In aula l'ex direttore amministrativo di SCuDO, che nega ogni addebito

Non è stata una separazione lavorativa pacifica, quella tra il Servizio di assistenza e cure a domicilio del Luganese (SCuDO) e il suo ex direttore amministrativo. Come è emerso ieri, la separazione (risalente a sei anni fa) è stata infatti conseguente ai sospetti dell’Ente di pubblica utilità nei confronti dell’uomo, un 62.enne ticinese residente nel Luganese. Sospetti che sono confluiti in un atto d’accusa che lo vede imputato per ripetuta e aggravata amministrazione infedele e falsità in documenti. Le presunte malversazioni ai danni di SCuDO (e in misura minore di un’altra associazione di pubblica utilità del Luganese attiva nel settore delle cure a domicilio, di cui era vicepresidente) ammonterebbero a 287.000 franchi. L’ex direttore contesta fermamente ogni addebito a suo carico: «Non mi sento colpevole di niente - ha detto ieri in aula. - Ribadisco la mia buona fede e l’aver sempre agito negli interessi di SCuDO». La sentenza della Corte delle assise correzionali presieduta dalla giudice Monica Sartori-Lombardi è prevista per oggi.
«Non c’era nulla di nascosto»
All’uomo è sostanzialmente imputato di aver fatto, fra il 2014 e il 2019, un uso improprio della somma indicata, in parte a suo beneficio, in parte per delle regalie e degli aiuti puntuali ai dipendenti, che però non sarebbero state concordate con i suoi superiori. L’ex direttore ha per contro sostenuto di aver seguito la prassi in vigore a SCuDO, seppure non necessariamente corretta dal punto di vista formale, e di averlo fatto con l’avallo dei suoi superiori - in particolare del presidente - e seguendo quindi quello che credeva quindi essere nell’interesse della società. Ha per contro negato di aver mai usato denaro di SCuDO o dell’altro Ente di pubblica utilità per suoi scopi personali.
«Quella che lei gestiva - gli ha detto la giudice Sartori-Lombardi - non era la contabilità della bocciofila, ma quella di un Ente d’interesse pubblico in cui giravano milioni. Doveva rendersi conto che andava tenuta in modo rigoroso». «Ma non c’era niente di nascosto nella contabilità», ha risposto il 62.enne.
«Un tentativo goffo»
Nella sua requisitoria, la procuratrice pubblica Caterina Jaquinta Defilippi (che ha ereditato l’incarto), ha definito l’imputato una persona «che si è mossa in modo abile e ha abusato del suo ruolo». Le accuse mosse al suo superiore sono invece state descritte come «un tentativo goffo» di scaricare le proprie responsabilità: «Il presidente è dipinto come un despota, ma non c’è nessuna logica. Perché avrebbe dovuto denunciare penalmente l’ex direttore, rischiando di creare un’eco mediatica, quando bastava licenziarlo?». Ha quindi chiesto la sua condanna a una pena di 18 mesi interamente sospesa e al risarcimento del presunto danno causato. A mente dell’avvocata Fiammetta Marcellini, che rappresenta le due Associazioni, l’imputato «è una sorta di Robin Hood che invece di prendere ai ricchi depauperava Enti di pubblica utilità. In parte possiamo credere ai suoi impulsi altruistici, ma alcuni soldi li ha presi per il proprio beneficio personale».
Il legale dell’uomo, l’avvocato Nadir Guglielmoni, ha invece chiesto l’integrale proscioglimento del suo assistito, parlando di «una vicenda con diverse anomalie, iniziata con delle lettere anonime». Una vicenda in cui il suo assistito «non ha mai intascato nulla, tant’è che sui suoi conti e su quelli dei suoi familiari questi soldi non sono stati trovati. Si è solo adeguato a una prassi consolidata, condivisibile o meno, con il beneplacito dei suoi superiori. Il tutto a favore del suo datore di lavoro». Si tratterebbe «fondamentalmente di una caccia alle streghe: perché dovrebbe pagare solo il mio cliente per una prassi condivisa nell’Associazione?». E ancora: «Se i soldi sono stati usati nell’interesse di SCuDO, si può ancora parlare di amministrazione infedele ai danni di SCuDO?».
Attinto ai doppi pagamenti
Buona parte delle presunte malversazioni sono state alimentate usando gli importi pagati in doppio dagli utenti per errore. Importi che, a mente dell’accusa, l’imputato «scaricava» da un conto transitorio a suo favore. L’ex direttore, invece, ha affermato che era prassi rimborsare solo «le grosse cifre» pagate in doppio, e quindi non le altre, che sarebbero state invece utilizzate per concedere i vari benefit ai dipendenti. L’avvocato Guglielmoni ha parlato in tal senso di «cassa nera». Nel frattempo, gli importi sono stati restituiti agli utenti (la cosa è attestata sull’atto d’accusa). Per capire se si sia trattato di un escamotage dell’imputato o di un’effettiva prassi all’interno di SCuDO, bisognerà però attendere la sentenza.
