L'intervista

«Inseguendo l’identità perduta si favoriscono nuovi populismi»

Attento osservatore della realtà ticinese e internazionale, l’avvocato Giancarlo Olgiati offre il suo sguardo sul mondo che cambia, con un accenno alla sua grande passione, l’arte moderna e contemporanea
L’avvocato Giancarlo Olgiati, 87 anni, con la moglie Danna. © Ti-Press/Archivio
Paride Pelli
11.10.2025 06:00

Attento osservatore della realtà ticinese e internazionale, l’avvocato Giancarlo Olgiati, in questa lunga chiacchierata, ci offre il suo sguardo sul mondo che cambia, con un accenno alla sua grande passione, l’arte moderna e contemporanea.

Avvocato Olgiati, la ringrazio per aver accettato questa intervista e per aver infine assecondato la mia insistenza. Lo spunto è anche un suo scritto del 2024 pubblicato sui due quotidiani ticinesi, in cui lei ha messo l’accento sulla politica culturale laica, liberale e democratica, che oggi considera «sotto assedio». Perché e da chi?
«Va fatta una distinzione importante: la cultura liberal-democratica è sotto assedio per fattori sia interni che esterni. Qui mi concentro su quelli interni al Cantone, pur essendo il fenomeno diffuso in tutta la Svizzera e in Occidente. In Ticino, da oltre trent’anni, assistiamo a un deficit di cultura politica che ha indebolito i partiti liberal-democratici, come il PLR. Questi non riescono più a selezionare una classe dirigente né a elaborare una visione strategica, perché sono venuti meno sia la cultura dei mezzi (rigore fiscale e finanziario) sia quella dei fini (libertà individuali e giustizia sociale). Ne consegue anche l’abbandono della loro tradizionale vocazione interclassista. Questa crisi ha generato uno scollamento tra i vertici e le istituzioni, accentuando la personalizzazione della politica. Molti politici, anche liberal-democratici, inseguono un’identità perduta, favorendo nuovi populismi di destra e di sinistra. Il centro politico, un tempo ponte tra le parti, oggi non riesce più a fare da argine, contribuendo alla disaffezione e all’astensione. Ma la personalizzazione della politica in base a un interesse di parte ha colpito anche un vecchio movimento, la Lega, con lo scambio di dipartimenti fra consiglieri di Stato leghisti, operazione che ha segnalato difficoltà nella “Lega di Governo”. Una Lega, insomma, che è passata dalle virtù del primo movimento (che aveva capito la crisi dei partiti storici), all’involuzione di oggi più partitocratica che movimentista. Questa proposta ha galvanizzato solo i leghisti, perché ha portato complessivamente i migliori commentatori politici e non pochi cittadini a riflettere sul profilo istituzionale dei politici in Governo e in Parlamento. In effetti, a riguardo, la soluzione governativa di compromesso del “mini arrocco” non è certamente confortante e lo è ancora meno la sterile discussione in Gran Consiglio. Ritornando al funzionamento dei partiti, un segnale positivo arriva anche se tardivamente dal PLR con la nomina di quattro vice-presidenti di spessore politico e taluno anche culturale come l’avv. Natalia Ferrara, autrice di un bel libro che analizza il rapporto tra liberalismo e populismo. Anche la rivista Lib offre spunti interessanti, pur essendo troppo legata al PLR. È sempre fondamentale in un’ottica liberale tenere distinta la cultura dalla politica. È presto per parlare di un vero rilancio politico, ma resta forte e preziosa la tenuta delle istituzioni di democrazia diretta, come il referendum, che, salvo qualche sbavatura, in Ticino e in Svizzera continua a essere uno strumento efficace di partecipazione e controllo».

Attraversiamo un lungo periodo delicato e di grande preoccupazione a livello geopolitico: l’estremismo nazionalista la preoccupa?
«L’estremismo nazionalista rappresenta una deriva per le democrazie liberali. Un esempio è la crisi degli Stati Uniti sotto Donald Trump, che ha mostrato disprezzo per la separazione dei poteri, il ruolo dell’opposizione, di tutte le Autorità indipendenti a cominciare dalla Federal Reserve e del multilateralismo. Le sue politiche protezionistiche, nate anche dalla perdita di prestigio di una globalizzazione intrapresa troppo in fretta, hanno danneggiato il nostro Paese, l’Europa e l’Occidente liberale e minato la stabilità del sistema liberale, favorendo disuguaglianze e rischi economici. Anche se i due hanno litigato, come era prevedibile visto il loro super ego, i loro interessi contrastanti nella politica dei dazi e sulla legge di bilancio 2025 osannata da Trump e ripudiata da Musk siccome nefasta per l’economia USA, non si può dimenticare, come dato allarmante, che tra Trump e Elon Musk c’è stata un’alleanza non solo elettorale ma di collaborazione governativa con la prospettiva di una concentrazione di potere politico e tecnologico che avrebbe potuto e che ancora potrebbe, con gli altri big tech, minare la democrazia a vantaggio di pochi. Come dovevasi dimostrare, è notizia di qualche giorno fa che Elon e Donald si sono messi di nuovo d’accordo. I funerali del giovane Charlie Kirk hanno creato l’occasione che, tuttavia, era nell’aria… Questo nuovo “tecno-feudalesimo”, come lo definisce Yanis Varoufakis, rischia di trasformare il mondo in una scacchiera dominata da oligarchie industriali di stampo politico, con gravi conseguenze per la coesione sociale, le paci giuste e il diritto internazionale. Gli esiti dell’invasione russa dell’Ucraina ne sono un esempio, poiché il comportamento di Trump da aspirante autocrate è più vicino a Putin che ai leader democratici dell’Occidente. È quindi fondamentale difendere qui e in tutto l’Occidente le istituzioni liberali, confidando che negli Stati Uniti i meccanismi di garanzia reggano, nonostante un Congresso repubblicano latitante e una Corte Suprema pure repubblicana orientata su posizioni ideologiche super conservatrici. Fortunatamente, accanto alle big tech, oggi esentate dalla global tax del 15% dal G7 per evitare le rappresaglie di Trump su imprese e cittadini in particolare europei già con i dazi, c’è pure la vitalità del capitalismo privato americano. Quest’ultimo non ha alcun interesse per la politica e proprio per questo è in continua trasformazione grazie a innovazione, meritocrazia e integrazione sociale; è un capitalismo che vede nel modello californiano della Silicon Valley il suo punto più alto con imprenditori, ricercatori e dirigenti che vengono da ogni continente. Le oligarchie industriali sono più presenti in Europa e in Giappone che non negli USA. Questo formidabile sistema che produce innovazione e grande ricchezza è in grado di garantire agli USA di competere ancora con la Cina, che vorrebbe assumere, grazie all’errore dei dazi di Trump, una funzione da leader nella formazione di un nuovo ordine geopolitico mondiale. Sull’esempio dell’UE, il Consiglio federale ha l’intenzione di prendere, anche se tardivamente, una strada tesa a imporre per legge un tributo (in particolare una “digital tax”) alle autostrade del digitale. È necessario che queste iniziative di regolamentazione di siffatte piattaforme resistano ai ricatti sui dazi di Trump. In effetti, i giganti del web hanno dichiarato di essere paladini della “libertà di espressione”. Donald Trump non ha trovato di meglio che sostenere questa posizione al punto che ogni tentativo di disciplinare rete e social è considerato “mera censura”. Si tratta ovviamente di un’affermazione arbitraria e ipocrita. Se, come dice l’ultimo numero di agosto della Neue Zürcher Zeitung am Sonntag, vogliamo accettare che il web sia un “mondo parallelo”, in cui tutto è lecito, dobbiamo prepararci al peggio (pettegolezzo, ricatto, umiliazione e violenza principalmente sulle donne)».

Con la morte di papa Francesco, si è persa una voce forte e scomoda che ha saputo richiamare l’etica nel dibattito globale. Il suo messaggio è stato spesso più ascoltato dai laici che dai credenti

Un nuovo Papa popolare per una Chiesa aperta al dialogo può aiutare?
«Con la morte di papa Francesco, si è persa una voce forte e scomoda che ha saputo richiamare l’etica nel dibattito globale. Il suo messaggio è stato spesso più ascoltato dai laici che dai credenti. Pur non avendo colto appieno il potenziale del capitalismo sociale di mercato, ha indicato la via a una necessaria solidarietà dell’Occidente libero fondata su libertà e giustizia al servizio della pace. La scelta del nuovo Papa, americano e agostiniano, Robert Francis Prevost, va in una continuità più ordinata: cresciuto tra Chicago e il Perù, conosce le ragioni dell’efficienza al servizio della libertà e della giustizia sociale. Il suo primo messaggio ha richiamato a una “pace disarmata e disarmante”, rivolgendosi non solo alla Chiesa, ma anche alla politica. Il suo appello ha ridato fiducia alle democrazie liberali nel sostegno dell’Ucraina contro l’autocrate Putin, che sperava in una legittimazione internazionale già favorita inizialmente e incautamente da Trump, che tuttavia, anche se in cuor suo l’ammira, si è accorto, non ottenendo nulla di concreto per la pace, che è necessario avere qualche dubbio sull’affidabilità di un guerrafondaio come Putin e sulla sua propaganda. È chiaro che una legittimazione così plateale come l’incontro in Alaska non doveva essere data anche perché in questi ultimi tempi è stata profondamente scalfita dagli insuccessi della sua politica d’alleanze (il crollo del regime di Assad, il palese indebolimento della Repubblica islamica dopo il massiccio attacco prima israeliano e poi, ancora più risolutivo, americano contro il possibile sviluppo di un uso dell’energia atomica a scopo militare). Queste guerre si scatenano perché oggi esistono ormai solo i rapporti di forza e il diritto internazionale è già da tempo non praticato. È talmente vero che l’azione di Trump ha portato a una tregua fra Israele e Iran. L’accordo di pace appena siglato in Medio Oriente è una espressione di questo tipo, tuttavia accompagnata da un notevole disegno politico di Trump e della sua amministrazione, in cui c’è però anche l’abilità di Tony Blair. Questa azione ha coinvolto tutti i Paesi arabi moderati costringendo Netanyahu a trattare e a fermare due forze genocide che animano, come in una tragedia greca, lo scontro, come sottolineato da Sergio Fabbrini su “Il Sole 24 ORE”, fra due “teocrazie politiche” (i partiti religiosi, che sorreggono il Governo israeliano, da una parte e Hamas, soggetto dominante nella gestione dello Stato palestinese, dall’altra). In effetti, a fronte dell’aggressione criminale e genocida di Hamas del 7 ottobre 2023, che ha scatenato la guerra contro lo Stato di Israele e gli ebrei nel mondo, ambedue nemici che non hanno diritto di esistere, c’è stata una reazione sproporzionata del Governo israeliano dominato dai partiti religiosi che si è rapidamente trasformata in un genocidio non solo nei confronti di Hamas, ma anche in quelli del popolo palestinese perché ambedue non hanno diritto di esistere… Ora un accordo è stato trovato: Hamas è finalmente pronto a restituire tutti gli ostaggi e Israele a iniziare il ritiro da Gaza delle sue truppe. A questo punto, l’Europa (l’UE), con l’aiuto del papa americano, potrebbe rilanciare diritto e democrazia (cominciando a partecipare al processo di pace in Medio Oriente). Ma è purtroppo sinora ancora troppo assente perché non riesce a concepirsi pienamente come soggetto politico autonomo in una prospettiva internazionale. Tutte le democrazie liberali europee hanno estremo bisogno del soggetto politico UE sempre più deburocratizzato e liberale e con esse la Svizzera se dovesse approvare con il Governo e le Camere l’accordo con l’UE. Accordo che occorrerebbe poi fare il possibile affinché sia approvato dal popolo e dai Cantoni rendendo così più attuale il concetto di “neutralità”, tanto per la sua sicurezza quanto per la sua economia».

Torniamo al Ticino, avvocato. Lei è stato membro del Gran Consiglio ticinese dal 1971 al 1989 e sostiene che oggi nei partiti e fra i partiti il dibattito è sempre più assente. Qual è il motivo?
«La crisi della cultura politica ha portato alla scomparsa del dibattito pubblico, un tempo vivo e produttivo nei partiti e tra i partiti. Ne beneficiava anche la stampa, sia di partito che indipendente. Il PLRT, ad esempio, poteva contare su una rivista di alto livello come “Ragioni Critiche”, che ebbi l’onore di dirigere. Ma ne beneficiava anche il rigore amministrativo, che precedeva ogni scelta politica. Oggi, invece, il confronto si è impoverito. I partiti privilegiano logiche di schieramento, trascurando i contenuti. Una rara eccezione è il PLR di Lugano, in cui Natalia Ferrara, autrice dell’importante libro già citato su liberalismo e populismo, ha condotto come capo gruppo in Consiglio comunale un’opposizione intelligente e ferma. Lo dimostra il puntuale intervento critico sulle nomine nelle partecipate comunali decise dalla maggioranza in barba a conflitti di interessi e competenza. Oggi, in un clima conformista, iniziative come queste sono coraggiose e necessarie per rilanciare il PLR e renderlo competitivo, in particolare nella corsa alla sindacatura. In questo contesto è preziosa la forza tranquilla di Roberto Badaracco che, come presidente del Consiglio di Fondazione, ha portato il LAC, che ha appena festeggiato dieci anni dalla sua fondazione, a livelli di eccellenza culturale dimostrando quanto assurdo fosse l’iniziale contrasto della Lega e provvida, intelligente e coraggiosa la realizzazione del progetto da parte di Giovanna Masoni, progetto pure fortemente voluto dal sindaco Giudici. Siccome il dibattito politico ai tempi nostri si è azzerato, si dà il caso che, dopo gli esiti dei referendum di domenica 28 settembre, la situazione della finanza pubblica a livello cantonale si è ancora più aggravata a causa di una assurda riforma della già defunta legge sulla cassa malati. Un’iniziativa che ha provocato un pesantissimo aumento del debito pubblico di mezzo miliardo (strutturalmente in crescita per le spese in particolare quelle mediche) grazie ai referendum promossi dagli opposti estremismi populisti (PS e Lega) e in assenza di un controprogetto razionale e creativo del Governo e della mancanza in sua vece di una proposta di siffatta natura dei partiti storici. A questo punto, il PLRT deve ridefinire ruolo e strategia allo scopo di evitare un pesante aumento delle imposte e cercare una possibile alleanza di “volenterosi” composta da parlamentari con una solida preparazione finanziaria che provengono sia dal proprio gruppo parlamentare che dalla vecchia destra di tradizione liberale ora targata UDC-Lega (in quella componente è di riferimento il sindaco di Lugano), dal Centro e dalla Sinistra moderata che ha lasciato il PS per avere numeri, competenze e comune visione per il bene del Paese. In effetti, un eccessivo aumento delle imposte creerebbe un’ulteriore disaffezione verso la politica da parte di quei cittadini che vi partecipano razionalmente».

Per me la difesa della stampa indipendente è un tema cruciale. Da tempo sollevo la questione, avvertendo i segnali di crisi. Già in passato, avevo accolto con favore il primo intervento federale a sostegno della stampa locale, purtroppo respinto da un referendum

Avvocato, cosa pensa delle sorti della stampa indipendente cantonale e del canone RSI?
«Per me la difesa della stampa indipendente è un tema cruciale. Da tempo sollevo la questione, avvertendo i segnali di crisi. Già in passato, avevo accolto con favore il primo intervento federale a sostegno della stampa locale, purtroppo respinto da un referendum. Oggi i segnali sono finalmente beneauguranti, e si torna finalmente a discutere di soluzioni. È di pochi giorni fa la luce verde del Gran Consiglio per un concreto sostegno ai giornali ticinesi, mentre già in precedenza, a Berna, il Consiglio nazionale aveva approvato un aumento degli aiuti indiretti ai media regionali, portandolo da 30 a 40 milioni di franchi. In un’epoca dominata dai media globali, che assorbono pubblicità e contenuti senza regole né compensazioni, è giusto che lo Stato intervenga per proteggere la stampa indipendente, fondamentale per la difesa della democrazia. Lo stesso discorso vale naturalmente per la RSI, la maggiore industria culturale della Svizzera italiana, ora minacciata da un’iniziativa contro il canone. Un’iniziativa nata senza considerare i cambiamenti epocali nel mondo della comunicazione, che rischia di privarci di un’informazione libera e approfondita, decisiva insieme con una neutralità attiva anche per il posizionamento internazionale della Svizzera, come dimostrano i recenti negoziati sui dazi fra USA e Cina a Ginevra. Infine, va ricordato un fattore spesso trascurato: l’invecchiamento della popolazione. Gli anziani, che ne sono i più grandi utilizzatori, hanno bisogno di accesso garantito a quotidiani, radio e televisione. Per concludere: difendere stampa e servizio pubblico è un dovere. Serve una riflessione più matura per respingere proposte sbagliate, nate fuori tempo».

Lei è stato pure presidente della Commissione tributaria del Governo cantonale: perché il nostro Cantone non riesce a diventare quell’Eldorado che per peculiarità potrebbe rappresentare all’interno del Paese?
«Negli anni ’90 e nei primi 2000, il Ticino era tra i cantoni più competitivi sul piano fiscale. Questo risultato derivava da un lavoro rigoroso delle commissioni tributarie e da governi competenti. Il migliore fu quello guidato da Buffi, Masoni e Martinelli che, in sinergia con il Municipio di Lugano (Giudici e Valeria Galli), seppe coniugare gestione finanziaria e sviluppo culturale, avviando tra l’altro la fondazione dell’USI nel 1996. La Commissione tributaria, che allora dirigevo, era composta solo da tecnici e guidata da un direttore del fisco di esemplare competenza come Edy Dell’Ambrogio. Si impostò una politica fiscale attrattiva: il Ticino occupava il terzo posto a livello nazionale. C’era consapevolezza dei rischi della concorrenza fiscale tra cantoni e contestualmente di un attento controllo della spesa pubblica. Questo modello virtuoso favorì lo sviluppo di attività economiche, culturali e sanitarie. Da oltre vent’anni, però, quel metodo è stato abbandonato: oggi il debito pubblico è fuori controllo e la pressione fiscale è tra le più alte della Svizzera. Il Ticino, pur avendo una posizione geografica privilegiata, vede diminuire la propria ricchezza fiscale. Il debito è del 12% superiore a quello dei cantoni più virtuosi e genera costi fissi insostenibili. Gli scioperi a riguardo sono di conseguenza dannosamente corporativi. Serve una “cura dimagrante” nella pubblica amministrazione: non sostituire chi va in pensione e tagliare i costi della spesa improduttiva. Una strategia già vincente a fine anni ’70, grazie al governo Sadis–Speziali, che riportò ordine nelle finanze cantonali».

Il Ticino non ha mai avuto una forte tradizione industriale liberale e orientata all’esportazione, come richiede il mercato internazionale. Tuttavia, negli ultimi 50 anni, l’industria ticinese ha conosciuto uno sviluppo significativo, grazie all’innovazione in diversi settori con prodotti esportati in tutto il mondo

Se la politica ha perso smalto, è innegabile che nel settore delle Scienze dei servizi e dell’Industria si sono fatti importanti passi avanti nel nostro cantone. È d’accordo?
«Il Ticino non ha mai avuto una forte tradizione industriale liberale e orientata all’esportazione, come richiede il mercato internazionale. Tuttavia, negli ultimi 50 anni, l’industria ticinese ha conosciuto uno sviluppo significativo, grazie all’innovazione in diversi settori con prodotti esportati in tutto il mondo. Questo successo si deve a un’economia sempre più integrata a livello globale, a servizi finanziari efficienti sul territorio, all’introduzione di nuove tecnologie e alla competitività fiscale. Un ruolo fondamentale lo ha avuto anche il frontalierato, che ha garantito manodopera, dagli operai agli specialisti. Questa dinamica economica ha contribuito anche alla nascita delle università ticinesi, in particolare l’USI, che oggi restituiscono valore al territorio formando capitale umano per industria e servizi».

Lei è anche e soprattutto uomo di cultura ed esperto di arti visive. Partirei ricordando il suo impegno nella creazione della Fondazione “Montecinemaverità”. Ce ne vuole parlare?
«La Fondazione “Montecinema Verità” nacque nel 1992 su iniziativa di Marco Müller, allora direttore del Festival di Locarno, con il supporto mio e di Harald Szeemann. Il mio supporto si rivelò essenziale grazie al fondamentale contributo finanziario (e dei servizi di comunicazione creati dalla genialità di Luciano Benetton e Oliviero Toscani) del Gruppo Benetton (50%) e a quello meno rilevante di RTSI (20%), Swisscom (20%) e della Divisione della Cooperazione e dello Sviluppo svizzera (10%). La Fondazione poté così avviarsi con successo e Szeemann, figura di spicco nel mondo dell’arte, fu presidente; io ne fui vicepresidente esecutivo, con Müller direttore. Nel consiglio sedevano anche Fabio Fumagalli e Federico Jolli per la loro competenza cinematografica. Contemporaneamente, entrai nel Consiglio di Amministrazione del Festival. La Fondazione aveva l’obiettivo di promuovere le cinematografie del Sud e dell’Est del mondo, allora poco conosciute. Con risorse contenute, riuscimmo a trasformare il Festival di Locarno in un evento riconosciuto a livello internazionale come “il primo dei piccoli festival”. Grazie all’appoggio di Buffi, Masoni e Martinelli, il Cantone raddoppiò il contributo al Festival, riducendo la dipendenza dalla Confederazione e da influenze esterne come la RTSI nelle nomine apicali. Nel 2000 Müller lasciò il Festival e assunse accanto a Laura Pollini la direzione di Fabrica con cui produsse il film “No Man’s Land” con la regia di Danis Tanović, vincitore del Premio Oscar come miglior film straniero, grazie alla partecipazione organizzata dal sottoscritto, di Benetton (45%), Rai (25%), RTSI (25%) e Tanović (5%) sotto l’egida e la promozione di Montecinemaverità e Fabrica. Il Ticino visse in quegli anni una stagione di grande prestigio culturale. Sarebbe giusto, oggi, che il Festival di Locarno ricordasse con gratitudine quel periodo e ne traesse ispirazione per il futuro».

Il mio interesse per l’arte è cominciato molto presto, poiché a 18 anni con tutti i miei risparmi comprai la mia prima opera. Si trattava di una tecnica mista di Edmondo Dobrzanski rappresentante una scena di lavori ferroviari con figure espressioniste di stile un po’ sironiano

Restiamo nell’ambito del mondo dell’arte, quello che oggi la vede in prima fila con una collezione straordinaria tra i fiori all’occhiello della città di Lugano: quando è iniziata questa travolgente passione del collezionismo?
«Il mio interesse per l’arte è cominciato molto presto, poiché a 18 anni con tutti i miei risparmi comprai la mia prima opera. Si trattava di una tecnica mista di Edmondo Dobrzanski rappresentante una scena di lavori ferroviari con figure espressioniste di stile un po’ sironiano. Edmondo era un artista espressionista, forse l’artista ticinese più importante di quegli anni. L’Espressionismo era la tendenza che più avevo guardato dopo la Seconda Guerra Mondiale. Mostrava bene la condizione di sofferenza dell’uomo e della società durante e dopo le guerre del Novecento. Ricordo che, ascoltando con grande interesse i racconti di Dobrzanski, comprai un paio di anni dopo, sempre con grandi sforzi finanziari, prima otto disegni di Alfred Kubin e poi tre acquarelli e cinque disegni di Ludwig Kirchner, che rappresentano le sue ultime opere prima del suicidio. Capii che collezionare era la mia vera passione, perché non dissi mai nulla a mio padre e questi acquisti furono possibili solo grazie a grandi sacrifici personali. Anche il confronto fra l’avanguardia contemporanea (le opere di Edmondo Dobrzanski) e l’avanguardia storica (le opere di Alfred Kubin - protagonista del “Blaue Reiter” e quelle di Ludwig Kirchner - protagonista della “Brücke”), fu un metodo che individuai da subito e che non mi abbandonò mai».

Lei sostiene che il metodo è fondamentale per creare una grande collezione. È, quindi, giusto avere uno sguardo sull’Avanguardia storica per meglio capire l’Avanguardia contemporanea. Significa capire le ascendenze?
«Come ho detto sopra, è un metodo che ho sempre seguito nei miei acquisti. Vedi i “Nouveaux Réalistes”, il cui rapporto con le Avanguardie Storiche (Futurismo e Dadaismo) è evidente. Un esempio è Arman, artista che amavo e amo e di cui fui anche avvocato. Quando ho acquistato una sua “Allure d’Objets” ho riconosciuto subito l’influenza di Balla, e così è stato con le “Accumulazioni” discendenti da Schwitters. Credo sia fondamentale individuare le “ascendenze” degli artisti contemporanei: più un artista conosce il proprio debito verso chi l’ha preceduto, più è significativo il suo lavoro. Secondo me, questa è una chiave di lettura importante per valutare un’opera prima dell’acquisto».

La mia attività di collezionista fu sin dall’inizio un percorso solitario, segnato soprattutto dagli acquisti di opere del Nouveau Réalisme. Fu Arman, conoscendo la mia passione per Balla, a introdurmi nel 1985 alla Galleria Fonte d’Abisso, dove acquistai due opere di Balla e conobbi Danna, titolare della Galleria (specializzata nei futuristi) e che sarebbe diventata la compagna della mia vita

Si dice Giancarlo Olgiati e si pensa subito al sodalizio con sua moglie Danna. Ci vuole parlare di questo incontro decisivo?
«La mia attività di collezionista fu sin dall’inizio un percorso solitario, segnato soprattutto dagli acquisti di opere del Nouveau Réalisme. Fu Arman, conoscendo la mia passione per Balla, a introdurmi nel 1985 alla Galleria Fonte d’Abisso, dove acquistai due opere di Balla e conobbi Danna, titolare della Galleria (specializzata nei futuristi) e che sarebbe diventata la compagna della mia vita. Da quel momento la Collezione è cresciuta con coerenza e discrezione, guidata da un’intesa mai venuta meno. Ogni acquisto è stato condiviso. Frequentando il mondo dell’Arte abbiamo anche visitato insieme molte gallerie, vere scuole di formazione, e abbiamo costruito una Collezione centrata sull’arte italiana - dal Futurismo alla Pop Art romana, all’Arte Povera e al Neo Astrattismo - in dialogo con le avanguardie storiche (russe e dada) e contemporanee (Nouveau Réalisme, Pop e Neo Pop) internazionali. Il “fil rouge”, che dà riconoscibilità alla Collezione, è dunque l’astrattismo e la riflessione sull’oggetto. Accanto alle opere, Danna ha avuto il merito di formare una fondamentale collezione di libri, manifesti e documenti originali sul Futurismo, oggi esposta nel nostro Spazio museale. Nel 2009, in occasione della mostra di Klein a Lugano, Bruno Corà, allora direttore del Museo Civico, ci chiese di collaborare con le costituende istituzioni culturali della Città di Lugano. Da lì è nato un rapporto virtuoso poiché da subito abbiamo convenuto di promuovere insieme la creazione del LAC e del MASI. Grazie alla disponibilità del sindaco Giorgio Giudici, che ci fornì l’attuale spazio, e alla passione per la cultura anche visiva della vicesindaca Giovanna Masoni, si avviò una fruttuosa collaborazione pubblico-privato che portò alla promessa di donazione della Collezione alla Città. In effetti, è ormai da tredici anni che, per meglio conoscere la Collezione e i suoi principali contenuti, noi collezionisti organizziamo mostre sulla base di progetti individuati da mia moglie Danna e con la collaborazione dei quadri del MASI, di grandi curatori esterni e di prestigiosi sponsor che, già come sono allineati dialogando con l’opera, generano comunicazione».

Il MASI ha appena nominato la sua nuova direttrice, Letizia Ragaglia. Cosa si augura con questo cambio al vertice?
«Il Consiglio di Fondazione ha fatto bene a nominare direttrice del MASI la dottoressa Letizia Ragaglia, le cui esemplari capacità direzionali e curatoriali dimostrate presso importanti musei (“Museion” di Bolzano, Museo del Liechtenstein) e in sede di audizione hanno convinto tutti. Saprà fare un ottimo lavoro, malgrado i preoccupanti tagli alla cultura che, a quanto mi consta, toccheranno anche il MASI. Il suo predecessore, dott. Tobia Bezzola, nei suoi programmi, ha dato prevalentemente e autorevolmente una spinta verso il Nord e ha assicurato ai collezionisti un prezioso sostegno nell’organizzazione (partendo dalla collezione) di parecchie mostre-progetto che hanno avuto grande successo di pubblico e di critica. Una dimostrazione di quanto sia oggi fondamentale il rapporto fra privato e pubblico per conseguire risultati di eccellenza anche sul piano internazionale nel circuito del LAC. Chi gli succede ha, come si esprime il bando di concorso, una perfetta conoscenza della lingua e della cultura visiva italiana con una collaudata visione internazionale. Inoltre mi sembra un fattore decisivo, accanto alle conoscenze artistiche, la sua forte capacità direzionale in grado di sostenere lo sviluppo di un Museo generalista in un momento di difficoltà finanziarie anche nella difficile integrazione con il LAC, un centro polifunzionale, che ha saputo posizionare Lugano sullo scacchiere dei centri culturali europei più interessanti».

Avvocato, a 87 anni d’età quale sogno ha ancora nel cassetto?
«Penso che ognuno di noi abbia un sogno nel cassetto. So che la cultura visiva e la cultura in generale ti portano a raccontare l’essenza delle tue emozioni e conoscenze. Mi piacerebbe un giorno poterle raccontare in modo divertente e senza prendermi troppo sul serio a collezionisti più giovani perché sappiano che la Storia dell’Arte è più importante delle eccessive follie finanziarie del mercato. Benedetto Croce asseriva giustamente che “le vendette della storia sono terribili”».