimento da Lugano in Brianza.
La chiesa di San Lucio a Brugherio e la lapide che ricorda il suo trasferimento da Lugano in Brianza.

Concludiamo con un aneddoto. Siamo in epoca napoleonica e i conventi vengono sistematicamente soppressi, anche in Ticino. Nell’area dove sorge palazzo Albertolli c’era il complesso architettonico di San Francesco, un convento con chiesa e aggregata una cappella di sant’Antonio da Padova attribuita al Bramante. «Gli Albertolli, ricorda Agliati, acquistano il sedime dallo Stato che sta incamerando i beni ecclesiastici e poi li rivende ai privati (come è successo decenni dopo coi fratelli Ciani col Palace che era un convento legato alla chiesa). Agli Albertolli, tuttavia, dispiace abbattere la chiesetta e allora cosa fanno? La smontano sasso per sasso (esiste anche una memoria scritta di Giocondo, poi stampata e pubblicata: Cenni storici sopra una cappella antica ricostruita in oratorio a Moncucco), la trasportano nel giardino della villa di un aristocratico a Moncucco di Brugherio e nel 1815 la ricostruiscono. L’Albertolli ci mette comunque del suo aggiungendo modifiche di suo gusto. La chiesetta prende il nome di cappella di San Lucio papa. Si tratta di uno dei primi esempi di ricostruzione di edifici altrove, tipo Ballenberg ante litteram, per intenderci”».