Il Natale di Giuseppe e di Marta, 188 anni in due

«Buon Natale». C’è l’infermiera Joëlle ad accogliermi alla casa anziani comunale di Bellinzona. Elfi, bocce, lucine, decorazioni. Lo spirito natalizio non manca di certo. È mattina, ma la giornata è già iniziata da un pezzo. Il personale è sorridente, qualcuno indossa le corna da renna, altri cappellini rossi, mangiano un dolce scambiandosi gli auguri. La sala da pranzo è quasi apparecchiata, oggi arriveranno i familiari dei residenti per il pranzo. L’atmosfera è festosa.
Joëlle mi accompagna al secondo piano, nella stanza di Giuseppe. Ha 88 anni, indossa un maglione con gilet, una sciarpa posata sulle spalle, i capelli bianchi ben pettinati. Mi stava aspettando. «Siediti, ti do del "tu" perché sei giovanissima». Il signor Giuseppe è di Pedevilla, ha un figlio ingegnere e due nipoti. «Nina, la più grande, ha 24 anni ed è in Giappone. Studia per diventare stilista di moda. Io la appoggio e oggi con il WhatsApp ci possiamo sentire quando vogliamo». È un nonno moderno, penso. «Sono un po’ pedante», mi confessa, «anche per il mio lavoro. Ero a capo del Servizio postale di tutta la regione. Era il mio sogno. Non ho mai amato la monotonia e, grazie ai viaggi in bus che organizzavo, ho girato tutta l’Europa. Oggi porto anche qui quello che ho imparato nella mia vita. Ho la memoria buona. Sono allegro, cerco ancora di divertirmi». È in casa anziani da sei mesi e si sposta con il deambulatore, ma è in forma. «Mi piace moltissimo cantare, adoro quando vengono con la fisarmonica, e amo ancora ballare. Io e mia moglie abbiamo passato ore e ore sulla pista da ballo».
Annalisa. Sul volto del signor Giuseppe compare un sorriso amaro. Sono sposati da sessant’anni. Anche lei è nella struttura, «ma al piano di sotto, perché ha bisogno di assistenza, non sta bene». Il 30 dicembre dello scorso anno è caduta e da allora le cose sono precipitate. «Non è autonoma e ha difficoltà nell’esprimersi, non riesce a parlare». Gli manca dialogare con sua moglie. «Scendo a trovarla tutti i giorni, lei mi vede arrivare e spalanca le braccia. È una roba...». La sua voce trema, ma la sua bocca sorride. «Si innervosisce perché non può comunicare come vorrebbe. Io la tranquillizzo, cerco di portarle un po’ di allegria». Giuseppe mi racconta delle feste di Natale passate in famiglia nello chalet di Ghirone. Il camino, la polenta, le giornate sugli sci. Quest’anno pranzerà in casa anziani, in compagnia del figlio Massimo e del nipote. Il menù prevede antipasto, raviolini in brodo, controfiletto di manzo con contorni, panettone, mandarini e caffè. «A tavola mancherà mia moglie. Quella è una cosa che ho qui (si tocca la gola), però non posso farci nulla». E sorride. Mi spiega di avere avuto tante gioie ma anche immensi dolori, vissuti accanto alla «sua Annalisa». Quando va a trovarla le fa i complimenti: per come è vestita, i capelli, le unghie curate. «Tutte cose banali, ma so che le fa piacere, perché ha sempre tenuto al suo aspetto. E poi sapessi quanti bacini mi dà...». Il signor Giuseppe è un chiacchierone, scambia battute con tutti, porta allegria agli altri residenti, alcuni li ha conosciuti quando era giovane e si sono ritrovati qui. «Di notte dormo poco, perché ho la testa piena di ricordi. Ma non posso obbligare il mio cervello a non pensare». Il suo desiderio per il Natale? «Adesso non vorrei niente. Ho avuto e ho tutto, nella mia vita». Mi saluta, sa che mi aspetta un’altra signora, «una sua amica». Ci ritroveremo nella sala da pranzo.

Il Natale numero 100
È ancora Joëlle ad accompagnarmi. Saliamo di un piano, stanza 305. Mi accoglie Marta, una bellissima signora. Indossa un maglione con i brillanti. Bacia l’infermiera, le fa gli auguri. Sposta il deambulatore e si siede. Le chiedo la sua età, ma non è un mistero: «Ormai lo sanno tutti, ho compiuto 100 anni il 19 aprile». Non lo avrei mai detto. È nata e cresciuta a Ravecchia, quando ha sposato Franco si è spostata a Sementina. «Lui lavorava alle Officine. La mia vita è stata normale, con alti e bassi, gioie e dolori. Siamo sempre stati bene insieme, settant’anni per discutere e per fare pace». Franco è morto un anno e mezzo fa. Hanno avuto tre figli, oggi ha 11 pronipoti. Vive nella casa anziani comunale di Bellinzona da 10 mesi. «Adoro il personale, sono tutti allegri e umanamente speciali. I miei nipoti non mi lasciano mai sola. Lo dico sempre: questa, oggi, è casa mia. Ormai non cambio più» (ride).

La signora Marta è stata la prima apprendista d’ufficio donna, alla scuola serale. Ha lavorato a Bellinzona e in Svizzera interna, poi è tornata in Ticino. «La mia mamma era sola e mi ha chiamata a casa». La sua voce trema e gli occhi si bagnano. «Abbiamo fatto il nido, noi due. Mi diceva sempre "sèmm cuma dü ratt in dan sac da farina". Siamo sempre state unite. Da Sementina andavo a piedi fino a Ravecchia, con i tre bimbi nel passeggino». Marta ha 100 anni, eppure si commuove quando parla della sua mamma.

Ricorda il Natale da bambina, quando «mettevo il piattino sul tavolo la sera del 24 dicembre e la mattina trovavo il mandarino, le noccioline e qualche regalino». Da adulta ha sempre riunito la famiglia in casa sua, cucinava per tutti. «Poi ci siamo sparpagliati, ma è stato tutto bello». Oggi pranzerà in casa anziani con il nipote e la sua compagna. «Siamo molto legati», precisa. Che cosa chiederebbe, questo Natale, a Gesù Bambino?, le domando prima di salutarla. «Non lo posso dire. È un desiderio». I suoi occhi diventano lucidi. Dopo un’iniziale esitazione, me lo confessa. Ma mi chiede di non scriverlo, perché è troppo intimo. Resterà tra me e lei.
«La casa anziani è un luogo di vita, anche per i familiari»

«Il Covid, a questo punto, è un ricordo». Sono trascorsi cinque anni dal (primo) Natale pandemico. Saluti dalle finestre, una carezza dal vetro, gli occhi lucidi dietro a occhiali e mascherine. Molti dei residenti attuali delle case anziani non hanno vissuto quella situazione, perché nel 2020 si trovavano altrove, spiega Stevens Crameri, membro di comitato di ADiCASI (Associazione dei direttori delle case per anziani della Svizzera italiana) e direttore della struttura Alto Vedeggio.
Il confinamento nelle stanze a causa del Coronavirus, dicevamo, è solo un brutto ricordo. «Il 25 dicembre è il culmine di un mese intenso nelle case anziani, esattamente come avviene nelle nostre abitazioni», chiarisce Crameri. Mercatini, uscite, pranzi e cene speciali, tombole, attività di animazione, visite dall’esterno. «Si tende ad amplificare ancora di più quello che viene fatto nel corso dell’anno». Molti residenti sono andati a casa dalle loro famiglie per il pranzo di Natale, ma quest’anno l’iniziativa di coinvolgere i parenti all’interno delle cinque strutture di Bellinzona ha riscosso un gran successo: sono oltre 100 i familiari accolti, spiega il direttore Silvano Morisoli, che insieme al capodicastero Anziani e ambiente, Vito Lo Russo, ha portato un saluto e gli auguri della Città.
Non per tutti è un bel periodo
E se il Natale significa famiglia e gioia, le emozioni sono amplificate anche per chi sulle spalle porta un vissuto più triste. «Non potremo mai sostituirci a un affetto mancato o a un vissuto colmo di ricordi, nel bene e nel male», sottolinea Crameri. «Ci sono persone per le quali questo periodo festoso, tra addobbi e lucine, non è mai stato piacevole. E queste cose non cambiano, bisogna rispettare la sensibilità di tutti. Ma resta una consapevolezza: in casa anziani non sei tra due mura, vivi con qualcun altro, anche se hai i tuoi spazi». E questo, oltre a un’assistenza costante, equivale a un contesto di socializzazione. In cui la solitudine viene attenuata. L’organizzazione del periodo natalizio è una festa, senza dimenticare l’autodeterminazione e il pensiero dei residenti, che non per forza gradiscono partecipare alle attività. «Il tutto è favorito dalla conoscenza che ogni operatore ha all’interno della struttura».
Il personale fa la differenza
L’ADiCASI sottolinea che il personale è parte integrante della vita dei residenti. «Creiamo un ambiente, un contesto, che non sostituiscono la casa e gli affetti. Ma sicuramente, oltre all’aspetto professionale, c’è molta sensibilità e umanità. La struttura diventa casa, e siamo noi gli ospiti che bussano per entrare in camera». Tra bocce, tombole, Avvento e panettoni, «i Comuni non dimenticano i loro anziani, c’è la visita delle autorità, arrivano lettere e pensieri. I nostri residenti erano e restano parte di qualcosa che è molto più grande».
Sono il personale, gli operatori, gli animatori, i volontari a plasmare un ambiente che diventa casa, anche a Natale. «Ognuno porta la sua esperienza e le proprie abilità», conclude Crameri. «E il 25 dicembre si veste di magia per i residenti e per i loro familiari. La casa anziani è aperta, è un luogo di vita e di scambio».
