L’intervista

«I poveri, la ricchezza della Chiesa e il mio affetto per don Chiappini»

In vista della Pasqua abbiamo intervistato il Vescovo della Diocesi di Lugano, monsignor Valerio Lazzeri affrontando molti temi di stretta attualità - Domani sera alle 19 a La domenica del Corriere su Teleticino
Monsignor Valerio Lazzeri sarà ospite di Gianni Righinetti a La domenica del Corriere, dalle 19 su Teleticino. ©CdT/Chiara Zocchetti
Gianni Righinetti
03.04.2021 06:00

Monsignor Lazzeri, partiamo da un fenomeno che, causa coronavirus, sembra essere sempre più un problema anche in Ticino. La povertà. Ma cos’è per lei la povertà?

«La povertà è innanzitutto un fenomeno materiale, qualcosa che manca e rende difficile arrivare alla fine del mese: è la scarsezza delle risorse a disposizione. Ma povertà è anche il rapporto che si ha con tutto questo, quando la mancanza di mezzi diventa fonte di frustrazione per la persona, che non ha più strumenti a sufficienza per esprimere quello che è. Proprio per questo intervenire per aiutare diventa urgente e, insieme, delicato».

La ricchezza della Chiesa è come l’Araba Fenice: che ci sia tutti lo dicono, ma dove sia nessuno lo sa

Spesso si sente dire che per la Chiesa è fin troppo facile parlare di povertà dal suo pulpito e questo alla luce dei beni che possiede. Insomma la Chiesa è ricca e vuole parlare ai poveri?

«La ricchezza della Chiesa è un po’ come l’Araba Fenice: che ci sia tutti lo dicono, ma dove sia nessuno lo sa... È vero che la Chiesa ha mezzi e risorse a disposizione, soprattutto dei poveri. In certi casi direttamente, in altri indirettamente. La Chiesa ha evidentemente necessità di avere dei mezzi per mantenere delle strutture al servizio dei poveri. Chiaramente ci vuole una vigilanza molto grande affinché questo possa accadere realmente».

Diamo una dimensione concreta. In che senso «beni al servizio dei poveri»?

«Anche la bellezza di una Chiesa e di uno spazio liturgico rappresenta un luogo d’accoglienza, dove pensare alla vita in altri termini, e in questo senso viene offerto. Io credo che anche questa sia una possibilità che poi si manifesta grazie al lavoro di chi aiuta, come gruppi e associazioni».

Quindi una bellezza spirituale, ma che si fa fatica a immaginare come materialmente d’aiuto ai poveri. O sbaglio?

«Quello che a me preme fare capire è che nell’ambito della vita cristiana si sviluppa una sensibilità che porta moltissime persone a prendere iniziative per intercettare la povertà concreta di tutti i giorni. In alcune parrocchie ci sono proposte per la raccolta alimentare da distribuire a chi ha più difficoltà. Non ci fosse dietro questa famiglia che prende a cuore le persone e che è animata dal desiderio di prestare attenzione anche alla povertà nascosta, a beneficio di chi non ha coraggio di farsi avanti, mancherebbe a molti una preziosa mano tesa».

Restiamo nella dimensione concreta e le chiedo cosa fa la Chiesa per alleviare le sofferenze e le difficoltà di chi non ce la fa?

«Credo si possa dire che c’è una linfa nel tessuto ecclesiale che nutre una sensibilità che non può mai dirsi sviluppata del tutto e in senso ideale, ma può sempre essere favorita e promossa: penso alla sensibilità che si è sviluppata in molte persone, anche in questo anno di pandemia. Sono state tante le iniziative, la fantasia e la creatività per intervenire in una situazione che ci ha colti tutti di sorpresa».

Parliamo un po’ ai fedeli, il vero fedele è colui che va a messa ogni domenica o riconosce anche un altro modo per essere un buon cattolico?

«Rispondo con una battuta. Come vedremmo un buongustaio che si accontentasse di un panino da mangiare in solitudine? Si farebbe fatica a presentarlo come un buongustaio. È chiaro che andare a messa ogni domenica non basta per dirsi un buon cristiano, un buon cattolico. D’altra parte, è auspicabile che chiunque possa arrivare a nutrirsi della realtà del trovarsi assieme, praticando una continuità della relazione con il Signore, che permetta di vivere concretamente la propria fede, e non solo come un’idea un po’ vaga. Il frutto maturo di chi viva la Chiesa dovrebbe essere un’umanità piena».

Chi crede, ma non prega e non va in Chiesa che genere di cattolico è dal suo punto di vista?

«Credere è già una ricchezza straordinaria! In un mondo come il nostro la fede è una realtà comunque preziosa. C’è da augurarsi che questo slancio interiore possa essere portato fino a giungere alla sua pienezza di espressione: pregare e partecipare all’eucaristia non sono prima di tutto dei doveri. Sono esigenze profonde e, più ancora, dei doni».

Vedere chiese vuote non fa piacere. A me preme soprattutto che vi siano delle realtà vive che attirano

È stato un anno difficile anche per i cattolici praticanti, le Chiese da mesi sono ormai semideserte per effetto delle limitazioni imposte dalla pandemia. Quando tutto sarà finito crede che i fedeli torneranno in massa o, alla fine, c’è chi manterrà un po’ di diffidenza nell’avere incontri ravvicinati e avremo Chiese più vuote?

«Trovo prematuro dire cosa succederà quando avremo superato questo momento difficile e come le persone reagiranno. Da una parte c’è un grande bisogno di celebrare e di trovarci assieme, che è sempre una festa. Penso che dovremo prepararci a vivere una situazione nuova, tutta da esplorare. Vedere le Chiese vuote non fa piacere a nessuno. A me, però, preme soprattutto che vi siano delle realtà vive che attirano: la Chiesa ha bisogno di presentarsi come possibilità di vita piena. Dovrebbe proporsi come testimonianza che attrae le persone che si interrogano sul senso del loro essere al mondo. Non è necessario che essa arrivi a promuovere le grandi adunate».

Da settimane si parla del certificato vaccinale come mezzo per tornare a viaggiare e per partecipare eventualmente ad eventi pubblici (il confine tra pubblico e privato non è ancora ben delineato). Ma lei sarebbe favorevole al passaporto per accedere ai luoghi di culto o la vede come un’assurdità?

«Spero non si debba arrivare a questo e che le vaccinazioni siano sufficientemente estese da non dover portare a tale genere di cose. Oggi è prematuro pensare a questo provvedimento, le vaccinazioni sono ancora in progressione. Il fatto di aver dato la libertà se vaccinarsi o no non credo possa poi portare a imporre alle persone dei passaporti o delle limitazioni. Sarebbe una contraddizione».

A proposito del vaccino se le chiedessi un parere lei ne sollecita la somministrazione e la diffusione oppure è un po’ scettico?

«Io sono molto favorevole, credo che sia la prospettiva per sentirci poi più liberi. Quando sarà il mio turno non esiterò a farmi vaccinare. E a chi mi chiede un parere faccio presente che è importante per sé stessi, per gli altri e per la qualità di vita».

Da un anno viviamo di scienza, tra dati e indicazioni di medici e virologi. La Chiesa, che predica la fede, come si pone di fronte a un anno tanto imperniato sulla scienza?

«La Chiesa non deve avere paura della scienza. Essa guarda con ammirazione e riconoscenza al lavoro degli scienziati impegnati nel comprendere la realtà e nel cercare i rimedi a malattie e ad altre disfunzioni. Chiaramente, se la scienza diventasse scientismo, questo sarebbe un problema. Credo che le persone hanno risorse nel profondo del cuore e comprendono se si stanno lasciando imprigionare da una dittatura scientifica o se gli scienziati stanno fornendo davvero degli strumenti validi per favorire la libertà e la convivenza civile, come pure lo scambio e il dialogo».

Lasciamo da parte un momento la pandemia e torniamo al 7 dicembre del 2013, giorno in cui è stato ordinato Vescovo della Diocesi di Lugano. Quale il suo primo bilancio?

«Più che un bilancio, posso vedere il cantiere aperto con elementi che si stanno muovendo e che danno fiducia per il futuro. Siamo in una fase nella quale la Chiesa nella società sta cambiando di posizione, al punto che c’è un confronto su temi antropologici molto profondi, anche di tipo etico. Chiaramente è un lavoro in corso».

Quanto è cambiato lei negli anni?

«Forse dovrebbero dirlo gli altri, non il sottoscritto. Sono passato da docente di teologia e prete senza un vero e proprio compito di governo, alla posizione del Vescovo, che ha tante persone, tante situazioni e tante realtà da gestire. Per me questo è stato il cambiamento più grande».

Parliamo del suo rapporto con i parroci attivi in Ticino. Sono molti coloro che bussano alla sua porta?

«I contatti con i preti sono regolari. La pandemia ovviamente ci ha un po’ bloccati. Ma abbiamo tenuto vivo il rapporto in diverse maniere».

Ci sono più preti silenziosi o sono in maggioranza coloro che bussano alla sua porta?

«Sono numerosi coloro che si presentano e mi parlano con grande sincerità e apertura delle loro situazioni e del loro vissuto personale, confidandosi. In questi casi, ho anche più direttamente la possibilità di crescere con loro nella ricerca delle risposte più adeguate alle varie sfide che si pongono. È sempre una grande gioia quando un Prete si presenta da me e possiamo parlare in maniera aperta e sincera».

Senza entrare nei dettagli, quali sono gli interrogativi più pressanti che le vengono sottoposti?

«Le difficoltà sono di diverso tipo. In questa situazione di pandemia, che ha limitato l’attività, c’è chi ha manifestato un sentimento di inutilità nel non potere fare ciò che avevamo sempre fatto. Io cerco di trovare con loro uno slancio nuovo. Poi c’è la vita della Parrocchia, i Consigli parrocchiali, realtà che pongono sempre nuovi interrogativi, anche molto concreti».

La pandemia è anche sinonimo di crisi interiore. E i parroci non crediamo siamo immuni.

«Certo, come per tutte le persone, le crisi non mancano. Da una crisi, però, nasce anche l’opportunità di andare più in profondità nelle motivazioni alla base della propria vocazione. Questo scambio, che in questi tempi è avvenuto anche per via telematica, ha fatto bene a tutti e lo ritengo importante».

Il parroco un tempo nel paese era un’istituzione, oggi sappiamo che tutti vivono diversamente il Comune, talvolta come dormitorio e lo scambio viene a cadere. Il parroco come fa a coinvolgere chi non vuole essere coinvolto?

«Chi non vuole essere coinvolto non è certo obbligato a farsi coinvolgere. Al Parroco spetta di coltivare in sé quella parola di speranza che, in un modo o nell’altro, arriva sempre al cuore di chi la sta cercando».

Veniamo a un tema che concerne ad ampio respiro la Chiesa, il riconoscimento o meno di chi vive diversamente la sua intimità e la sua sessualità. Penso ad esempio il recente no alla benedizione delle coppie omossessuali. Papa Francesco si è detto d’accordo con questa decisione della Congregazione per la dottrina della fede. È d’accordo anche lei o una maggiore apertura non avrebbe danneggiato nessuno?

«Ho parlato di cortocircuito comunicativo. Si è identificata la sollecitudine e l’accoglienza per le coppie dello stesso sesso con la benedizione, da dare o non dare loro. La questione è molto più ampia: non ci si può irrigidire sull’aspetto liturgico-rituale. Come Chiesa cattolica, riconosciamo le nozze tra l’uomo e la donna in vista della generazione della vita. Questo è per noi un sacramento. Le altre espressioni affettive non vengono benedette in tal senso, per non farle passare come un matrimonio. Ci sono, però, altre modalità, di preghiera, di amicizia e di accompagnamento, altre vie per essere loro vicini».

Il messaggio è «non insistete perché da qui la chiesa non si smuove»?

«Non possiamo inventare un sacramento, diverso da quello che abbiamo ricevuto e che è affidato alla nostra responsabilità. Il che non significa certo pensare che le altre forme di unione tra persone siano automaticamente sotto il segno della maledizione».

Don Chiappini? È emersa l’esperienza di chi è stato confrontato con l’impensabile e con momenti drammatici

In questa intervista non può mancare un cenno al caso di don Azzolino Chiappini reso ulteriormente di dominio pubblico dopo il decreto d’abbandono alla luce della sua intervista-testimonianza per il fermo di polizia e il trasferimento in carcere. Nella personale scelta di raccontare la sua versione dei fatti ha dato alla questione una dimensione più ampia che coinvolge in qualche modo anche la Chiesa?

«A me pare soprattutto che sia emersa la sua esperienza di uomo che ha attraversato un momento particolarmente difficile, è stato confrontato con l’impensabile, ha vissuto momenti, direi, drammatici e, in questo senso, la sua testimonianza non ha parlato della Chiesa in generale, ma del suo personale vissuto e, come tale, deve essere accolto».

A chi le rimprovera di non essersi espresso fino ad aggi sul caso appena emerso e pure una volta terminato l’iter giudiziario, cosa si sente di dire?

«Sulle situazioni che non si conoscono le persone si sentono in genere più libere di parlare e anche di sentenziare in un senso o nell’altro. Quando, invece, si conoscono le persone e si hanno a cuore le situazioni specifiche, quando si sa la delicatezza del vissuto personale di qualcuno, magari si tende a essere più cauti. Io non ho parlato all’inizio perché di fronte all’enormità e all’inverosimiglianza di queste accuse, se avessi detto qualcosa, sarebbe come se avessi voluto bloccare o condizionare lo svolgimento delle indagini. Una volta che queste si sono concluse, tutto si è sciolto come neve al sole. A quel punto, credo che le cose parlassero da sé. D’altra parte, io non ho mai mancato di manifestare personalmente a don Azzolino la mia vicinanza, la mia amicizia, il mio affetto, ma anche la mia grande riconoscenza e stima per il suo lavoro e la sua persona. L’avevo fatto anche prima, parlando con lui di alcune sue difficoltà, l’ho fatto durante e lo sto facendo anche adesso. Lo ripeto: chi non conosce persone e situazioni può permettersi di fare dichiarazioni altisonanti. Chi invece le conosce, le conosce bene, e vuole il vero bene delle persone coinvolte, talvolta esita un po’ a dire parole che, seppur ben intenzionate, rischierebbero di essere controproducenti».

Don Chiappini ha fatto bene a raccontare con tanto trasporto emotivo quella situazione che prima di lui hanno vissuto altre persone?

«Credo sia stato un bisogno che lui ha sentito e lo ha fatto con sincerità e pacatezza, senza puntare il dito contro nessuno».

La vicenda, è innegabile, ha riproposto la questione della sfera affettiva e intima dei prelati. Nel 2021 questo deve diventare un tema di dibattito o trova che la questione sia già chiarita e nota a tutti coloro che «sposano» la Chiesa?

«Il discorso affettivo non può mai essere chiuso, né per un Prete, né per qualsiasi altra persona. L’affettività e la sessualità hanno una dimensione così profonda che non possono mai definirsi discorsi risolutivamente sciolti solo perché ci si è messo sopra il sacramento dell’ordine. Credo che il nostro lavoro e il nostro sforzo, anche nella formazione, sia proprio quello di integrare il più possibile tutte le dimensioni dell’umano, in maniera che convergano a dire con credibilità e autenticità il Vangelo di Gesù Cristo».