«Il Long COVID può condizionare in modo pesante la nostra vita»

Cosa resta del COVID-19 nel tempo? O meglio, quali conseguenze della malattia possono continuare a manifestarsi anche a distanza di mesi dal contagio? Del cosiddetto Long COVID abbiamo parlato con il dottor Pietro Antonini, internista e specializzato in medicina tropicale che abbiamo incontrato nel suo ambulatorio alla Clinica Moncucco di Lugano.
Dottor Antonini, ci sono ancora persone che sono alle prese con conseguenze della COVID-19 pur essendosi contagiate e ammalate ormai più di due anni fa, quando la pandemia si è manifestata anche da noi?
«Sì, ci sono pazienti che si sono ammalati nel corso della prima ondata della COVID-19 e che lamentano conseguenze ancora a due anni di distanza, disturbi tipici del cosiddetto Long COVID. Si tratta soprattutto di stanchezza e difficoltà nel gestire le proprie giornate: dopo un po’ di tempo che lavorano, per esempio, a un certo punto della giornata si sentono stanchi, hanno difficoltà nel mantenere la concentrazione e sentono quindi la necessità di mettersi a fare altro, perché non riescono a svolgere le loro attività con il ritmo che avevano prima del contagio e della conseguente malattia. Se ne accorgono di più le persone che erano abituate a vivere le loro giornate a pieno regime, che lavoravano tanto, erano impegnate su più fronti sia ambito familiare che lavorativo e sociale più in generale».

La variante Omicron, di norma, non fa ammalare in modo pesante. Può comunque portare al Long COVID?
«I pazienti che presentano un quadro cronico non sono tanti rispetto alla popolazione generale che si è ammalata di COVID-19. Comunque, vediamo ancora parecchi casi nuovi dovuti alla variante Omicron e relative sotto varianti, che tendenzialmente provocano meno disturbi. Essendo però i contagi molto più diffusi e numericamente importanti, aumenta di conseguenza il numero di persone alle prese con il Long COVID, ossia manifestazioni/conseguenze della malattia che si prolungano oltre un periodo di tre mesi. I casi di Long COVID, con sintomi rilevanti dopo tre mesi dalla malattia acuta, riguardano il dieci percento delle persone che si sono ammalate e il 5% di queste ultime hanno disturbi che continuano a manifestarsi al di là dei nove mesi, una percentuale che tende poi a scemare molto più lentamente nel periodo successivo. Ciò significa che dopo nove-dodici mesi alcuni disturbi tendono un po’ a cronicizzarsi».
Quante sono in Svizzera le persone che soffrono di Long COVID?
«Grosso modo, possiamo dire che a un anno di distanza dal contagio e dalla fase più acuta della malattia lo 0,5% dei pazienti manifesta ancora delle conseguenze, con sintomi tali da interferire con le attività quotidiane. Una percentuale certamente minima, ma che ha il suo peso. Se pensiamo infatti che la Svizzera ha otto milioni e rotti di abitanti, nel nostro Paese le persone che si sono confrontate o sono ancora alle prese con il Long COVID sono parecchie migliaia».


Come cambia la vita dei pazienti?
«L’essere umano è molto plastico, se così posso dire, e come quando si subiscono delle menomazioni fisiche, i pazienti i cui disturbi sono ascrivibili al Long COVID si adattano alle nuove condizioni di una vita che non è più quella di prima, ma nella quale riescono comunque a convivere con gli strascichi della malattia. È però vero che si vedono persone che dopo tre, sei mesi e pure più in là nel tempo arrivano dal medico e dicono che la vita non è più quella di prima, non riescono a rendere nella loro professione come in precedenza, faticano a concentrarsi, arrivano a metà di una frase e non sanno più cosa volevano dire, non si ricordano cosa stavano per fare o stavano facendo in questo o quel momento del loro vivere quotidiano, hanno disturbi del sonno. Per esempio, conosco imprenditori che non partecipano più ai consigli di amministrazione perché non riescono a seguire il filo del discorso e se ne vergognano, persone che si sono ritirate dalla vita sociale o l’hanno ridotta ai minimi termini perché si trovano a disagio al cospetto degli altri».
Quale è la manifestazione più tenace del Long COVID?
«Inizialmente è stato un po’ difficile riconoscere che ci fossero davvero dei problemi in questo senso, perché sembrano – come dice la gente comune – disturbi psicosomatici. Invece, sono proprio una delle manifestazioni del Long COVID. E una delle più tenaci è la cosiddetta PEM, acronimo di Post Exertional Malaise, ossia il malessere dopo che viene fatta un’attività fisica ma anche mentale. La PEM, insieme ai disturbi dell’olfatto, che possono essere altrettanto duraturi nel tempo, tende a cronicizzare e dunque ci sono pazienti che non riescono a superarla, con tutte le conseguenze del caso. Quindi, si sentono sempre come in burnout, come esauriti».


Le ripercussioni, in particolare per chi ha un’attività lavorativa, possono dunque essere pesanti.
«In effetti, possono poi sorgere difficoltà con i datori di lavoro, perché ci sono persone che dopo poche ore hanno bisogno di una pausa e ci sono attività professionali che non permettono di averne in quei momenti in cui il lavoratore ne avrebbe bisogno per ricaricare le batterie, per così dire. Di conseguenza, possono sorgere problemi di non poco conto per chi è alle prese con il Long COVID, poiché il datore di lavoro magari preferisce lasciarle a casa in malattia oppure distribuire il lavoro fra gli altri lavoratori che ha alle sue dipendenze, non riuscendo a suddividere adeguatamente la giornata lavorativa della persona in questione, visto che le pause necessarie potrebbero anche essere di un’ora, non solo di una manciata di minuti. Oppure ci sono pazienti che gestiscono un’attività professionale in proprio, da soli e che pure si trovano in difficoltà, non riuscendo a dare continuità alle loro giornate lavorative».
C’è una fascia d’età, in particolare, che è più soggetta?
«L’età media dei pazienti con Long COVID è tra i quaranta e i cinquant’anni, ma noi medici abbiamo visto anche ragazzi di 15-16 anni o meno. E soprattutto, in maggioranza si tratta di donne (qui alla Clinica Luganese Moncucco ne vediamo grosso modo sette su dieci pazienti, per dare un’idea). Una spiegazione potrebbe essere che le donne tendono a soffrire maggiormente di problemi autoimmuni rispetto agli uomini, come l’artrite reumatoide o il Lupus. Una ipotesi è che la forte stimolazione immunitaria per liberarsi dal virus sia più virulenta nelle donne, portando ad una maggiore produzione di auto-anticorpi. E tanti dei disturbi che riguardano la concentrazione o la memoria, oppure l’affaticamento e la stanchezza, sono pure effetti tipici delle malattie autoimmuni. Con il Long COVID si pensa dunque che ci siano in gioco questi auto-anticorpi, fra l’altro senza che vi sia una persistenza nell’organismo del virus, ossia che è già scomparso, eccezion fatta per un numero davvero minimo di casi. È vero che ci sono pazienti che avevano delle fragilità pregresse, ma in generale erano persone che prima stavano bene, non avevano problemi di salute particolari».


Il Long COVID è stata una sorpresa per voi medici?
«Già con i coronavirus precedenti, come quello della SARS che scatenò l’epidemia di vent’anni fa, si erano manifestati nei sopravvissuti dell’infezione di allora disturbi come quelli che caratterizzano ora il Long COVID, ma il discorso non era stato approfondito. Anche perché gli ammalati di SARS, pur essendo stati diverse migliaia, erano stati molti di meno rispetto a quelli della pandemia di COVID-19. Ad ogni modo, adesso si stanno facendo degli studi per cercare di intervenire il prima possibile su questa problematica e quella del Long COVID in generale, per cercare di evitare la cronicizzazione dei disturbi».
Quali altre manifestazioni sono invalidanti?
«Possono anche essere molto tenaci i dolori. Non solo nei pazienti che sviluppano sindromi dolorose, non solo la fibromialgia, ma pure dolori di carattere neuropatico che prendono le estremità. E se per quel che riguarda la parte fisica si può avere un recupero quantomeno soddisfacente anche se la riabilitazione risulta complessa, succede che riacquisire le relative capacità può risultare più difficile proprio a causa dei dolori che insorgono svolgendo un’attività fisica. In questa casistica rientra anche il mal di testa, altro disturbo che può diventare cronico, ma fortunatamente, dopo un po’ di mesi, tende piuttosto a sparire».


Si può quindi affermare che ancora oggi la prudenza è d’obbligo per chiunque di noi?
«Con la malattia da COVID-19 c’è poco da fidarsi. Infatti, non mancano i casi di re-infezioni di pazienti che dopo essersela cavata senza chissà quali conseguenze in occasione delle prime ondate del virus, ne hanno avute di pesanti quando sono stati contagiati dalla variante Omicron. Insomma, se vuole che ti vada male, ti va male. Certo, adesso vediamo molte meno complicazioni come la polmonite, per esempio, ma si deve anche considerare che c’è una significativa porzione di popolazione che è composta da persone fragili (fra immunosoppressi per vari motivi, trapiantati d’organo e altri sottoposti a terapie contro il cancro, per esempio) che tendono ad ammalarsi in maniera importante».
In conclusione, quali sono allora le raccomandazioni?
«Le raccomandazioni sono di seguire innanzitutto le indicazioni della autorità sanitarie e dei medici per quel che riguarda la vaccinazione e i relativi richiami contro il COVID-19. E poi, non costa nulla seguire le misure d’igiene minime, come lavarsi spesso le mani oppure disinfettarle – ma dovrebbe essere la norma sempre e comunque, nella vita quotidiana – e utilizzare la mascherina nei luoghi affollati quando si è raffreddati».