«Inseguendo l’identità perduta si favoriscono nuovi populismi»

Attento osservatore della realtà ticinese e internazionale, l’avvocato Giancarlo Olgiati, in questa lunga chiacchierata, ci offre il suo sguardo sul mondo che cambia, con un accenno alla sua grande passione, l’arte moderna e contemporanea.
Avvocato Olgiati, la
ringrazio per aver accettato questa intervista e per aver infine assecondato la
mia insistenza. Lo spunto è anche un suo scritto del 2024 pubblicato sui due
quotidiani ticinesi, in cui lei ha messo l’accento sulla politica culturale laica,
liberale e democratica, che oggi considera «sotto assedio». Perché e da chi?
«Va fatta una
distinzione importante: la cultura liberal-democratica è sotto assedio per
fattori sia interni che esterni. Qui mi concentro su quelli interni al Cantone,
pur essendo il fenomeno diffuso in tutta la Svizzera e in Occidente. In Ticino,
da oltre trent’anni, assistiamo a un deficit di cultura politica che ha
indebolito i partiti liberal-democratici, come il PLR. Questi non riescono più
a selezionare una classe dirigente né a elaborare una visione strategica,
perché sono venuti meno sia la cultura dei mezzi (rigore fiscale e finanziario)
sia quella dei fini (libertà individuali e giustizia sociale). Ne consegue
anche l’abbandono della loro tradizionale vocazione interclassista. Questa
crisi ha generato uno scollamento tra i vertici e le istituzioni, accentuando
la personalizzazione della politica. Molti politici, anche liberal-democratici,
inseguono un’identità perduta, favorendo nuovi populismi di destra e di
sinistra. Il centro politico, un tempo ponte tra le parti, oggi non riesce più
a fare da argine, contribuendo alla disaffezione e all’astensione. Ma la
personalizzazione della politica in base a un interesse di parte ha colpito
anche un vecchio movimento, la Lega, con lo scambio di dipartimenti fra
consiglieri di Stato leghisti, operazione che ha segnalato difficoltà nella
“Lega di Governo”. Una Lega, insomma, che è passata dalle virtù del primo
movimento (che aveva capito la crisi dei partiti storici), all’involuzione di
oggi più partitocratica che movimentista. Questa proposta ha galvanizzato solo
i leghisti, perché ha portato complessivamente i migliori commentatori politici
e non pochi cittadini a riflettere sul profilo istituzionale dei politici in
Governo e in Parlamento. In effetti, a riguardo, la soluzione governativa di
compromesso del “mini arrocco” non è certamente confortante e lo è ancora meno
la sterile discussione in Gran Consiglio. Ritornando al funzionamento dei
partiti, un segnale positivo arriva anche se tardivamente dal PLR con la nomina
di quattro vice-presidenti di spessore politico e taluno anche culturale come
l’avv. Natalia Ferrara, autrice di un bel libro che analizza il rapporto tra
liberalismo e populismo. Anche la rivista Lib offre spunti interessanti, pur
essendo troppo legata al PLR. È sempre fondamentale in un’ottica liberale
tenere distinta la cultura dalla politica. È presto per parlare di un vero
rilancio politico, ma resta forte e preziosa la tenuta delle istituzioni di
democrazia diretta, come il referendum, che, salvo qualche sbavatura, in Ticino
e in Svizzera continua a essere uno strumento efficace di partecipazione e
controllo».
Attraversiamo un lungo
periodo delicato e di grande preoccupazione a livello geopolitico: l’estremismo
nazionalista la preoccupa?
«L’estremismo
nazionalista rappresenta una deriva per le democrazie liberali. Un esempio è la
crisi degli Stati Uniti sotto Donald Trump, che ha mostrato disprezzo per la
separazione dei poteri, il ruolo dell’opposizione, di tutte le Autorità
indipendenti a cominciare dalla Federal Reserve e del multilateralismo. Le sue
politiche protezionistiche, nate anche dalla perdita di prestigio di una
globalizzazione intrapresa troppo in fretta, hanno danneggiato il nostro Paese,
l’Europa e l’Occidente liberale e minato la stabilità del sistema liberale,
favorendo disuguaglianze e rischi economici. Anche se i due hanno litigato,
come era prevedibile visto il loro super ego, i loro interessi contrastanti
nella politica dei dazi e sulla legge di bilancio 2025 osannata da Trump e
ripudiata da Musk siccome nefasta per l’economia USA, non si può dimenticare,
come dato allarmante, che tra Trump e Elon Musk c’è stata un’alleanza non solo
elettorale ma di collaborazione governativa con la prospettiva di una
concentrazione di potere politico e tecnologico che avrebbe potuto e che ancora
potrebbe, con gli altri big tech, minare la democrazia a vantaggio di pochi.
Come dovevasi dimostrare, è notizia di qualche giorno fa che Elon e Donald si
sono messi di nuovo d’accordo. I funerali del giovane Charlie Kirk hanno creato
l’occasione che, tuttavia, era nell’aria… Questo nuovo “tecno-feudalesimo”,
come lo definisce Yanis Varoufakis, rischia di trasformare il mondo in una
scacchiera dominata da oligarchie industriali di stampo politico, con gravi
conseguenze per la coesione sociale, le paci giuste e il diritto
internazionale. Gli esiti dell’invasione russa dell’Ucraina ne sono un esempio,
poiché il comportamento di Trump da aspirante autocrate è più vicino a Putin
che ai leader democratici dell’Occidente. È quindi fondamentale difendere qui e
in tutto l’Occidente le istituzioni liberali, confidando che negli Stati Uniti
i meccanismi di garanzia reggano, nonostante un Congresso repubblicano
latitante e una Corte Suprema pure repubblicana orientata su posizioni
ideologiche super conservatrici. Fortunatamente, accanto alle big tech, oggi
esentate dalla global tax del 15% dal G7 per evitare le rappresaglie di Trump
su imprese e cittadini in particolare europei già con i dazi, c’è pure la vitalità
del capitalismo privato americano. Quest’ultimo non ha alcun interesse per la
politica e proprio per questo è in continua trasformazione grazie a
innovazione, meritocrazia e integrazione sociale; è un capitalismo che vede nel
modello californiano della Silicon Valley il suo punto più alto con
imprenditori, ricercatori e dirigenti che vengono da ogni continente. Le
oligarchie industriali sono più presenti in Europa e in Giappone che non negli
USA. Questo formidabile sistema che produce innovazione e grande ricchezza è in
grado di garantire agli USA di competere ancora con la Cina, che vorrebbe
assumere, grazie all’errore dei dazi di Trump, una funzione da leader nella
formazione di un nuovo ordine geopolitico mondiale. Sull’esempio dell’UE, il
Consiglio federale ha l’intenzione di prendere, anche se tardivamente, una
strada tesa a imporre per legge un tributo (in particolare una “digital tax”)
alle autostrade del digitale. È necessario che queste iniziative di
regolamentazione di siffatte piattaforme resistano ai ricatti sui dazi di
Trump. In effetti, i giganti del web hanno dichiarato di essere paladini della
“libertà di espressione”. Donald Trump non ha trovato di meglio che sostenere
questa posizione al punto che ogni tentativo di disciplinare rete e social è
considerato “mera censura”. Si tratta ovviamente di un’affermazione arbitraria
e ipocrita. Se, come dice l’ultimo numero di agosto della Neue Zürcher Zeitung
am Sonntag, vogliamo accettare che il web sia un “mondo parallelo”, in cui
tutto è lecito, dobbiamo prepararci al peggio (pettegolezzo, ricatto,
umiliazione e violenza principalmente sulle donne)».


Un nuovo Papa popolare
per una Chiesa aperta al dialogo può aiutare?
«Con la morte di papa
Francesco, si è persa una voce forte e scomoda che ha saputo richiamare l’etica
nel dibattito globale. Il suo messaggio è stato spesso più ascoltato dai laici
che dai credenti. Pur non avendo colto appieno il potenziale del capitalismo
sociale di mercato, ha indicato la via a una necessaria solidarietà
dell’Occidente libero fondata su libertà e giustizia al servizio della pace. La
scelta del nuovo Papa, americano e agostiniano, Robert Francis Prevost, va in
una continuità più ordinata: cresciuto tra Chicago e il Perù, conosce le
ragioni dell’efficienza al servizio della libertà e della giustizia sociale. Il
suo primo messaggio ha richiamato a una “pace disarmata e disarmante”,
rivolgendosi non solo alla Chiesa, ma anche alla politica. Il suo appello ha
ridato fiducia alle democrazie liberali nel sostegno dell’Ucraina contro
l’autocrate Putin, che sperava in una legittimazione internazionale già
favorita inizialmente e incautamente da Trump, che tuttavia, anche se in cuor
suo l’ammira, si è accorto, non ottenendo nulla di concreto per la pace, che è
necessario avere qualche dubbio sull’affidabilità di un guerrafondaio come
Putin e sulla sua propaganda. È chiaro che una legittimazione così plateale
come l’incontro in Alaska non doveva essere data anche perché in questi ultimi
tempi è stata profondamente scalfita dagli insuccessi della sua politica
d’alleanze (il crollo del regime di Assad, il palese indebolimento della
Repubblica islamica dopo il massiccio attacco prima israeliano e poi, ancora
più risolutivo, americano contro il possibile sviluppo di un uso dell’energia
atomica a scopo militare). Queste guerre si scatenano perché oggi esistono
ormai solo i rapporti di forza e il diritto internazionale è già da tempo non
praticato. È talmente vero che l’azione di Trump ha portato a una tregua fra
Israele e Iran. L’accordo di pace appena siglato in Medio Oriente è una
espressione di questo tipo, tuttavia accompagnata da un notevole disegno
politico di Trump e della sua amministrazione, in cui c’è però anche l’abilità
di Tony Blair. Questa azione ha coinvolto tutti i Paesi arabi moderati
costringendo Netanyahu a trattare e a fermare due forze genocide che animano,
come in una tragedia greca, lo scontro, come sottolineato da Sergio Fabbrini su
“Il Sole 24 ORE”, fra due “teocrazie politiche” (i partiti religiosi, che
sorreggono il Governo israeliano, da una parte e Hamas, soggetto dominante
nella gestione dello Stato palestinese, dall’altra). In effetti, a fronte
dell’aggressione criminale e genocida di Hamas del 7 ottobre 2023, che ha
scatenato la guerra contro lo Stato di Israele e gli ebrei nel mondo, ambedue
nemici che non hanno diritto di esistere, c’è stata una reazione sproporzionata
del Governo israeliano dominato dai partiti religiosi che si è rapidamente
trasformata in un genocidio non solo nei confronti di Hamas, ma anche in quelli
del popolo palestinese perché ambedue non hanno diritto di esistere… Ora un
accordo è stato trovato: Hamas è finalmente pronto a restituire tutti gli
ostaggi e Israele a iniziare il ritiro da Gaza delle sue truppe. A questo
punto, l’Europa (l’UE), con l’aiuto del papa americano, potrebbe rilanciare
diritto e democrazia (cominciando a partecipare al processo di pace in Medio
Oriente). Ma è purtroppo sinora ancora troppo assente perché non riesce a
concepirsi pienamente come soggetto politico autonomo in una prospettiva
internazionale. Tutte le democrazie liberali europee hanno estremo bisogno del
soggetto politico UE sempre più deburocratizzato e liberale e con esse la
Svizzera se dovesse approvare con il Governo e le Camere l’accordo con l’UE.
Accordo che occorrerebbe poi fare il possibile affinché sia approvato dal
popolo e dai Cantoni rendendo così più attuale il concetto di “neutralità”,
tanto per la sua sicurezza quanto per la sua economia».
Torniamo al Ticino,
avvocato. Lei è stato membro del Gran Consiglio ticinese dal 1971 al 1989 e
sostiene che oggi nei partiti e fra i partiti il dibattito è sempre più
assente. Qual è il motivo?
«La crisi della cultura
politica ha portato alla scomparsa del dibattito pubblico, un tempo vivo e
produttivo nei partiti e tra i partiti. Ne beneficiava anche la stampa, sia di
partito che indipendente. Il PLRT, ad esempio, poteva contare su una rivista di
alto livello come “Ragioni Critiche”, che ebbi l’onore di dirigere. Ma ne
beneficiava anche il rigore amministrativo, che precedeva ogni scelta politica.
Oggi, invece, il confronto si è impoverito. I partiti privilegiano logiche di
schieramento, trascurando i contenuti. Una rara eccezione è il PLR di Lugano,
in cui Natalia Ferrara, autrice dell’importante libro già citato su liberalismo
e populismo, ha condotto come capo gruppo in Consiglio comunale un’opposizione
intelligente e ferma. Lo dimostra il puntuale intervento critico sulle nomine
nelle partecipate comunali decise dalla maggioranza in barba a conflitti di
interessi e competenza. Oggi, in un clima conformista, iniziative come queste
sono coraggiose e necessarie per rilanciare il PLR e renderlo competitivo, in
particolare nella corsa alla sindacatura. In questo contesto è preziosa la
forza tranquilla di Roberto Badaracco che, come presidente del Consiglio di
Fondazione, ha portato il LAC, che ha appena festeggiato dieci anni dalla sua
fondazione, a livelli di eccellenza culturale dimostrando quanto assurdo fosse
l’iniziale contrasto della Lega e provvida, intelligente e coraggiosa la
realizzazione del progetto da parte di Giovanna Masoni, progetto pure
fortemente voluto dal sindaco Giudici. Siccome il dibattito politico ai tempi
nostri si è azzerato, si dà il caso che, dopo gli esiti dei referendum di
domenica 28 settembre, la situazione della finanza pubblica a livello cantonale
si è ancora più aggravata a causa di una assurda riforma della già defunta
legge sulla cassa malati. Un’iniziativa che ha provocato un pesantissimo
aumento del debito pubblico di mezzo miliardo (strutturalmente in crescita per
le spese in particolare quelle mediche) grazie ai referendum promossi dagli
opposti estremismi populisti (PS e Lega) e in assenza di un controprogetto
razionale e creativo del Governo e della mancanza in sua vece di una proposta
di siffatta natura dei partiti storici. A questo punto, il PLRT deve ridefinire
ruolo e strategia allo scopo di evitare un pesante aumento delle imposte e
cercare una possibile alleanza di “volenterosi” composta da parlamentari con
una solida preparazione finanziaria che provengono sia dal proprio gruppo
parlamentare che dalla vecchia destra di tradizione liberale ora targata UDC-Lega
(in quella componente è di riferimento il sindaco di Lugano), dal Centro e
dalla Sinistra moderata che ha lasciato il PS per avere numeri, competenze e
comune visione per il bene del Paese. In effetti, un eccessivo aumento delle
imposte creerebbe un’ulteriore disaffezione verso la politica da parte di quei
cittadini che vi partecipano razionalmente».


Avvocato, cosa pensa
delle sorti della stampa indipendente cantonale e del canone RSI?
«Per me la difesa della
stampa indipendente è un tema cruciale. Da tempo sollevo la questione,
avvertendo i segnali di crisi. Già in passato, avevo accolto con favore il
primo intervento federale a sostegno della stampa locale, purtroppo respinto da
un referendum. Oggi i segnali sono finalmente beneauguranti, e si torna
finalmente a discutere di soluzioni. È di pochi giorni fa la luce verde del
Gran Consiglio per un concreto sostegno ai giornali ticinesi, mentre già in
precedenza, a Berna, il Consiglio nazionale aveva approvato un aumento degli
aiuti indiretti ai media regionali, portandolo da 30 a 40 milioni di franchi.
In un’epoca dominata dai media globali, che assorbono pubblicità e contenuti
senza regole né compensazioni, è giusto che lo Stato intervenga per proteggere
la stampa indipendente, fondamentale per la difesa della democrazia. Lo stesso
discorso vale naturalmente per la RSI, la maggiore industria culturale della
Svizzera italiana, ora minacciata da un’iniziativa contro il canone. Un’iniziativa
nata senza considerare i cambiamenti epocali nel mondo della comunicazione, che
rischia di privarci di un’informazione libera e approfondita, decisiva insieme
con una neutralità attiva anche per il posizionamento internazionale della
Svizzera, come dimostrano i recenti negoziati sui dazi fra USA e Cina a
Ginevra. Infine, va ricordato un fattore spesso trascurato: l’invecchiamento
della popolazione. Gli anziani, che ne sono i più grandi utilizzatori, hanno
bisogno di accesso garantito a quotidiani, radio e televisione. Per concludere:
difendere stampa e servizio pubblico è un dovere. Serve una riflessione più
matura per respingere proposte sbagliate, nate fuori tempo».
Lei è stato pure
presidente della Commissione tributaria del Governo cantonale: perché il nostro
Cantone non riesce a diventare quell’Eldorado che per peculiarità potrebbe
rappresentare all’interno del Paese?
«Negli anni ’90 e nei
primi 2000, il Ticino era tra i cantoni più competitivi sul piano fiscale.
Questo risultato derivava da un lavoro rigoroso delle commissioni tributarie e
da governi competenti. Il migliore fu quello guidato da Buffi, Masoni e Martinelli
che, in sinergia con il Municipio di Lugano (Giudici e Valeria Galli), seppe
coniugare gestione finanziaria e sviluppo culturale, avviando tra l’altro la
fondazione dell’USI nel 1996. La Commissione tributaria, che allora dirigevo,
era composta solo da tecnici e guidata da un direttore del fisco di esemplare
competenza come Edy Dell’Ambrogio. Si impostò una politica fiscale attrattiva:
il Ticino occupava il terzo posto a livello nazionale. C’era consapevolezza dei
rischi della concorrenza fiscale tra cantoni e contestualmente di un attento
controllo della spesa pubblica. Questo modello virtuoso favorì lo sviluppo di
attività economiche, culturali e sanitarie. Da oltre vent’anni, però, quel
metodo è stato abbandonato: oggi il debito pubblico è fuori controllo e la
pressione fiscale è tra le più alte della Svizzera. Il Ticino, pur avendo una
posizione geografica privilegiata, vede diminuire la propria ricchezza fiscale.
Il debito è del 12% superiore a quello dei cantoni più virtuosi e genera costi
fissi insostenibili. Gli scioperi a riguardo sono di conseguenza dannosamente
corporativi. Serve una “cura dimagrante” nella pubblica amministrazione: non
sostituire chi va in pensione e tagliare i costi della spesa improduttiva. Una
strategia già vincente a fine anni ’70, grazie al governo Sadis–Speziali, che
riportò ordine nelle finanze cantonali».


Se la politica ha perso
smalto, è innegabile che nel settore delle Scienze dei servizi e dell’Industria
si sono fatti importanti passi avanti nel nostro cantone. È d’accordo?
«Il Ticino non ha mai
avuto una forte tradizione industriale liberale e orientata all’esportazione,
come richiede il mercato internazionale. Tuttavia, negli ultimi 50 anni,
l’industria ticinese ha conosciuto uno sviluppo significativo, grazie
all’innovazione in diversi settori con prodotti esportati in tutto il mondo.
Questo successo si deve a un’economia sempre più integrata a livello globale, a
servizi finanziari efficienti sul territorio, all’introduzione di nuove
tecnologie e alla competitività fiscale. Un ruolo fondamentale lo ha avuto
anche il frontalierato, che ha garantito manodopera, dagli operai agli
specialisti. Questa dinamica economica ha contribuito anche alla nascita delle
università ticinesi, in particolare l’USI, che oggi restituiscono valore al
territorio formando capitale umano per industria e servizi».
Lei è anche e
soprattutto uomo di cultura ed esperto di arti visive. Partirei ricordando il
suo impegno nella creazione della Fondazione “Montecinemaverità”. Ce ne vuole
parlare?
«La Fondazione
“Montecinema Verità” nacque nel 1992 su iniziativa di Marco Müller, allora
direttore del Festival di Locarno, con il supporto mio e di Harald Szeemann. Il
mio supporto si rivelò essenziale grazie al fondamentale contributo finanziario
(e dei servizi di comunicazione creati dalla genialità di Luciano Benetton e
Oliviero Toscani) del Gruppo Benetton (50%) e a quello meno rilevante di RTSI
(20%), Swisscom (20%) e della Divisione della Cooperazione e dello Sviluppo
svizzera (10%). La Fondazione poté così avviarsi con successo e Szeemann,
figura di spicco nel mondo dell’arte, fu presidente; io ne fui vicepresidente
esecutivo, con Müller direttore. Nel consiglio sedevano anche Fabio Fumagalli e
Federico Jolli per la loro competenza cinematografica. Contemporaneamente,
entrai nel Consiglio di Amministrazione del Festival. La Fondazione aveva
l’obiettivo di promuovere le cinematografie del Sud e dell’Est del mondo,
allora poco conosciute. Con risorse contenute, riuscimmo a trasformare il
Festival di Locarno in un evento riconosciuto a livello internazionale come “il
primo dei piccoli festival”. Grazie all’appoggio di Buffi, Masoni e Martinelli,
il Cantone raddoppiò il contributo al Festival, riducendo la dipendenza dalla
Confederazione e da influenze esterne come la RTSI nelle nomine apicali. Nel
2000 Müller lasciò il Festival e assunse accanto a Laura Pollini la direzione
di Fabrica con cui produsse il film “No Man’s Land” con la regia di Danis
Tanović, vincitore del Premio Oscar come miglior film straniero, grazie alla
partecipazione organizzata dal sottoscritto, di Benetton (45%), Rai (25%), RTSI
(25%) e Tanović (5%) sotto l’egida e la promozione di Montecinemaverità e
Fabrica. Il Ticino visse in quegli anni una stagione di grande prestigio
culturale. Sarebbe giusto, oggi, che il Festival di Locarno ricordasse con
gratitudine quel periodo e ne traesse ispirazione per il futuro».


Restiamo nell’ambito del
mondo dell’arte, quello che oggi la vede in prima fila con una collezione
straordinaria tra i fiori all’occhiello della città di Lugano: quando è
iniziata questa travolgente passione del collezionismo?
«Il mio interesse per
l’arte è cominciato molto presto, poiché a 18 anni con tutti i miei risparmi
comprai la mia prima opera. Si trattava di una tecnica mista di Edmondo
Dobrzanski rappresentante una scena di lavori ferroviari con figure
espressioniste di stile un po’ sironiano. Edmondo era un artista
espressionista, forse l’artista ticinese più importante di quegli anni.
L’Espressionismo era la tendenza che più avevo guardato dopo la Seconda Guerra
Mondiale. Mostrava bene la condizione di sofferenza dell’uomo e della società
durante e dopo le guerre del Novecento. Ricordo che, ascoltando con grande
interesse i racconti di Dobrzanski, comprai un paio di anni dopo, sempre con
grandi sforzi finanziari, prima otto disegni di Alfred Kubin e poi tre
acquarelli e cinque disegni di Ludwig Kirchner, che rappresentano le sue ultime
opere prima del suicidio. Capii che collezionare era la mia vera passione,
perché non dissi mai nulla a mio padre e questi acquisti furono possibili solo
grazie a grandi sacrifici personali. Anche il confronto fra l’avanguardia
contemporanea (le opere di Edmondo Dobrzanski) e l’avanguardia storica (le
opere di Alfred Kubin - protagonista del “Blaue Reiter” e quelle di Ludwig
Kirchner - protagonista della “Brücke”), fu un metodo che individuai da subito
e che non mi abbandonò mai».
Lei sostiene che il
metodo è fondamentale per creare una grande collezione. È, quindi, giusto avere
uno sguardo sull’Avanguardia storica per meglio capire l’Avanguardia
contemporanea. Significa capire le ascendenze?
«Come ho detto sopra, è
un metodo che ho sempre seguito nei miei acquisti. Vedi i “Nouveaux Réalistes”,
il cui rapporto con le Avanguardie Storiche (Futurismo e Dadaismo) è evidente.
Un esempio è Arman, artista che amavo e amo e di cui fui anche avvocato. Quando
ho acquistato una sua “Allure d’Objets” ho riconosciuto subito l’influenza di
Balla, e così è stato con le “Accumulazioni” discendenti da Schwitters. Credo
sia fondamentale individuare le “ascendenze” degli artisti contemporanei: più
un artista conosce il proprio debito verso chi l’ha preceduto, più è
significativo il suo lavoro. Secondo me, questa è una chiave di lettura
importante per valutare un’opera prima dell’acquisto».


Si dice Giancarlo
Olgiati e si pensa subito al sodalizio con sua moglie Danna. Ci vuole parlare
di questo incontro decisivo?
«La mia attività di
collezionista fu sin dall’inizio un percorso solitario, segnato soprattutto
dagli acquisti di opere del Nouveau Réalisme. Fu Arman, conoscendo la mia
passione per Balla, a introdurmi nel 1985 alla Galleria Fonte d’Abisso, dove
acquistai due opere di Balla e conobbi Danna, titolare della Galleria
(specializzata nei futuristi) e che sarebbe diventata la compagna della mia
vita. Da quel momento la Collezione è cresciuta con coerenza e discrezione,
guidata da un’intesa mai venuta meno. Ogni acquisto è stato condiviso.
Frequentando il mondo dell’Arte abbiamo anche visitato insieme molte gallerie,
vere scuole di formazione, e abbiamo costruito una Collezione centrata
sull’arte italiana - dal Futurismo alla Pop Art romana, all’Arte Povera e al
Neo Astrattismo - in dialogo con le avanguardie storiche (russe e dada) e
contemporanee (Nouveau Réalisme, Pop e Neo Pop) internazionali. Il “fil rouge”,
che dà riconoscibilità alla Collezione, è dunque l’astrattismo e la riflessione
sull’oggetto. Accanto alle opere, Danna ha avuto il merito di formare una
fondamentale collezione di libri, manifesti e documenti originali sul
Futurismo, oggi esposta nel nostro Spazio museale. Nel 2009, in occasione della
mostra di Klein a Lugano, Bruno Corà, allora direttore del Museo Civico, ci
chiese di collaborare con le costituende istituzioni culturali della Città di
Lugano. Da lì è nato un rapporto virtuoso poiché da subito abbiamo convenuto di
promuovere insieme la creazione del LAC e del MASI. Grazie alla disponibilità
del sindaco Giorgio Giudici, che ci fornì l’attuale spazio, e alla passione per
la cultura anche visiva della vicesindaca Giovanna Masoni, si avviò una
fruttuosa collaborazione pubblico-privato che portò alla promessa di donazione
della Collezione alla Città. In effetti, è ormai da tredici anni che, per
meglio conoscere la Collezione e i suoi principali contenuti, noi collezionisti
organizziamo mostre sulla base di progetti individuati da mia moglie Danna e
con la collaborazione dei quadri del MASI, di grandi curatori esterni e di
prestigiosi sponsor che, già come sono allineati dialogando con l’opera,
generano comunicazione».
Il MASI ha appena
nominato la sua nuova direttrice, Letizia Ragaglia. Cosa si augura con questo
cambio al vertice?
«Il Consiglio di
Fondazione ha fatto bene a nominare direttrice del MASI la dottoressa Letizia
Ragaglia, le cui esemplari capacità direzionali e curatoriali dimostrate presso
importanti musei (“Museion” di Bolzano, Museo del Liechtenstein) e in sede di audizione
hanno convinto tutti. Saprà fare un ottimo lavoro, malgrado i preoccupanti
tagli alla cultura che, a quanto mi consta, toccheranno anche il MASI. Il suo
predecessore, dott. Tobia Bezzola, nei suoi programmi, ha dato prevalentemente
e autorevolmente una spinta verso il Nord e ha assicurato ai collezionisti un
prezioso sostegno nell’organizzazione (partendo dalla collezione) di parecchie
mostre-progetto che hanno avuto grande successo di pubblico e di critica. Una
dimostrazione di quanto sia oggi fondamentale il rapporto fra privato e
pubblico per conseguire risultati di eccellenza anche sul piano internazionale
nel circuito del LAC. Chi gli succede ha, come si esprime il bando di concorso,
una perfetta conoscenza della lingua e della cultura visiva italiana con una
collaudata visione internazionale. Inoltre mi sembra un fattore decisivo,
accanto alle conoscenze artistiche, la sua forte capacità direzionale in grado
di sostenere lo sviluppo di un Museo generalista in un momento di difficoltà
finanziarie anche nella difficile integrazione con il LAC, un centro
polifunzionale, che ha saputo posizionare Lugano sullo scacchiere dei centri
culturali europei più interessanti».
Avvocato, a 87 anni
d’età quale sogno ha ancora nel cassetto?
«Penso che ognuno di noi
abbia un sogno nel cassetto. So che la cultura visiva e la cultura in generale
ti portano a raccontare l’essenza delle tue emozioni e conoscenze. Mi
piacerebbe un giorno poterle raccontare in modo divertente e senza prendermi
troppo sul serio a collezionisti più giovani perché sappiano che la Storia
dell’Arte è più importante delle eccessive follie finanziarie del mercato.
Benedetto Croce asseriva giustamente che “le vendette della storia sono
terribili”».