«Il Lario deve delocalizzare i flussi turistici»

Il segreto del successo comasco e le possibili collaborazioni con Lugano. Intervista al vicepresidente dell'Associazione albergatori di Como e presidente degli Enti bilaterali del turismo, Andrea Camesasca.
Signor Camesasca, per Como è un momento d’oro. Qual è, a suo avviso, il motore del suo successo?
«Innanzitutto, va considerato che il lago di Como è un luogo unico al mondo. Rispetto ad appena un decennio fa, tuttavia, ciò che è cambiato - e che ha permesso a Como di diventare una meta turistica nota a livello internazionale - è che siamo diventati visibili. E questo, grazie a promozioni puntuali e agli investimenti dei privati. La chiave è stata però la collaborazione positiva tra i vari attori: la Camera di Commercio, l’amministrazione provinciale, l’associazione degli albergatori e il Comune. È stata definita una comunità di intenti e si è lavorato per portare avanti un’attività di promozione sinergica. Infine, i massicci investimenti dei privati hanno permesso di alzare gli standard qualitativi».
Oggi la località sta però conoscendo anche l’altro lato della medaglia: l’overtourism. In che direzione dovrebbe andare, quindi, il comparto comasco nei prossimi anni per non restare vittima del suo successo?
«I numeri parlano chiaro: nel 2012 Como registrava 1,2 milioni di presenze, oggi superiamo abbondantemente i 5 milioni. A mio avviso, come qualsiasi altro territorio in crescita, Como dovrebbe puntare sulla destagionalizzazione e sulla delocalizzazione dei flussi, proprio per evitare di incappare in fenomeni dannosi. Il primo esempio di sovraffollamento l’abbiamo visto a Venezia, luogo unico per eccellenza. Io sono dell’idea che il ticketing o il contingentamento degli ingressi in città siano l’estrema ratio. Prima, bisognerebbe lavorare sulla delocalizzazione, ossia cercare di creare un turismo ‘‘nuovo’’, rigenerativo. Che possa toccare quei luoghi oggi meno conosciuti di Como e del suo lago. Un turismo che permetta di scoprire l’entroterra, l’enogastronomia, il biking, ma anche il cineturismo. Insomma, l’obiettivo dovrebbe essere quello di puntare sulle aree in cui oggi l’economia del turismo è ancora poco conosciuta. In questo modo, si creerebbe un network e si potrebbero dissipare i flussi di viaggiatori. Per farlo, però, occorrono i servizi, le informazioni, banalmente anche una cartellonistica ad hoc».
In questa ottica, riesce a intravvedere un margine di collaborazione maggiore con Lugano?
«Già oggi, perlomeno a livello di autorità ed enti, esiste una sinergia tra il Comasco e il Ticino. Penso ad esempio all’importanza della Regio Insubrica nella creazione di progetti condivisi o ai rapporti instaurati negli ultimi anni dalla Camera di Commercio Como-Lecco con i vari attori del territorio ticinese. In termini globali, e forse un po’ utopici, io sogno la creazione di un distretto, anzi, di una comunità dei laghi. Ossia il poterci proporre come due destinazioni diverse di un unico viaggio. Una meta unica, insomma, vista anche la nostra vicinanza, ma comunque molto diversificata nelle proposte. Certo, abbiamo sempre il limite della dogana nel mezzo, tuttavia sono convinto che potrebbe essere un progetto di delocalizzazione molto positivo per entrambi. Anche perché permetterebbe di evitare l’eccessiva concentrazione di turisti in un solo luogo, come sta avvenendo oggi a Como, distribuendoli fino a Lugano e all’intero Ticino. Per riuscirci, però, serve lavorare anche sulle infrastrutture. Non solo. In generale, la mia impressione è che oggi il viaggio non sia più un’occasione per rigenerarsi. La gente fa lunghe code anche solo per mangiare un gelato e macina molti chilometri a piedi per non perdersi alcuna attrazione del posto. Ecco, a mio avviso sarebbe invece utile far riscoprire ai viaggiatori la nostra tradizione, quanto di più originale abbiamo da offrire. E, quindi, proporre i luoghi, ma anche i ristoranti, più caratteristici, più carichi della nostra storia».