Giustizia

Il grande passo di Fiorenza Bergomi

La procuratrice, colonna portante del Ministero pubblico, si prepara a diventare giudice del Tribunale penale federale. Da adolescente prendeva il motorino e andava a Mendrisio ad assistere ai processi - Un mestiere che ha nel sangue
(foto Reguzzi)
Paolo Gianinazzi
03.05.2019 06:00

Fiorenza Bergomi è una colonna del Ministero pubblico. Per lei il (lungo) percorso iniziato nel 2001 tra i corridoi di Palazzo di Giustizia di Lugano sta però per terminare. In luglio farà «il grande passo» iniziando a fare ciò per cui è stata scelta, in marzo, dall'Assemblea federale. Sarà giudice del Tribunale penale federale di Bellinzona. L’abbiamo incontrata nel suo ufficio per una lunga chiacchierata. Un’ottima occasione per parlare della sua carriera, dello stato di salute del terzo potere e capire i motivi che l’hanno spinta, dopo quasi 18 anni, a cambiare strada.

«Ero una bambina chiacchierona»
Ma partiamo dall’inizio. Bergomi si è laureata nel 1994 cum laude a Zurigo e ha ottenuto il brevetto nel 1997. Perché ha scelto di fare la procuratrice pubblica? «Da piccola ero una bambina molto chiacchierona e tutti mi dicevano che da grande avrei dovuto fare l’avvocato. Poi ai tempi del liceo, in motorino o in bicicletta, andavo a vedere i processi nella vecchia sala del Pretorio a Mendrisio. Processi di avvocati e procuratori importanti. Già a quell’età avevo capito che mi sarebbe piaciuto diventare procuratrice». Uno strano hobby, a ben guardare, per una ragazza di 17 anni. «Poi ho studiato diritto, ho fatto la patente di avvocato e mi sono detta che appena avrei potuto mi sarebbe piaciuto fare la magistrata». E come detto, nel 2001, Bergomi corona il sogno entrando a far parte del Gruppo polizia del Ministero pubblico. Nel 2006 ecco una prima svolta. Bergomi passa al Gruppo finanziario (di cui diventa procuratrice capo nel 2013). Cambia la tipologia dei reati su cui indagare. Cambia la tipologia degli imputati. Cambiano l’approccio investigativo e il metodo. Anni e anni a «inseguire il denaro», come diceva Falcone. Perché questo cambiamento? «È un campo che mi interessa moltissimo. Rispetto ai reati seguiti dal Gruppo polizia ci sono delle difficoltà oggettive superiori. Io faccio sempre un esempio banale.

Se viene trovato un corpo con un foro in testa ma nelle vicinanze non c’è un’arma è praticamente certo che è accaduto un reato. Le pistole non si volatilizzano. I reati economico-finanziari sono diversi. Spesso occorre tempo, ma veramente tanto tempo, anche solo per capire se effettivamente un reato c’è stato. Alcuni sono palesi, sì, ma la maggior parte non sono così chiari. Pensiamo per esempio ai reati fallimentari. Non si può ritenere che tutte le volte che una società fallisce ci sia un reato, anzi al contrario». Casi complessi, e stiamo parlando solo dell’apertura dell’inchiesta. Figuriamoci dopo. «L’esame e gli approfondimenti tecnico-giuridici necessari per questo tipo di inchieste sono superiori rispetto a quelli dei reati comuni. Io me ne occupo da 13 anni e ancora questo lavoro mi piace. È una modalità di ricerca più da segugio per certi versi. Capire correlazioni nei numeri, nei conti bancari».

Per fare luce sui reati economici e finanziari serve un lavoro da segugi

«È una funzione, non un lavoro»
Bergomi in luglio, come detto, lascerà il Ministero pubblico per diventare giudice. Senza rimpianti. «Tutta l’attività come procuratrice è stata per me bellissima. È un lavoro appagante. Anzi, in realtà è una funzione, non un lavoro. Ed è un’attività che assorbe molto. Non vorrei essere fraintesa, ma il fascino di scoprire giorno per giorno, nel contesto dell’accertamento dei fatti, cosa è successo in un caso è suggestivo e affascinante». Ma c’è di più. È un mestiere in cui occorrono lucidità e sangue freddo. «Noi lavoriamo sulla base di indizi e dobbiamo con essi accertare i fatti. Perché, soprattutto all’inizio dell’inchiesta, è così complicato un procedimento? Semplice. Si hanno pochi elementi e, sulla base di questi, bisogna cercare di prendere le decisioni giuste. Non dobbiamo infatti mai dimenticare che le nostre decisioni si ripercuotono sulla vita delle persone. Privare una di loro della libertà è una misura gravosa, che ha sempre delle conseguenze. Noi lavoriamo basandoci su indizi, non su sentenze, e il fatto che un arresto non venga a volte confermato dal Giudice dei provvedimenti coercitivi indica che la Giustizia funziona. E occorre anche dire che non sempre, se un giudice non conferma un arresto, significa che il procuratore ha commesso un errore». Il giudice ha semplicemente fatto valutazioni diverse. Ma quanto pesa sulla vita di un procuratore il fatto di aver accusato una persona e poi doverne constatare l’innocenza? O viceversa, non riuscire a trovare prove nei confronti di qualcuno nei cui confronti si è però certi della colpevolezza? «Non vorrei risultare fredda, perché non sono una persona fredda, ma di fronte a situazioni che dal punto di vista emotivo sono molto coinvolgenti un bravo procuratore deve riuscire ad avere un sano distacco. Capisco benissimo che se arresto una persona questa non vedrà per un po’ i famigliari o i suoi figli quando lo desidera, ma ciò non può influire sulle mie decisioni o sulle mie scelte. Altrimenti non avrei potuto fare questa attività per così tanti anni. In definitiva credo che sia sempre sbagliato «sposare» un caso». Lo si dice anche dei giornalisti. «Questa è una verità. Io sono convinta di aver sempre fatto il mio lavoro al meglio ed è per questo che quando arrivo a casa e appoggio la testa sul cuscino riesco subito ad addormentarmi». Inutile dunque chiedere a Bergomi quale è stato il caso che, negli anni, l’ha maggiormente colpita. «In realtà può anche chiedermelo. Le dirò semplicemente che tutti i casi meritano la stessa attenzione. Poi occorre comunque usare una logica. Un esempio? Se ad una banca rubano 1 milione di franchi il crimine potrebbe avere sulle finanze dell’istituto un impatto inferiore rispetto a quello perpetrato nei confronti di un cittadino, che magari guadagna 5.000 franchi al mese, a cui ne rubano 2.000. Si deve però far notare che per 2.000 franchi non si possono mettere in piedi cinque rogatorie internazionali. È anche una questione di proporzionalità, ma non significa non aver dato attenzione al caso».

Credo di aver sempre dato il mio meglio, ed è per questo che di notte dormo perfettamente

Lo sguardo di chi confessa
Nessun caso è più importante di altri dunque. Però nel lavoro del procuratore pubblico ci sono momenti che si ricordano più di altri. «Certo._Ci sono delle situazioni che mi sono rimaste impresse. In particolare il momento in cui una persona, magari interrogata per settimane e che fino ad allora si era sempre dichiarata innocente, confessa. Il suo volto cambia. Cambia letteralmente al sua espressione. È una persona diversa».

La voglia di cambiare
Bergomi ci ha parlato del suo lavoro (anzi, della sua funzione) e di quanto questi anni al Ministero pubblico siano stati piacevoli e soddisfacenti. Perché allora ha deciso di cambiare? «È lecito, legittimo e anche formativo cogliere una nuova opportunità quando un Magistrato ha tanti anni di esperienza ed ha la possibilità di svolgere un’attività nello stesso settore del diritto. Quando a 33 anni ho iniziato a fare la procuratrice probabilmente non avrei neppure voluto fare il giudice, ero troppo giovane per farlo. Ero forse più combattiva di oggi, anche se battagliera lo sono ancora. Ma in questi anni sono cambiata come persona, e questo mi ha spinto a cambiare anche la mia attività, ma sempre facendo parte dell’apparato della Giustizia. E mi impegnerò al massimo nel mio nuovo ruolo di giudice».

Un mestiere duro
Bergomi lascia dopo 18 anni di servizio. Però ci sono procuratori che, anche recentemente, dopo poco tempo hanno lasciato il Ministero pubblico. Come mai? Quali sono le cause? I carichi di lavoro sono troppo elevati? «Secondo me non è giusto dire che c’è una fuga dal Ministero pubblico. Nel 2008 per esempio c’è stato un ricambio ben più accentuato di quello che si è visto ultimamente. In generale credo comunque che ben difficilmente si possa fare il procuratore pubblico per tutta la vita, e questo indipendentemente da dove lo si fa. Ma è chiaro che il carico di lavoro affidato al Ministero pubblico ticinese è estremamente importante. Abbiamo troppo poche forze se paragonate al numero di incarti, e basta guardare il rapporto tra il numero di cittadini e dei magistrati in altri cantoni per notare come il Ticino sia agli ultimi posti. Siamo manifestamente un cantone in cui le forze sono insufficienti. È evidente che questo aspetto non aiuta i magistrati a rimanere per tanti anni. Io faccio parte di chi ha resistito, ma posso immaginare chi magari arriva da giovane, mette su famiglia e a un certo punto – nonostante il lavoro sia appagante, prestigioso e anche finanziariamente comunque ben retribuito – decida di cambiare strada».