L’intervista

Il vescovo di Lugano, monsignor Valerio Lazzeri: «Non lasciamoci tentare dall’autocommiserazione»

Il secondo Natale ai tempi della pandemia di COVID-19 è alle porte. La festa per antonomasia pone tutti, credenti e non, di fronte a domande nuove. Abbiamo chiesto al vescovo di Lugano, monsignor Valerio Lazzeri, di condividere alcune riflessioni sul senso più profondo di questo passaggio comunque epocale
Monsignor Valerio Lazzeri, 58 anni, è stato nominato da Francesco vescovo di Lugano il 4 novembre 2013, ricorrenza di San Carlo Borromeo. © ti-press/pablo gianinazzi
Dario Campione
24.12.2021 06:00

Siamo alla vigilia del secondo Natale in pandemia. Che riflessione le viene alla mente dovendo accostare la festa della Natività a una tragedia così insopportabilmente grande?

«Il primo Natale, la nascita di Gesù a Betlemme, ci racconta un Dio che entra nella storia senza sottrarsi alle restrizioni che si impongono a tutti: il censimento imperiale che obbliga tutti a farsi registrare, l’instabilità di una situazione itinerante, la mancanza di spazi adeguati per vivere le realtà più fondamentali. La fatica di questo tempo travagliato non è fuori dall’evento che ogni anno celebriamo».

Da due anni viviamo una condizione di assoluta straordinarietà. I segni della stanchezza sono molto presenti e visibili un po’ ovunque. Come si fa a ritrovare fiducia e speranza nel futuro? Quanto, e in che modo il messaggio cristiano è in grado di aiutare in questo senso?

«La fiducia e la speranza nel futuro non sono mai realtà che possiamo dedurre dalle situazioni positive che stiamo vivendo. Si tratta sempre di scelte da osare nei momenti più bui. Il Regno di Dio, che Gesù ha annunciato e realizzato, si manifesta ogni volta che ci accorgiamo che dal profondo del nostro cuore è possibile ribellarsi dalla dittatura del nulla e della morte e continuare, nonostante tutto, a dire sì al nostro essere venuti al mondo».

In una recente conversazione con Domenico Agasso, papa Francesco ha detto: «Possiamo ripartire dalla scoperta della comune fragilità, che la durezza della pandemia ci ha sbattuto in faccia». Il pericolo più grande, ha aggiunto il pontefice, è tuttavia il «virus dell’egoismo», per «non farsi contagiare» dal quale bisogna «creare gli anticorpi della solidarietà». Nella nostra società ricca e secolarizzata, dove si trovano questi anticorpi?

«Questi anticorpi sono iscritti nel profondo del nostro essere stati chiamati alla vita, nella nostra vocazione originaria all’esistenza, dove scopriamo che vivere per noi è inseparabile dall’essere in relazione con gli altri, con l’intera creazione, con Dio. Nonostante le stratificazioni di indifferenza, che ereditiamo o che possono accumularsi su di noi nel tempo, questo nucleo essenziale della nostra umanità si può risvegliare nei momenti e negli ambiti più impensati. Lo abbiamo visto molte volte anche in questi tempi di pandemia!».

Sempre il papa ha detto: «La luce di Dio, oggi, è offuscata dalle preoccupazioni del quotidiano». È possibile, secondo lei, riconquistare appieno una dimensione più spirituale della propria vita? E come?

«Sì, certamente! Sono convinto che l’istanza spirituale appartiene alla vocazione prima di ogni essere umano. Non sono le preoccupazioni vere del quotidiano a impedirci di realizzarla, ma le nostre illusioni, le nostre false rappresentazioni di felicità e di pienezza. C’è tanto rumore dentro di noi, facciamo tanto strepito con noi stessi. Il silenzio, il desiderio di lasciarci incontrare dall’altro in verità, il coraggio di riconoscere la propria fragilità, continuando a credere di essere amati e di poter amare: sono esperienze possibili a tutti!».

Glielo chiedo anche a proposito di un’altra considerazione di Francesco, qualcosa su cui il papa insiste di continuo; nella lettera enciclica “Laudato Si’” leggiamo questo passaggio: «La spiritualità cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità della vita, e incoraggia uno stile di vita profetico e contemplativo, capace di gioire profondamente senza essere ossessionati dal consumo. È importante accogliere un antico insegnamento, presente in diverse tradizioni religiose, e anche nella Bibbia. Si tratta della convinzione che “meno è di più”. Infatti, il costante cumulo di possibilità di consumare distrae il cuore e impedisce di apprezzare ogni cosa e ogni momento». Come si esce dal Natale dei lustrini per entrare nel Natale della riflessione e del discernimento?

«Una via possibile è probabilmente il riconoscimento di quella profonda insoddisfazione che continua ad abitarci quando cerchiamo di riempire il nostro vuoto di cose e di emozioni artificiali. Un ascolto vero del desiderio più autentico, che abita il cuore di ogni essere umano, ci può mettere in contatto con la Sorgente a cui attingere la linfa per rinnovare i nostri comportamenti e motivare scelte più coraggiose. In ogni caso, occorre rendersi conto che niente e nessuno potrà fare questo lavoro di umanizzazione al nostro posto».

Quali sono le maggiori difficoltà vissute dalla Chiesa cattolica nel Ticino del XXI secolo? Anche qui, ad esempio, le messe sono sempre meno frequentate? E perché, secondo lei?

«A questo riguardo, la Chiesa cattolica in Canton Ticino vive per la gran parte le stesse difficoltà che la Chiesa incontra in tutto il mondo occidentale. Il fenomeno non è solo quello di una diminuzione della pratica religiosa o del numero delle vocazioni al ministero ordinato o alla vita religiosa. È principalmente quello della difficoltà crescente, per i singoli individui e per intere fasce della società, di stabilire un legame intimo e personale tra ciò che la tradizione cristiana propone e la propria vita quotidiana. Bisogna riconoscere che con l’indebolirsi dei canali di trasmissione istituzionali, come la famiglia o la scuola, le persone si trovano sempre più sole nel discernimento di ciò che le fa veramente vivere. Inoltre, gli scandali e le numerose contro-testimonianze riportate con grande rumore dai media contribuiscono ad accrescere lo smarrimento. Non si tratta di puntare il dito contro niente e contro nessuno. Occorre semplicemente prendere umilmente atto della realtà e non perdere la fiducia di poterla abitare in maniera vera e possibilmente creativa».

La fede in Dio come si concilia con la fede negli uomini?

«Si concilia, se ci si rende conto che non c’è nessuno che creda così tanto nell’uomo quanto il Dio vivente, il quale si è manifestato in Gesù di Nazaret, figlio di Maria e di Giuseppe secondo la Legge. Anzi, di fronte agli enormi fallimenti e ai disastri planetari di cui continuiamo a mostrarci capaci, non so dove potremmo trovare la ragione per continuare ad avere fiducia in noi stessi se non nel fatto che Dio continua a rischiare tutto a ogni nascita di essere umano, chiamato a rispondergli nella libertà e per amore».

In questo senso, quanto è importante il dialogo con i non credenti? E ha ancora un senso utilizzare questa espressione? Dice papa Francesco: «Non voglio in alcun modo e in nessun contesto distinguere tra credenti e non credenti. Siamo tutti umani, apparteniamo a un’unica enorme famiglia senza confini o distinzioni, e come uomini siamo tutti sulla stessa barca. E nessuna cosa umana deve essere distante o estranea per un cristiano. Nessuna».

«Penso anch’io che il dialogo tra chi si presenta come cristiano e chi invece non si riconosce in questa denominazione debba svolgersi sulla base della comune appartenenza alla famiglia umana. Gesù ha ripetuto spesso a chi lo incontrava e veniva guarito da lui: “La tua fede ti ha salvato”. Penso che sia più che mai da valorizzare questa primordiale dimensione dell’umano, che è la capacità di tornare a sperare e ad affidarsi anche dopo le più dure esperienze. La volontà di vivere e di dare realizzazione autenticamente umana alla nostra vita è la radice che ci accomuna ed è la voce che siamo chiamati ad ascoltare in primo luogo in noi e in chi ci sta accanto».

Qual è il suo augurio per il 2022 dei ticinesi?

«Auguro a me e a tutti di non cedere mai alla tentazione dello sterile lamento, dell’autocommiserazione e della polemica inutile e fine a sé stessa. Non dimentichiamoci di respirare, lasciando cadere puntigli e risentimenti!».

Monsignor Lazzeri, le faccio un’ultima domanda che riguarda i bambini e il loro universo fantastico. Suoi illustri confratelli nell’episcopato - penso all’ex vescovo di Como, monsignor Alessandro Maggiolini, o all’attuale vescovo di Noto, monsignor Antonio Staglianò - non hanno esitato a dire ai più piccoli che Babbo Natale non esiste, nel tentativo di rimettere al centro la figura di Gesù Bambino. Non crede che ci sia modo di far coesistere, nella fantasia dei bambini, figure che in fondo non contrastano tra loro, lasciando che la verità emerga nel tempo (necessariamente breve) dell’infanzia e senza alcun trauma?

«Penso che se riuscissimo un po’ di più a far gustare la bellezza dell’evento cristiano, non dovremmo preoccuparci troppo di altre modalità per far suscitare nei più piccoli l’attesa e la gioia del Natale di Gesù. Lo stupore che i bambini provano ogni volta di fronte a un bel presepe ci dovrebbe rassicurare!».