Il Ticino, i clan e i loro tentacoli

Quanto la criminalità organizzata è infiltrata da noi? Siamo pronti a prevenire, combattere e punire il fenomeno? Ecco le parole (ma anche i dubbi) di quattro esperti: John Noseda, Paolo Bernasconi, Pierluigi Pasi e Antonio Nicaso
Red. Online
26.03.2018 19:00

Alzi la mano chi, passando davanti a uno dei negozi in centro in cui non si vede mai un cliente, non ha pensato: «Questi stanno in piedi perché riciclano denaro». Ma è davvero così? Quanto è diffuso il fenomeno e quanto invece è leggenda metropolitana? In Ticino, vista la stretta sul settore bancario, la criminalità organizzata ha davvero deciso di investire maggiormente «nell'economia reale»? Bar, ristoranti, gallerie d'arte e società edili sono utilizzate come lavatrici? Alcune indagini italiane (per esempio quella denominata Stige) sembrano dire di sì. E poi ci sono 'ndranghetisti (uno su tutti: l'ex killer Gennaro Pulice) che hanno candidamente ammesso di essere venuti in Ticino, in questo caso a Viganello, per «fare impresa». Aprendo bar, mobilifici e pseudo società di consulenza. Tutto per riciclare.Ma quanto è infiltrata la criminalità organizzata nella nostra regione? E quanto il Ticino e la Svizzera sono pronte a prevenire, combattere e punire il fenomeno nelle sue mille sfaccettature? Lo abbiamo chiesto a quattro esperti, e le loro risposte sono piuttosto preoccupanti. «La volontà politica non c'è mai stata», ci ha per esempio detto l'ex procuratore pubblico, oggi avvocato, Paolo Bernasconi parlando del riciclaggio e delle società finanziarie che ancora oggi («A Lugano e a Chiasso c'è ancora il ventre molle. Una zona grigia di connivenza che permane») si prestano ad entrare in affari con la 'ndrangheta («E qualcuno è finito male, in un gioco più grande di lui») e aggiungendo che Governo e Parlamento hanno sistematicamente boicottato la legge sulle fiduciarie, perché hanno voluto da sempre un solo ispettore.L'ex procuratore federale Pierluigi Pasi ci ha invece lasciato capire che secondo lui in Svizzera negli ultimi anni il problema è stato sottovalutato. Ma non solo. Sarebbe stata operata una precisa scelta politico-investigativa e le risorse federali sarebbero state concentrate in particolare nella lotta al terrorismo di matrice islamica. E categorico è stato anche anche Antonio Nicaso, studioso della criminalità organizzata in Italia e coautore di un libro pubblicato con Nicola Gratteri, procuratore in prima linea nella lotta alla 'ndrangheta a Catanzaro. Secondo Nicaso in Svizzera «Per tanto tempo il problema è stato sottovalutato per una questione di marketing territoriale». Più sfumata la posizione del procuratore generale John Noseda, che ha comunque sottolineato come, a livello investigativo, da noi ci si è già più volte imbattuti nei reati-spia: quelli che lasciano presagire la presenza sul territorio della criminalità organizzata (o perlomeno di criminali che utilizzano i loro metodi: omertà, intimidazione, estorsioni, ma anche e soprattuttoi danneggiamenti e gli incendi).Vediamo dunque, in questo lungo articolo (uscito sul Corriere del Ticino in due tronconi: il primo il 20 marzo, il secondo il 26 marzo), i pareri degli esperti che abbiamo contattato.John Noseda: «Di casi sospetti ce ne sono»A inizio gennaio la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro porta a termine l'operazione Stige, eseguendo 169 arresti tra Italia e Germania. E sfogliando le mille e passa pagine che compongono l'ordinanza di applicazione delle misure coercitive emerge - nero su bianco - quello che da noi in molti sospettavano. E non da oggi. La 'ndrangheta ha costruito, sia in Svizzera sia in Italia, una rete di bar e ristoranti (in questo caso per "piazzare" prodotti alimentari controllati dalla criminalità organizzata). E nell'inchiesta spuntano nomi noti, su tutti quello dei Ferrazzo, clan di Mesoraca più volte comparso nelle indagini riguardanti il Ticino. Nome che ancora nel 2016 il Corriere della Sera ha affiancato al decesso nel 2001 di un giovane nei boschi sopra Lamone: una morte che per gli inquirenti italiani - stando al quotidiano milanese - sarebbe decisamente sospetta, ma che gli inquirenti svizzeri hanno catalogato come suicidio.Partendo dall'inchiesta Stige abbiamo dunque chiesto un parere al procuratore generale John Noseda. E lo abbiamo fatto per tentare di capire se i timori di molti sono fondati. È vero che il riciclaggio (anche quello promosso dalla criminalità organizzata) da noi - visto che le banche sono diventate molto più attente e restrittive - si è spostato sempre più "nell'economia reale" e oggi sfrutta attività come la ristorazione, i commerci, l'edilizia e perfino le gallerie d'arte per ripulire il suo denaro (ma anche per mettere piede nel territorio)? "Le premesse - ci spiega Noseda - sono due. La prima è che stiamo parlando di questioni che per competenza riguardano più il Ministero pubblico della Confederazione che quello cantonale. La seconda è che non dispongo di dati statistici che consentano di documentare una sensazione di questa natura. Mi esprimerò dunque più a livello qualitativo che quantitativo. Detto questo, posso affermare che abbiamo visto dei casi, che non per forza sono la prova della presenza di queste attività criminali, ma che dimostrano l'esistenza di atteggiamenti tipici, come la diffusa omertà, alla base della criminalità organizzata". Occorre dunque tenere gli occhi aperti. "Riciclare in contanti - continua il magistrato - oggi è estremamente difficile nel settore bancario. I trasferimenti dall'estero su banche svizzere sono soggetti ad approfondite verifiche per escludere la presenza di proventi di reato. Lo stesso vale per gli altri operatori finanziari ed è chiaro che le organizzazioni criminali (ma in questo discorso ci metterei chiunque intende riciclare denaro) cerchino di far capo ad altre strutture o canali. E questo lo abbiamo constatato in più occasioni. Si pensi all'emissione di false fatture da parte di società di comodo: le fatture (di solito per consulenze o intermediazioni fittizie) servono come giustificativo per dare una parvenza lecita a fondi di provenienza illegale.L'infortunio di lavoroE poi c'è l'edilizia (di cui ci parlerà anche l'ex procuratore federale Pierluigi Pasi nella prossima puntata sollevando il problema dei grandi appalti). "Abbiamo avuto segnali di possibili infiltrazioni - sottolinea Noseda - legate in particolare a episodi di caporalato e sfruttamento della manodopera. Mi ricordo il caso di un incidente su un cantiere. Un operaio si ferì a causa dell'assenza di protezioni, ma nel breve tempo che la polizia impiegò per arrivare sul luogo, l'intera scena era stata cambiata ed erano state messe fittiziamente in atto le misure di protezione. Nessuno degli operai poi interrogati ha voluto fare il nome di chi aveva dato gli ordini. Una vicenda che è sintomo di una certa inclinazione all'omertà con cui possono trovarsi confrontati gli inquirenti. Per non parlare poi delle inchieste per usura a danno degli operai e in cui le stesse vittime difficilmente denunciano o accettano di testimoniare. Detto che un indizio non fa una prova, si tratta comunque di metodi omertosi tipici delle organizzazioni criminali. Poi è difficile sapere se si tratta di un atteggiamento che si sta diffondendo o se sia il segnale di un intervento diretto delle organizzazioni criminali. Parlo chiaro: queste cose possono essere combattute solo attraverso una collaborazione internazionale non sempre facile da attuare. E il riciclaggio, non dimentichiamolo, continua ad essere il punto debole della catena per le organizzazioni criminali. Perché seguire la catena del denaro e poter bloccare i loro fondi sono elementi che le danneggiano moltissimo"."Il nostro Paese è attento"Seguire la catena del denaro e bloccare i loro fondi. Ma la Svizzera, che per decenni è stato uno dei crocevia internazionali del riciclaggio, ha davvero interesse nel farlo? Non è che ancora oggi si chiuda un occhio per paura di danneggiare la nostra economia (perchè comunque sono soldi che arrivano)? E questo nonostante il rischio che il mercato venga "drogato" da società e aziende che possono lavorare a prezzi stracciati o addirittura sottocosto (visto che l'obiettivo, alla fine, è semplicemente quello di riciclare)?Alcuni degli esperti che abbiamo sentito sono convinti che la Svizzera potrebbe fare di più. C'è addirittura chi si è detto persuaso che sia stata presa politicamente la decisione di destinare le risorse degli inquirenti federali soprattutto su altri fronti (per esempio il radicalismo islamico) non dando priorità alla 'ndrangheta.Su questo punto Noseda è molto più cauto e ha una visione diversa (diversa anche da quella di Paolo Bernasconi, vedasi articolo a lato). "Continuo a dire - afferma - che la Svizzera non ha mai avuto, e ancora meno oggi, interesse a tutelare questo genere di cose. Non l'ha mai avuto, tant'è vero che ha dovuto affrettarsi (negli anni Settanta e Ottanta) per dotarsi di mezzi efficaci per evitare di venir bollata dal resto del mondo e danneggiare così la sua piazza. E questo è talmente vero che oggi, in settori che non sono legati direttamente alla criminalità organizzata (come la semplice evasione fiscale), ci si è resi conto che per tutelare la piazza finanziaria e l'economia è necessario cedere, almeno parzialmente, sul segreto bancario. Questo per non finire nelle black list. È evidente che la Svizzera da sola non ha interesse a mantenere zone di salvaguardia e tutela della segretezza di cui poi possono beneficiare le organizzazioni criminali". La Svizzera conserva una fetta sostanziosa dei patrimoni mondiali, creati in modo lecito. Per Noseda sarebbe dunque controproducente - e anche un po' stupido - rischiare di perderli su pressione internazionale solo per gestire una piccola percentuale di patrimoni illeciti.Paolo Bernasconi: «La politica boicotta le leggi»A Medellin, per riciclare il denaro del cartello della droga, Pablo Escobar iniziò da una piccola società di taxi. Con soli tre veicoli la compagnia fatturava 5 milioni di dollari a settimana. Poi i taxi non bastarono più e il cartello iniziò a nascondere il denaro sotto terra visto che non sapeva più dove metterlo. Anche a Paolo Bernasconi (avvocato ed ex procuratore pubblico) abbiamo rivolto questa domanda: a Lugano ci sono i «taxi di Escobar»? Ora che le banche si sono regolamentate, la criminalità organizzata ha deciso di puntare anche da noi sull'utilizzo dell'economia reale per ripulire i soldi? «Ditemi voi – ci spiega Bernasconi – quando c'è stato un caso giudiziario importante in Italia che non abbia poi riguardato anche il Ticino. Se leggete di un'inchiesta penale su un giornale italiano potete scommettere che, tempo 15 giorni, salterà fuori qualcosa anche da noi». Un sì piuttosto categorico quello di Bernasconi . «È semplicissimo. La piazza bancaria ticinese è stata un far west fino a pochi anni fa. Poi sono venute le norme sul riciclaggio (la legge che ho contribuito a elaborare è entrata in vigore il primo agosto del 1990), ma la piazza era contraria. Tant'è vero che si sono dovuti aspettare 8 anni per avere la legge contro il riciclaggio e poi molti altri anni per l'Ordinanza di applicazione della FINMA. Quella sì, e parliamo del 2010, ha cambiato tutto per le banche. La FINMA poteva e può decidere che singole persone, anche del Consiglio d'amministrazione, venissero allontanate dal settore. E in Ticino, se guardiamo tra chi ha dimissionato, c'è molta gente finita sotto la lente. Alle banche la FINMA ha detto: ''O li mandate via voi o ci pensiamo noi''». L'Ordinanza è stata estesa prima a fiduciari e avvocati d'affari e poi recentemente anche agli operatori non finanziari . «Nello stesso momento, su spinta statunitense, è iniziata anche la lotta al denaro contante. Ora però con le criptovalute si torna un po' al punto di partenza. E perché parlo delle criptovalute? Perché in mezzo succede quel che dite voi: la ricerca, per chi ricicla denaro, di evitare di passare dalle banche. Per decenni si sfruttavano gli istituti di credito, tanto nessuno controllava. Ora li si evita». E cosa accade? «Occorre ricordare come si è mossa l'ondata regolatrice. Il Gruppo di azione finanziaria internazionale contro il riciclaggio di denaro (GAFI) da anni strepita contro le case d'aste, i venditori d'automobili pregiate, i grandi alberghi, le gallerie d'arte o i gioiellieri. In via Nassa, come in Bahnhofstrasse, quando c'era la voluntary disclosure, tanti italiani evasori facevano shopping di gioielli e orologi da collezione. I fiduciari piangevano, i gioiellieri ridevano. Poi ecco che il Parlamento svizzero ha introdotto anche per i commercianti gli stessi obblighi antiriciclaggio. Se accettano più di 100.000 franchi cash devono controllare (anche se non è chiaro chi poi li controlli)». Dunque di regole ne sono state introdotte. «Sì. Appunto. L'ondata regolatrice si è mossa in tutte le direzioni. Ed è rimasta l'ultima spiaggia. Voi dite che è la ristorazione? Non saprei. Forse nei bordelli del Kreis 4 di Zurigo. Da noi, purtroppo, sono ancora parecchie fiduciarie e società finanziarie. E infatti il cassiere della 'ndrangheta appena condannato aveva il fiduciario ticinese che gli costruiva le società». Ma non sono sottoposte agli stessi controlli? «Non c'è nessun controllo. Andate a vedere nel vostro archivio negli ultimi 10 anni quanti fiduciari e pseudofiduciari sono stati indagati o arrestati. Se ne vede almeno uno al mese. Chi li controllava?». Nel senso che alcuni fiduciari ancora si prestano ad aprire società di comodo? «Certo. Non si scappa». Dunque il problema è quello delle società fittizie. «Il bello è che non sono fittizie. Sono regolarmente iscritte a registro di commercio. Questo è il guaio». Fittizie nel senso che spesso non vengono neppure capitalizzate (e vengono comprate a 3.000 franchi). «Esatto. E poi in Italia il proprietario può dire di avere una società a Lugano, che è più credibile di una alle Cayman». Fenomeno che, come noto, si sta spostando dal Ticino ai Grigioni. Questo perché sono state strette le maglie? «Le maglie – risponde Bernasconi – non sono mai state strette, perché non esistono controlli preventivi né in Ticino né in Grigioni. L'unico che potrebbe farlo è il Registro di commercio. Leggendo gli scopi sociali di un'azienda e vedendo che vogliono condurre intermediazione finanziaria, dovrebbe chiedere se hanno la licenza come fiduciario ed un'affiliazione antiriciclaggio. Niente licenza? Niente registrazione. Sarebbe semplicissimo».Una rete a maglie largheEd è proprio in queste maglie, troppo larghe per Bernasconi, che s'infila anche la criminalità economica e quella organizzata. «Io non ce l'ho con i professionisti, ma con le fabbriche di società buca-lettere. Persino un avvocato è stato condannato, che aveva 12 milioni in cassaforte. E quello che aprì a Lugano la succursale di una banca di San Marino appartenente ad una banca delle Vanuatu? E quei luganesi che, ancora oggi, aprono banche a Portorico, alle Seychelles e alle Bahamas? Alcuni sono finiti sui giornali, altri no. Qualcuno è finito male, in un gioco più grande di loro? Hanno capito di essere esposti e hanno tentato di tirarsi fuori? Mi spiace, ma da quel mondo non si esce. È un mestiere pericoloso». E c'è anche il rischio che la criminalità organizzata inizi a investire nell'economia reale inviando poi sul territorio i suoi uomini per gestire quelle attività (vedasi il caso dell'ex killer Gennaro Pulice nell'articolo sotto) «Giovanni Falcone negli anni Ottanta, mi disse: ''Guarda Paolo che a casa vostra, dopo i soldi della mafia, arriveranno anche i mafiosi''. E non si scappa. Di casi di mafia e simili ne abbiamo già avuti tanti. Tante brutte rogatorie, e non si parla solo di 'ndrangheta. Ho passato la domenica a leggere il libro di un giornalista che mette assieme i crack bancari e il riciclaggio, in una specie di cronistoria ticinese. Il quadro diventa impressionante. Fa paura anche a me, che li avevo vissuti». Ed ecco la stessa domanda fatta a Noseda: la Svizzera ha reale interesse a combattere il fenomeno? «La volontà politica – spiega l'ex procuratore pubblico – non c'è mai stata. Gli USA hanno dimostrato che il sistema bancario è stato connivente con l'evasione fiscale, pur sapendo che gli strumenti dell'evasione erano utilizzati anche dalla criminalità organizzata. Non conosco un solo caso importante di criminalità economica e riciclaggio in cui non ci fossero delle società di sede offshore. Costituite dove? Anche in Ticino. Anche a Lugano. A centinaia, come a Vaduz, Londra, Miami. Da chi? Da fiduciari e avvocati. Ancora adesso, ancora recentemente. Perché? Perché a Lugano e a Chiasso c'è ancora il ventre molle. Una zona grigia di connivenza che permane. Una zona grigia in cui c'è la disponibilità anche per il crimine organizzato di infilarsi». E in che misura la politica è responsabile? «La politica non ci crede. Perché dimentichiamo il martellamento degli scandali ticinesi? Li contiamo? Quante banche e finanziarie liquidate o fallite? Quanti bancari e fiduciari condannati? Eppure, le uniche leggi regolatrici arrivavano solo su pressione dall'estero. Perché? Chi frena? Ancora oggi? Lo strumento, minuscolo, ci sarebbe: la legge sui fiduciari, ma Governo e Parlamento l'hanno boicottata sistematicamente, perché hanno voluto da sempre un solo ispettore. Un solo essere umano a controllare tutte le mille fiduciarie. La legge (che era mia) è diventata una foglia di fico. Per tanto così andrebbe abolita perché serve solo a rompere le scatole ai fiduciari onesti».Antonio Nicaso: «Non ci si può solo affidarsi alle forze dell'ordine e alla magistratura»Pene severe, regole più restrittive, squadre di magistrati che lavorano giorno e notte su ogni minima traccia d'infiltrazione, poliziotti che raccolgono indizi in tutti gli anfratti del territorio e dell'economia. Non è questo, oggi, l'approccio del Ticino di fronte alle organizzazioni di stampo mafioso. Non è questo, no, ma anche se lo fosse non basterebbe. A dirlo, testimoniando quanto il pericolo può essere grande e radicato anche in una realtà come la nostra, è Antonio Nicaso, docente universitario in Nordamerica, studioso della 'ndrangheta in tutte le sue sfaccettature e ospite a Lugano tre anni fa, su iniziativa dell'Associazione amici delle forze di polizia svizzere, insieme al magistrato Nicola Gratteri. «Senza la consulenza e le capacità professionali di bancari, broker, avvocati, commercialisti, senza l'aiuto di persone in doppio petto che frequentano i salotti buoni – spiegavano in quell'occasione Nicaso e Gratteri – i mafiosi farebbero molta fatica a raggiungere i loro obiettivi». Il messaggio ovviamente è ancora valido, ma stavolta il nostro interlocutore fa un passo in più e caldeggia il coinvolgimento di tutta la società civile, a partire dalle scuole.Quei rifiuti non pronunciatiIn gioco non c'è solo il principio morale di garantire la giustizia nel cantone. Alcuni addetti ai lavori temono una sorta di conquista fisica del territorio («Se non facciamo qualcosa si compreranno tutto» ammoniva due anni fa il presidente dell'Associazione delle polizie comunali Dimitri Bossalini) e le parole di Nicaso sembrano avvalorare questa tesi. «La 'ndrangheta è sempre alla ricerca di luoghi in cui investire per il riciclaggio di denaro e il Ticino storicamente è uno di questi, ma l'investimento – ed ecco il punto – precede sempre l'insediamento. Per queste persone il passo successivo è legarsi alla nuova realtà, perché non hanno accettato del tutto l'idea della società liquida. Sono fortemente territorializzati e il bene che acquistano lo vogliono vedere, toccare, avere una conferma materiale che è loro». Poi ci sono gli effetti immateriali: quelli sul mercato locale. Un bar o un negozio controllato dalla mafia non deve per forza essere in attivo, perchè cento franchi «puliti» sono in ogni caso meglio di centocinquanta «sporchi». L'importante è lavarne una discreta quantità. «Per il commerciante onesto è difficile competere con loro – afferma Nicaso – se non altro perché avendo molto denaro a disposizione non devono pagare gli interessi di un prestito bancario. È concorrenza sleale». Lo stesso meccanismo li avvantaggia nelle gare di appalto pubbliche, nella quali hanno più possibilità di presentare offerte stracciate e alla fine, in assenza di controlli e riflessioni approfondite, di vincere. Il discorso sul mercato si riallaccia quindi a quello sul rischio di conquista: «Ci sono imprenditori che pur di non fallire cedono quote di minoranza ad esponenti della criminalità organizzata – annota il professore – L'idea magari è quella di recuperarle in seguito, ma le cose non stanno così: quando queste persone entrano, difficilmente poi escono». In generale, a livello mondiale, Nicaso vede una crescita di quella che lui chiama la «domanda» di 'ndrangheta: «Ci sono sempre meno persone disposte a dire no, soprattutto nei momenti di crisi economica. Non si riesce a fare a meno dei soldi della cocaina». Questo può succedere inconsapevolmente, senza cioè sapere chi abbiamo realmente di fronte. Oppure in modo più sfumato: magari abbiamo un dubbio, ma non abbastanza forte da farci rinunciare al nostro beneficio, o semplicemente pensiamo che non è nostro compito giudicare la controparte. Altri non si fanno di questi problemi e analizzano la questione in modo diverso. «Ci sono Paesi che fanno un puro calcolo tra costi e benefici – osserva Nicaso – Basti pensare che un istituto di credito ha ricevuto una multa di 1 milione di dollari per aver omesso di denunciare 1.200 transazioni sospette: un milione... ma quelle operazioni hanno generato un introito nettamente più alto. Poi ci sono banchieri che fanno un ragionamento di questo tipo: se non li accettiamo noi, andranno da altri. Si sta concretizzando la teoria formulata nel sedicesimo secolo dal mercante e banchiere inglese Thomas Gresham, secondo cui 'la moneta cattiva scaccia quella buona'. Purtroppo, però, non si riesce a capire il danno dell'investimento mafioso».«Allora è meglio fallire»Tornando al Ticino e a come reagire socialmente alla presenza della criminalità organizzata, Nicaso riconosce che in Svizzera ultimamente si è sviluppata una maggiore presa di coscienza. «Per tanto tempo il problema è stato sottovalutato per una questione di marketing territoriale: a molti faceva comodo entrare in contatto con faccendieri che disponevano di enormi capitali. Perché per anni non si è messo mano a una riforma bancaria o alla legislazione antimafia? – incalza il professore – Adesso vedo segnali positivi, in particolare sul segreto bancario, ma ci sono ancora tante cose da fare, anche a livello culturale». Proprio così: «La difesa ideale non può nascere dall'oggi al domani: o investiamo nella prevenzione, nella conoscenza di questo fenomeno, sin dalle scuole, oppure dobbiamo limitarci a sperare che un professionista rinunci a un guadagno per questioni morali». Non si può avere questo approccio mentale – sottindende Nicaso. «Come non si può pensare di affidarsi unicamente alle forze dell'ordine e alla magistratura. Bisogna acquisire la consapevolezza del pericolo». «Piuttosto che portarsi in casa dei deliquenti – conclude il professore – è meglio fallire».Pierluigi Pasi: «Si è puntato sulla lotta alla jihad»Paolo Bernasconi ci ha detto che la Svizzera e il Ticino potrebbero fare di più (molto di più) per contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata e a livello di prevenzione. Lo stesso ha lasciato intendere il professor Antonio Nicaso. E anche un ex procuratore federale oggi avvocato, per anni in prima linea nel contrastare i fenomeni mafiosi nel nostro Paese, sembra confermare questa situazione. Pierluigi Pasi ci ha lasciato capire che secondo lui in Svizzera verosimilmente il problema negli ultimi anni è stato sottovalutato, che è stata operata una precisa scelta politico-investigativa. Le risorse investigative federali, non certo illimitate, sarebbero state concentrate in particolare nella lotta al terrorismo di matrice islamica. Una scelta, se confermata, al primo sguardo comprensibile per l'urgenza, ma opinabile dato che il jihadismo, fenomeno comunque destinato a recedere d'intensità, può essere combattuto anche attraverso altri canali: soprattutto la prevenzione, l'intelligence e l'integrazione. «Spesso si dice - ci spiega Pasi - che gli scarsi risultati nel combattere questa criminalità sono dovuti perlopiù alla nostra inadeguatezza legislativa, poiché l'articolo 260ter(che punisce appartenenza e sostegno alle organizzazioni criminali, ndr) non è efficace, e anche alla nostra scarsa conoscenza del fenomeno. Non sono d'accordo, trovo questi due argomenti soli inconsistenti e fuorvianti. È vero, quella disposizione necessita un adeguamento anche nella pena prevista, ma è anche vero per esempio che l'articolo 72 del Codice penale è molto incisivo perché permette una confisca agevolata dei valori patrimoniali di cui queste organizzazioni dispongono, e il contrasto patrimoniale è la prima linea della lotta a tale criminalità. E poi il fenomeno è ben conosciuto dagli addetti ai lavori, se ne è scritto e dibattuto molto». Ma da cosa si può dedurre che, per davvero, a livello federale si stia indagando sulle organizzazioni criminali meno di un tempo? «La mia è più che una sensazione. E comunque nei rapporti di fedpol sulla sicurezza interna, tra il 2005 e il 2015, emergeva chiaramente come ci fossero determinati settori (l'edilizia, soprattutto ma anche la ristorazione) considerati a rischio d'infiltrazione mafiosa. Negli ultimi due anni non se ne è quasi più fatto cenno. Come mai? Il problema non è scomparso. E indicativa è la diminuzione del numero di rogatorie dalla Svizzera all'Italia, mentre dall'Italia alla Svizzera sono in aumento. E questo in assenza di altri dati lo si può dedurre consultando gli ultimi rapporti della Direzione Nazionale Antimafia di Roma».Evitare la caccia alle stregheE parlando dell'operazione Stige (in alcune intercettazioni telefoniche rese pubbliche della Procura antimafia alcuni membri della 'ndrangheta calabrese sostengono di avere legami con diversi ristoranti in Ticino) è giusto, secondo Pasi, essere sospettosi verso determinate attività economiche presenti sul nostro territorio? O meglio: se si passa davanti a negozi, pizzerie o ristoranti sempre vuoti, sem pre senza clienti, è giusto sospettare che fungano in realtà da lavanderia per riciclare il denaro della criminalità organizzata? «Di fronte a esercizi persistentemente deserti è normale porsi qualche domanda, è naturale dubitare che si tratti in realtà di attività economiche strumentali al riciclaggio. Parliamo oltretutto di settori in cui è piuttosto facile fare del "nero". Ma l'equazione non è automatica, il rischio di fomentare una caccia alle streghe o peggio venti xenofobi è concreto. E comunque si può riciclare anche se l'esercizio è ben frequentato».Attenzione ai grandi appaltiAnche Pasi (come Noseda e Bernasconi) pone l'accento sulla necessità di prestare molta attenzione ai reati spia. Reati che da noi hanno lasciato presagire la presenza di organizzazioni criminali. Un incendio sospetto, alcuni casi di caporalato nei cantieri e, sempre sui cantieri, incidenti ancora oggi avvolti nel mistero. «Sono reati che dovrebbero essere investigati non solo come tali, ma anche in un un'ottica diversa e una più ampia prospettiva, lo dico sulla base della mia esperienza diretta. Ma per farlo occorre un sistema di competenze e d'interazione fra autorità, ai vari livelli, che funzioni efficacemente». Su questo punto Pasi è abbastanza categorico: se i risultati sono davvero scarsi, allora è necessario fare il punto della situazione e valutare la reale efficacia del sistema attuale. La posta in gioco è talmente alta che né la retrocessione di talune competenze ai Cantoni né l'estensione alla Confederazione di quelle attuali dovrebbero essere tabù. (Zurigo per esempio aveva conservato un suo team investigativo sulla criminalità organizzata). E la politica, per l'ex procuratore federale, dovrebbe prestare molta attenzione a chi affida i grandi appalti, perché fanno gola alla criminalità organizzata internazionale, siccome a grandi commesse pubbliche corrispondono anche grandi possibilità di riciclare. E in più il rischio è che ditte controllate dalla criminalità organizzata forniscano prestazioni scadenti (la letteratura è purtroppo piena, soprattutto in Italia, di casi del genere).Sono in mezzo a noiQuanto bisogna dunque preoccuparsi della presenza della 'ndrangheta in Ticino? «La presenza è un dato certo da tempo, occorre occuparsi seriamente del fenomeno, i rischi sul medio termine sono intuibili. Lo confermano più indagini svolte non solo in Italia ma anche in Svizzera. Per esempio, in una complessa inchiesta condotta con l'Antimafia milanese e reggina e culminata nel 2012 con una ventina di arresti (l'inchiesta Blue Call, ne abbiamo parlato la scorsa puntata) si scoprì che il vertice di una cosca (il clan Bellocco, ndr) pur continuando la sua attività criminale in Lombardia di fatto aveva delocalizzato il suo "centro direzionale" nel Luganese. Un episodio che deve fare riflettere, anche se una tale situazione non fa mai clamore né sembra generare problemi d'ordine pubblico, dal momento che ciò che si va cercando qui è la tranquillità e le opportunità per riciclare in silenzio, non il controllo del territorio». Non ancora, perlomeno.