«In cure intense 105 posti per pazienti COVID: era impensabile»

«Quarantacinque pazienti in terapia intensiva». È uno dei numeri annunciati ieri dallo Stato maggiore cantonale di condotta. La curiosità, la triste curiosità, è che, prima che tutto ciò si scatenasse, i posti totali in terapia intensiva in dotazione al Cantone erano proprio 45.
Dottor Ferrari, le terapie intensive ieri e le terapie intensive oggi. Sono sempre le stesse?
«Le cure intense non sono cambiate da ieri a oggi a causa del COVID, continuano a essere quelle cure che richiedono una sorveglianza costante delle funzioni vitali e un’assistenza di tipo medico e infermieristico molto specialistica e altamente competente. Ciò che ha cambiato faccia al settore delle cure intense è il fatto che una grossa proporzione dei pazienti che richiedono un ricovero a causa del coronavirus finisce proprio lì. Ciò porta a una smisurata domanda di attrezzature e personale specializzato. Il paziente delle cure intense di un mese fa, quello che veniva per un infarto o per un politrauma, richiedeva una gestione clinica identica a quella di un paziente con COVID. È il numero dei pazienti a fare la differenza in questo caso».
Una specializzazione, quella del personale delle cure intense, che ha affrontato un’evoluzione, negli ultimi decenni.
«Sì, diciamo che le cure intense di oggi non sono quelle di vent’anni fa, quando ancora erano il chirurgo o l’internista a supervisionare i pazienti, anche dopo l’intervento, in una camera dotata di alcuni letti monitorizzati. Da allora il reparto si è trasformato in una disciplina specialistica a sé stante, con servizi di medicina intensiva indipendenti, dove la gestione primaria non è più nelle mani del chirurgo che ha compiuto l’intervento, bensì dello specialista di medicina intensiva appunto. E il chirurgo o l’internista di turno vengono presi come consulenti per gli aspetti di loro competenza. Un cambiamento, questo, che risale a quindici-vent’anni fa».


Il coronavirus si è inserito in questa realtà.
Ripeto: da un punto di vista della gestione del singolo paziente nulla è cambiato rispetto a un mese fa. Ma il numero di pazienti che giornalmente richiedono un ricovero in un letto di medicina intensiva è però aumentato in un modo che nessuno poteva prevedere. Oggi come oggi, in Ticino abbiamo creato 105 letti di cure intense per pazienti con COVID-19. Bisogna però pensare che anche nel nostro Cantone, anche oggi, dovremo provvedere al ricovero di pazienti per altre malattie, che non sono il COVID; pazienti quindi che necessiteranno di letti e cure. Per questi casi abbiamo dovuto mantenere dei letti di cure intense a parte, in sostanza tutti al Civico, potenziati da 16 a 23, oltre ai 6 del Cardiocentro. Un mese fa, nell’intero Ticino, comprendendo i quattro ospedali dell’Ente ospedaliero cantonale e la Clinica Luganese Moncucco, i letti per le cure intense erano 45, 42 dei quali con la possibilità di ventilare i pazienti. Allora il numero di oggi era pressoché inimmaginabile».
Avete insomma dovuto rovesciare un mondo. Facile immaginare non sia ancora finita.
«Non è stata un’impresa semplice, perché si possono mettere a disposizione tutte le risorse tecniche, tutti i ventilatori e tutti i letti che vogliamo, ma colmare due anni di formazione di un infermiere di cure intense in sole quattro settimane non si può farlo. Allora abbiamo dovuto essere fantasiosi nell’individuare il personale di cura con competenze adeguate, trovandolo nel personale delle sale operatorie, tra gli anestesisti e le infermiere di anestesia, resi disponibili dal rinvio dei vari interventi chirurgici non urgenti».

Nessuna soluzione nel cassetto, insomma. Non c’erano già delle strategie in caso di eventuali epidemie?
«No, purtroppo nessuno poteva anticipare un’epidemia di questo genere, né l’ente cantonale né altre strutture svizzere e neppure altri Paesi europei. Forse c’erano nazioni più pronte, in estremo Oriente, forse, in quei Paesi già precedentemente toccati da epidemie di una certa gravità. Basti pensare alla SARS. Ecco, in quei Paesi già esistevano procedure a livello governativo, protocolli di contenimento, il tutto implementato nel caso in modo rapido e deciso. Quando abbiamo iniziato ad affrontare la sfida del COVID all’interno della cellula di crisi, poco più di un mese fa, cercando di capire come gestire la situazione, consideravamo persone a rischio coloro che rientravano da un viaggio dalla Cina o dalla Corea, nella stessa Corea del Sud vi erano settemila casi documentati. Da allora in Corea il numero dei contagi è aumentato di poco, mentre in poche settimane la Svizzera sta per superarli. La differenza l’hanno fatta procedure di contenimento già ben rodate, messe quindi subito in atto dallo Stato con un pronto intervento. Nessuno poi ci aveva anticipato che questo virus sarebbe stato accompagnato da una polmonite così aggressiva, al punto da portare a un’insufficienza respiratoria, che obbliga il paziente alla terapia intensiva, a essere sedato e intubato. Nessuno poteva prevedere questa situazione. E neppure la velocità di diffusione tra la popolazione, in un modo tanto subdolo».


Da lì alla pressione sul sistema sanitario è un attimo. A che punto siamo in Ticino?
«All’EOC lavoriamo senza tregua dal 21 febbraio. Da allora abbiamo ridisegnato quella che era l’offerta sanitaria dei quattro ospedali dell’EOC per far fronte a questa crisi. Certo, abbiamo dovuto metterci dell’improvvisazione, ma l’abbiamo studiata nei minimi dettagli, valutando ogni possibile scenario, implementando le modifiche a piccoli grandi passi. Una rivoluzione. Adesso abbiamo la Carità che si occupa dei pazienti a livello 1 e 2, dove l’1 sta per le cure intense, il 2 per i casi acuti di COVID-19; l’Italiano diventa la struttura sub-acuta, che ospita i pazienti che hanno superato la fase più critica. Ora stiamo valutando anche una quarta fase, per la convalescenza, in un’altra delle nostre strutture. E poi c’è Moncucco, che ha presto capito l’impatto che avrebbe avuto questa malattia, mettendosi a disposizione quindi in modo da creare, tutti assieme, la capacità necessaria per la presa a carico dei pazienti. Qui sorge la domanda da un milione di dollari: basterà? Difficile rispondere, tutto dipende dall’ormai famosa curva. Se riusciamo ad appiattirla, ce la faremo. In questa fase è ancora prematuro dire a che punto siamo della curva, se le misure introdotte riusciranno a cambiare il suo corso».
Come si vivono dall’«interno» le decisioni prese all’«esterno»?
«Lo scambio di informazioni funziona bene sui due lati. Certo, c’è stata della frustrazione, da parte del settore medico, quando già ci si rendeva conto che quanto stava accadendo in Lombardia sarebbe diventato realtà anche qua. Si capiva che era solo una questione di giorni e che era urgente prendere misure istituzionali per mitigare l’impatto di questa malattia, non solo dal punto di vista delle strutture ospedaliere. Era ovvia l’importanza da una parte delle misure di contenimento, a cominciare dall’uso della distanza sociale, e dall’altra di una maggiore sensibilizzazione della popolazione. Questo è stato un aspetto frustrante. Oggi la comunicazione funziona bene. Per il resto noi pianifichiamo il nostro lavoro giornalmente, rivedendo continuamente i piani per creare la capacità delle strutture ospedaliere necessaria per la presa in carico di questo grande numero di pazienti, seguendo l’evoluzione della malattia e dei casi. Finora siamo sempre stati diversi passi in avanti. È vero, abbiamo dovuto lavorare giorno e notte, con uno sforzo entusiastico da parte di tutti, e a oggi non siamo mai stati con l’acqua alla gola. Anche oggi, se guardiamo il numero dei pazienti ricoverati e i posti letto disponibili, possiamo stare relativamente tranquilli».
Fuori il virus fa paura. Il personale sanitario può permettersi di avere la nostra stessa paura?
«Sicuramente una certa paura esiste anche tra il personale sanitario, ma come professionisti nel campo siamo coscienti di cosa siano le malattie virali. Vediamo questo coronavirus da un’ottica differente che ci permette sì di avere dei timori, delle preoccupazioni, ma senza entrare in una situazione di panico, di ansia. È destabilizzante per la popolazione il fatto che nessuno sappia dare messaggi chiari, ma questo succede proprio perché si tratta di una cosa nuova, che si è sviluppata in modo rapidissimo. E poi colpisce la mortalità estremamente elevata soprattutto tra gli anziani colpiti».