Dazi USA

I timori degli imprenditori ticinesi: «Il nodo sono le concessioni»

Prevale la cautela all’indomani delle notizie riguardanti una possibile riduzione delle tariffe doganali tra Berna e Washington - Fabio Regazzi: «I compromessi non devono danneggiare il tessuto industriale svizzero» - Nicola Tettamanti: «Il 15% sarà globale come per l’UE? Oppure toccherà unicamente i settori oggi colpiti dai dazi al 39%?»
Francesco Pellegrinelli
12.11.2025 06:00

«Questa volta come andrà a finire?». Domanda legittima. Con i dazi di Trump ci siamo già scottati. Il presidente di Swissmechanic Nicola Tettamanti, però, vuole restare positivo. «Apparentemente riusciremo ad allinearci ai dazi europei». Ossigeno per l’economia elvetica. Eppure, come dimenticare l’esito delle prime trattative? Ad aprile sembrava cosa fatta. «I media oggi dicono che siamo vicini a una nuova intesa. Tempo due settimane. Benissimo. L’ultima volta però abbiamo vissuto una situazione molto simile. Alla notizia di un possibile accordo abbiamo iniziato tutti a sperare. Poi, è passata una settimana, due, tre, fino al 31 luglio, quando la nostra presidente è dovuta intervenire personalmente, sollecitando Trump al telefono». L’esito – amaro, anzi amarissimo – lo conosciamo tutti. Come andrà a finire questa volta? Domanda lecita, si diceva. La questione, però, secondo Tettamanti è un’altra: «Speriamo che il Consiglio federale valuti rapidamente la proposta, e che le discussioni interne non compromettano l’apertura al dialogo che si è creata con la delegazione di imprenditori privati». Allo stesso tempo, però, occhio a quello che si firma. Ancora Tettamanti: «È indubbiamente positivo che i dazi diminuiscano. Sarebbe ancora meglio se l’accordo venisse firmato entro la fine dell’anno. Porterebbe qualche schiarita sui progetti che sono stati sospesi dopo l’entrata in vigore delle tariffe doganali USA».

Sì al nuovo accordo, dunque, «a patto però che le concessioni siano commisurate all’economia svizzera», sottolinea Tettamanti. Una conclusione cui giunge anche il presidente dell’Unione svizzera delle arti e mestieri (USAM), Fabio Regazzi: «L’intesa è stata favorita da un’iniziativa privata che ha scavalcato la politica per trovare una soluzione nell’interesse di tutto il Paese». È un punto interessante, che secondo Regazzi merita di essere sottolineato. «Tuttavia, le concessioni fatte da queste aziende durante l’incontro nello Studio Ovale sollevano, quantomeno, alcuni interrogativi». Come dire: gli investimenti promessi, così come le ipotesi di delocalizzazione evocate nelle trattative non possono essere guardate con leggerezza. «Questo è l’aspetto che mi disturba di più, anche se qualche concessione era inevitabile farla», osserva il senatore. Il quale rincara: «Non è ancora chiaro quale sia davvero la posta in gioco: se si tratti di una possibile delocalizzazione di realtà industriali - si è parlato in particolare della filiera dell’oro - o di nuovi investimenti sul territorio americano». Ad ogni modo, «sarebbe un peccato perdere risorse, know-how e posti di lavoro che potevano restare in Svizzera», chiosa Regazzi. Il quale tuttavia saluta positivamente un eventuale accordo al 15% con gli Stati Uniti: «Riporterebbe la nostra economia in una posizione di concorrenza, in particolare rispetto all’Unione europea, nostro rivale diretto». Considerando la forza del franco, che penalizza ulteriormente l’export svizzero, e l’elevato costo del lavoro, un’eventuale riduzione dei dazi risulta quindi fondamentale. «Sebbene l’impatto vari a seconda del settore, i dazi al 39% colpiscono l’intera economia svizzera, inclusa la vasta catena di PMI che fungono da sub-fornitori».

A quale prezzo?

Riassumendo: bene l’accordo sui dazi, ma a quale prezzo? Che poi equivale a dire: la Svizzera deve prendere quello che passa il convento? Oppure può fare a meno di un accordo vantaggioso con gli USA? «È esattamente questa la questione», spiega ancora Tettamanti. «Rimanendo sul caso dell’oro, sarà fondamentale – soprattutto per il Ticino, vista l’importanza della filiera nel nostro cantone – che si riesca a mantenere ciò che è stato creato sul nostro territorio e che non si vada a delocalizzare». I segnali al riguardo sono cautamente positivi, aggiunge Tettamanti: «Come già avvenuto con il settore farmaceutico, credo piuttosto che l’intesa si limiti a promuovere investimenti, integrando gli Stati Uniti nella catena del valore». Nessuna modifica radicale della catena produttiva, quindi. Ciò che porta a una valutazione supplementare: «Osservando chi è stato ricevuto alla Casa Bianca, si capisce che l’accordo punta a ridurre i dazi per i comparti già colpiti, evitando al tempo stesso che vengano estesi ad altri, come quello dell’oro e del Pharma», commenta ancora Tettamanti. Che aggiunge: «Dobbiamo accettare l’idea che il settore più penalizzato finora, quello industriale, dei macchinari, degli strumenti di precisione e dell’orologeria, non possa ottenere concessioni supplementari. Anche perché ci sono altri ambiti strategici per gli Stati Uniti, oggi esenti da dazi, che vogliono evidentemente proteggere da eventuali misure future. Quindi va benissimo il 15%».

Occhio al Pharma

Insomma, il vero problema secondo Tettamanti sarebbe un altro, ossia se di colpo il 15% andrebbe a impattare su tutto l’export svizzero, compresi quei settori come il Pharma e l’oro oggi esclusi: «Il 15% di cui si sta parlando in queste ore sarà globale come per l’UE? Oppure toccherà unicamente i settori oggi colpiti dai dazi al 39%?». Lo scenario ideale, prosegue Tettamanti, sarebbe chiaramente il secondo. «Un’eventuale estensione dei dazi al 15% anche a un settore strategico come quello farmaceutico, oggi esentato, metterebbe l’economia elvetica di fronte a un problema strutturale». Si passi la semplificazione seguente: il 39% su poco è meglio che il 15% su tutto. E forse, l’assenza di un rappresentante del Pharma nella delegazione di privati che ha incontrato Trump va letta proprio in questo senso: «Il settore farmaceutico gioca in un campionato a parte: la sua partita, del resto, l’ha già disputata nei mesi scorsi, annunciando investimenti miliardari negli Stati Uniti. Questo giro toccava all’oro». Senza contare, conclude Regazzi, «che al momento non conosciamo ancora nel dettaglio tutte le concessioni e i temi affrontati nel vertice con Trump. Anche se, in ultima analisi, spetterà alla politica - e solo alla politica - prendere impegni e avallare le scelte strategiche per il nostro Paese».

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