Il peso della detenzione per una donna e mamma

«Non si può fare astrazione dalle condizioni carcerarie in Ticino e dalla distanza dal proprio figlio». È stato un dibattimento carico di emozioni quello svoltosi questa mattina davanti alla Corte delle Assise criminali, presieduta dal giudice Paolo Bordoli. Alla sbarra, una ventisettenne ucraina, entrata in Svizzera formalmente come richiedente l’asilo e accusata di ripetuto furto per mestiere, danneggiamento, truffa, violazione di domicilio, riciclaggio di denaro ed entrata illegale.
In sostanza, tra il 27 ottobre 2024 e l’11 maggio 2025 la giovane, in correità con l’ex compagno, aveva organizzato due furti in altrettante abitazioni del Luganese, con una refurtiva di circa mezzo milione di franchi. Lei si occupava dell’«intelligence», ossia di individuare via social le vittime, organizzare trasporto e spostamenti e, soprattutto, i pedinamenti delle vittime stesse tramite GPS e videocamere. Era la mente, insomma, mentre il compagno, un 41.enne pugile ucraino fungeva da braccio e si occupava dei «colpi». Due, come detto: il primo compiuto tra l’8 e il 9 maggio 2025 (con una refurtiva di quasi 132 mila franchi) e il secondo nella notte tra il 9 e il 10 e tra il 10 e l’11 maggio (in questo caso sono stati sottratti beni per un valore denunciato di 352 mila franchi).
Un’accurata pianificazione
I colpi sono stati preparati per mesi, tant’è che i due erano entrati in Svizzera con il figlio nato da poco, proprio per questo scopo. Replicando di fatto un agire criminale già messo in atto in altri Paesi. Insomma, la richiesta di asilo altro non era che una copertura per poter operare in Ticino, dove vive la prima potenziale vittima individuata online. La coppia aveva poi desistito da rapinarla e aveva ben presto trovato altre due persone, entrambe benestanti, da rapinare.
La donna, difesa dall’avvocato Stefano Camponovo, è rea confessa. Dopo il secondo colpo (la Polizia stava già indagando visto che il primo furto era stato denunciato), la coppia si era data alla fuga in direzione dell’Ucraina dove la refurtiva (orologi di lusso e borse di valore) è stata venduta. A giugno, però, il compagno l’aveva rimandata in Svizzera a recuperare degli effetti personali nell’appartamento del Bellinzonese dove risiedevano, ma nel frattempo gli inquirenti, grazie alla videosorveglianza e a un carrello utilizzato per uno dei furti ritrovato in mezzo a una strada, avevano chiuso il cerchio ed erano risaliti alla loro identità. Il 7 giugno la donna era così finita in manette e da allora si trova nel carcere giudiziario della Farera.
Quasi da subito ha collaborato con gli inquirenti coordinati dalla procuratrice pubblica Veronica Lipari. Il compagno, invece, risulta ancora uccel di bosco in patria. Nei suoi confronti, la magistrata ha chiesto una pena detentiva di 36 mesi, 10 dei quali da espiare, oltre all’espulsione dalla Svizzera.
Collaborazione e pentimento
«Faccio parte di quel ristrettissimo club di avvocati difensori che hanno una cliente donna, straniera e mamma che non ha contatti con il figlio se non per una telefonata ogni due settimane». Niente cavilli o norme giuridiche. Camponovo, nella sua arringa, ha evidenziato come la sua assistita si trovi in un regime di carcerazione preventiva punitivo. «Il figlio si trova a Kharkiv con la nonna, proprio sotto le bombe russe. È lacerante». Quanto alla correità con l’ex compagno, Camponovo ha argomentato che il loro fosse un rapporto in cui lei era subordinata, vista anche la stazza fisica dell’uomo. Di qui l’invito a considerare questa situazione nella commisurazione della pena, che a mente della difesa dovrebbe essere di 2 anni sospesi, oltre all’espulsione che non è contrastata. L’imputata, visibilmente commossa, si è rivolta a una delle vittime, presente in aula, dicendosi dispiaciuta e pentita. «Vorrei solo rivedere mio figlio».
Pur non riconoscendo l’asserito rapporto di subordinazione e la gravità degli atti commessi («Non si è trattato di un semplice furto, i colpi sono stati accuratamente pianificati e l’ingente refurtiva non è frutto del caso», ha argomentato Bordoli), la Corte ha riconosciuto il sincero pentimento, la collaborazione e le difficili condizioni di detenzione e ha optato per una pena di 36 mesi, 6 dei quali da espiare, oltre all’espulsione. Considerato il carcere preventivo sofferto, la donna potrà tornare in patria tra poco più di un mese.
