«I mesi di solitudine sono stati duri quanto la malattia»

Rina, 93 anni, sembrava più preoccupata per il personale di cura che per se stessa. «Hanno fatto di tutto per aiutarci, fisicamente e psicologicamente, ben sapendo che rischiavano di prendere la malattia e di portarla a casa, tra la loro famiglia». Rina è uno degli ospiti della casa anziani Parco San Rocco che ha accettato di incontrarci. In un locale protetto, tenendo le distanze e con mascherina e grembiule, volevamo capire come stanno vivendo queste settimane d’incertezza, con il virus che ha ripreso vigore ed è tornato a mietere vittime. Abbiamo parlato con Rina, con Virginia (87 anni) e con Giovanni (85).


Con John Gaffuri e Matteo Orefice, rispettivamente direttore e responsabile riabilitazione e attivazione della struttura, volevamo approfondire uno dei temi più importanti del momento. È chiara a tutti la necessità di tenere lontano il virus dalle case anziani. Ma a che prezzo? Sigillandole come in primavera (con il virus che, purtroppo, è entrato lo stesso)? Impedendo di nuovo, per mesi, le visite dei parenti? Un dilemma anche etico. Prediligere la qualità di vita o la quantità di vita? E i tre anziani che abbiamo incontrato sanno di cosa parlano. Quel periodo l’hanno vissuto. E due di loro la COVID se la sono presa. Ma Virginia sembra non avere dubbi. « La cosa più dura - ci spiega - è stata non poter vedere i miei cari. Non poter neppure salutarli. E non sapevo se sarei mai uscita dal reparto (la sezione in cui erano stati raggruppati i malati, ndr).


«Le mie figlie - ci spiega invece Rina - abitano lontane e non le vedo spesso, ed è stato brutto non sapere se la prossima volta avrei potuto incontrarle. E se io sarei ancora stata qui». Rina e Virginia hanno preso il virus. «Il primo aprile - racconta Rina - ho fatto il tampone ed era positivo. Non avevo febbre, perché non l’ho mai fatta in vita mia, ma avevo una tosse fortissima, che ogni volta che tossivo mi si sentiva da fuori dalla stanza. Una cosa che non auguro a nessuno». Poi gli elogi al personale. Tanti elogi. «Non so come hanno fatto. Sono stati i nostri angeli. Sapevo che potevo morire, ma hanno continuato a ripetermi che sarebbe andato tutto bene. Per non farci stare ancora più male hanno in un certo modo sminuito la malattia, e questo mi ha aiutato». Ma non è stato facile. «Per esempio - racconta Rina - sapevo che anche la Maria l’aveva presa. Ho chiesto come era la sua situazione e mi hanno spiegato che stava meglio. Che si stava riprendendo. Ho saputo solo dopo, quando io stavo meglio, che era già morta».


Rina si è ripresa, e lo stesso vale per Virginia. «Una mattina mi sono svegliata e la febbre non c’era più. Ora non so neanche se posso rifarla oppure se sono protetta». Una domanda da un milione a cui gli scienziati stanno tentando di rispondere. Giovanni (Campi) è stato più fortunato. Lui la COVID l’ha evitata. Ma come ha vissuto la prima ondata? E come vive l’oggi? Ha paura? «Nella mia vita sono sempre stato piuttosto fatalista. Ma sono anche un ottimista. Spero di non prenderla, ma godo di buona salute e questo è l’importante». E cosa dire del periodo di isolamento, in cui le case anziani sono rimaste chiuse? «Il personale si è dato molto da fare. Io però sono vedovo e non ho figli, dunque il fatto di non poter ricevere visite l’ho notato meno di altri».
«La notizia al telefono»
Particolarmente toccante è il racconto di Virginia. «È arrivata la febbre e la sera era già molto alta. Ho pensato che sarei morta, anche perché ne parlavamo tutti. In televisione e sui giornali non si parlava d’altro. E poi c’era il distacco dalla propria famiglia. Ho dovuto dare loro la notizia al telefono, e per me era chiaro che non ce l’avrei fatta. Ho avuto bisogno di ossigeno, della flebo. Poi, appunto, un giorno la febbre non c’era più».
«Non volevo andarmene»
E poi c’è Rina, che non voleva lasciare il reparto COVID. «Quando mi hanno detto che presto me ne sarei potuta andare ho detto che volevo restare. Mi spiaceva». In quel reparto evidentemente i malati hanno vissuto qualcosa di speciale. Un legame - tra pazienti, ma anche con gli operatori - unico. Fortissimo. Tanto da essere quasi dispiaciuti dal dover lasciare il reparto sulle proprie gambe. «Mi lasci ancora dire - spiega Rina - che sono anche stata fortunata. Io in casa anziani sono entrata in gennaio. Fossi rimasta a casa mia oggi non ci sarei più».
Le visite: un dilemma etico, una scelta di equilibrio
In marzo e aprile la risposta della società è stata categorica: gli anziani, categorie a rischio, andavano protetti. Il virus doveva stare fuori. Per molti addetti ai lavori però questa non è più una soluzione praticabile, anche perché la seconda ondata potrebbe durare più della prima. Non si può, in parole povere, sottrarre i residenti alle loro relazioni sociali e ai contatti con i propri cari. «Si tratta di costruire attraverso un dialogo con i residenti, i familiari e le istituzioni un equilibrio tra riduzione del rischio sanitario e una partecipata vita sociale», conferma il direttore John Gaffuri. «Garantire sicurezza sanitaria e allo stesso tempo anche qualità di vita». Certo, le case anziani - vedasi articolo a lato - stanno facendo di tutto per rendere gradevole il soggiorno ai propri residenti, ma si è di fronte a un dilemma etico. Qualità di vita o quantità di vita? Spesso i parenti sembrano propendere per la sicurezza. Anche perché c’è un altro aspetto: il senso di colpa. Nessuno vuole convivere con la consapevolezza di aver contagiato il proprio padre o la propria madre. «Il coinvolgimento attivo degli anziani nelle scelte di vita - afferma il direttore - soprattutto in una situazione straordinaria come la pandemia è l’elemento cardine di ogni atto di cura. Va da sé che la scelta del singolo non debba andare a scapito della collettività. Importante in questa fase, che perdurerà per diversi mesi, creare attraverso un dialogo costruttivo una convivenza che tenga conto di elementi apparentemente contrastanti quali la qualità e la quantità di vita».